La posizione geografica dell’Uzbekistan ne ha favorito un certo vantaggio rispetto agli altri Paesi dell’area, ma al tempo stesso ha posto le basi per una frammentazione socio-culturale che in teoria potrebbe far implodere lo Stato. La presenza di gruppi terroristici dà a Taškent il pretesto di stringere le maglie della repressione, anche ingigantendo la reale entità delle minacce interne.
L’Uzbekistan è un territorio geograficamente eterogeneo ed etnicamente frammentato. La presenza di alcune zone che sfuggono al controllo, altrimenti capillare, di Taškent ha fatto sì che per la classe dirigente uzbeca sorgesse ben presto un imperativo pressante: preservare ad ogni costo l’integrità del Paese. Il pericolo dell’instabilità è stato sapientemente aggirato dai due presidenti uzbechi che si sono succeduti dal 1991 ad oggi, tenendo lontano il popoloso Stato centro-asiatico dalle vicende caotiche che hanno, invece, interessato quasi tutte le altre repubbliche ex sovietiche. Ma serve realmente condurre una lotta senza quartiere al terrorismo in Uzbekistan?
Una regione in subbuglio
Il territorio compreso tra il Syr Darya a nord e l’Amu Darya a sud, il lago d’Aral ad ovest e le montagne del Tien Shan ad est rappresenta la regione più florida dell’Asia centrale. Un folto numero di persone è stanziato in questo fazzoletto di terra, tutto sommato non di dimensioni rilevantissime se paragonato al ben più esteso Kazakistan. Il fatto di controllare buona parte della valle del Fergana, cuore pulsante della regione centro-asiatica, le grandi città della Via della Seta come Samarcanda, Bukara e Khiva, unitamente a Taškent, centro amministrativo di primo livello sia durante l’epoca zarista sia in quella sovietica, ha assicurato all’Uzbekistan indipendente una posizione di vantaggio rispetto agli altri Stati dell’area. La capacità statuale del Paese, infatti, si è dimostrata fin da subito superiore rispetto a quelle degli altri quattro –stan, che in modi diversi dopo il crollo del comunismo hanno dovuto ricostruirsi un’amministrazione burocratica e una classe dirigente.
Gli anni Novanta hanno rappresentato un periodo di assestamento, con sussulti in Kazakistan e Kirghizistan e una lunga guerra civile in Tagikistan, dovuta all’odio atavico tra diverse tribù, a fattori religiosi ed a spinte di matrice terroristica che giungevano dal vicino Afghanistan. È stata questa la fase in cui Islam Karimov, primo presidente della repubblica uzbeca, ha deciso di chiudere il Paese a buona parte dei contatti con il mondo esterno per coltivare le proprie reti clientelari all’interno dello Stato, senza il rischio di interferenze che potessero alimentare spinte centrifughe tra le diverse tribù che compongono il mosaico etnico uzbeco. L’etnia uzbeca, difatti, pur essendo prevalente nello Stato, non è omogenea al proprio interno, risultando spezzettata in una pletora di tribù. Il pragmatico leader del Paese ha saputo attirare a sé e depotenziare progressivamente le diverse fazioni, accentrando ricchezze nelle mani del proprio gruppo familiare.
Dalla massima pressione ai tentativi di distensione
Nella prima decade degli anni Duemila il regime uzbeco ha subito una svolta importante: se la guerra scatenata dagli Stati Uniti contro l’Afghanistan ha visto Taškent presente tra le schiere degli alleati della Casa Bianca, con i fatti di Andijan nel 2005 il Paese ha impresso una forte stretta alle proprie relazioni con l’Occidente. Richiusosi su se stesso, l’Uzbekistan di Karimov ha perseguito costantemente una politica di lotta all’opposizione e, contemporaneamente, al terrorismo di matrice islamica, da sempre presente nel Paese. I metodi spregiudicati utilizzati dalle forze di sicurezza uzbeche e l’estrema arbitrarietà nel ricorso alla giustizia hanno caratterizzato questo periodo come uno dei più cupi, comprimendo la libertà di culto e diffondendo una cultura del sospetto. In molti casi anche oppositori politici del regime sono stati oggetto di pesanti conseguenze, soprattutto se si riusciva a dimostrare il legame tra questi e movimenti terroristici presenti, o presunti, nel Paese.
La seconda decade degli anni Duemila ha visto un allargamento delle maglie della repressione, grazie alla transizione di potere avutasi dopo la morte di Islam Karimov e l’elezione del suo Primo ministro Shavkat Mirziyoyev alla guida del Paese. Nonostante un tentativo di liberalizzare l’Uzbekistan e di migliorare le condizioni della sua società, tuttavia, il timore che lo Stato potesse andare incontro ad una frammentazione nel caso in cui fosse stato lasciato troppo spazio alla religione ed alle spinte etno-tribali, così come all’opposizione politica, ha fatto sì che anche il nuovo presidente abbia mantenuto una generale avversione nei confronti di quelli che considera rischi per la sopravvivenza dell’architettura statale stessa.
Quanti sono i movimenti terroristici uzbechi?
In Uzbekistan la laicizzazione forzata di matrice comunista ha stentato ad attecchire. Facendo leva soprattutto sulla componente etno-culturale su cui riposa la religiosità centro-asiatica, durante gli ultimi decenni del regime comunista il Paese ha riscoperto le proprie radici musulmane e ha posto le basi per quel risveglio nazionale che si è poi affermato dopo l’indipendenza nel 1991. La religiosità uzbeca, tuttavia, non è stata esente da contaminazioni di matrice estremistica e terroristica, sicché una delle primissime preoccupazioni del presidente Islam Karimov è stata quella di reprimere con forza ogni movimento fondamentalista si trovasse sul suolo uzbeco.
Ci sono due territori che hanno destato preoccupazione nella classe dirigente uzbeca per la propria capacità di rappresentare, potenzialmente, due bombe ad orologeria pronte ad esplodere. Si tratta della valle del Fergana, in cui un mosaico etnico si accompagna a tensioni interstatali e dove opera storicamente il maggior numero di gruppi terroristici del Paese, e la repubblica autonoma del Karakalpakistan, steppica e scarsamente popolata, ma non meno foriera di problemi per Taškent, visti gli stretti legami etnici tra i caracalpachi e i vicini kazaki, con la conseguente minaccia rappresentata dal separatismo.
I principali movimenti terroristici attivi in Uzbekistan sono Hizb ut-Tahrir, l’Islamic Movement of Uzbekistan, Akromiya, Tabligh, Uzun soqol, Adolat uyushmasi, Islom lashkarlari, Tavba, Nurchilar e Jamaat-e Tablighi. La maggior parte di queste organizzazioni è attiva nella valle del Fergana, dove si avvantaggia del coacervo di etnie e della presenza di persone emarginate. Il vicino Kirghizistan, inoltre, a causa della propria debolezza ha rappresentato per i terroristi una sorta di porto sicuro in cui rifugiarsi ogni qual volta la repressione in Uzbekistan raggiungeva livelli eccessivi. Guidati in molti casi da idee fondamentaliste wahabite, quando non finanziati direttamente dall’estero, i movimenti terroristici uzbechi sono stati coinvolti in operazioni sia all’interno dello Stato, con una serie di attentati come quello a Taškent nel 1999, sia all’esterno, partecipando alla guerra civile tagica, compiendo rapimenti e venendo impiegati come foreign fighters in vari teatri. In Uzbekistan, in particolare, lo scopo delle azioni era dichiaratamente diretto a rovesciare il dispotico regime del primo presidente Karimov, sebbene ogni organizzazione avesse una propria “agenda”.
Oppositore politico, religioso, di un’etnia diversa: identikit del capro espiatorio perfetto
Il tema della lotta ai separatismi interni, reali o potenziali, e al terrorismo si innesta su un più generale processo di costruzione dell’architettura nazionale che in Uzbekistan non è ancora oggi del tutto completo. Sebbene il Paese abbia ereditato una solida tradizione burocratico-amministrativa dalle passate dominazioni, al proprio interno si presenta diviso in varie etnie, e ciascuna di queste risulta frammentata in molteplici tribù che influenzano la coesione territoriale. Non stupisce, dunque, che la repressione del terrorismo, del separatismo e dell’opposizione politica sia stata portata avanti in un quadro di forte accentramento del potere nelle mani della famiglia Karimov, che nel primo venticinquennio seguito all’indipendenza del Paese ha imbastito un sistema cleptocratico in grado di occultare enormi flussi di denaro pubblico e di tangenti.
Spesso il ricorso alla repressione motivata da rischi terroristici è stato utilizzato per mettere fuori dai giochi persone altrimenti politicamente scomode e per aumentare ulteriormente i controlli sulla società uzbeca. Basti pensare ai rigidi controlli nelle metropolitane e al divieto per i venditori di frutta di stazionare nei luoghi affollati quando portavano in vendita angurie e meloni, vista la facilità nell’occultare esplosivi all’interno dei grossi frutti. Allo stesso modo le pratiche religiose più evidenti sono state significativamente scoraggiate, soprattutto quelle che comportassero assembramenti e socialità. Il tentativo portato avanti dal regime di Karimov era di isolare gli uzbechi e spezzare i legami sociali millenari che caratterizzano il Paese, in modo da permettere al potere statale di penetrare e pervadere lo Stato.
Inoltre, forte è stato il processo di “uzbechizzazione”, assimilazione delle popolazioni stanziate sul suolo nazionale, spesso appartenenti a gruppi etnici privi di uno Stato di riferimento. E si sono avuti episodi di scontri e violenza ai danni di alcune etnie in particolare, come i meskhi turco-georgiani della valle del Fergana, che furono fatti emigrare in seguito ad un violento pogrom esploso nel 1989 – ancor prima che l’Uzbekistan ottenesse l’indipendenza.
Quando la paura diventa un’ossessione
In tema di separatismo, tuttavia, le preoccupazioni governative sono andate ben oltre la realtà delle cose, giacché in trent’anni di indipendenza non si è mai avuta una reale spinta alla secessione in alcun territorio uzbeco. Eppure nel 2014, quando in Ucraina si è iniziato a combattere nel Donbass, Taškent ha rapidamente richiamato in patria tutti i suoi studenti presenti nel Paese, con speciale riguardo per i caracalpachi, temendo che questi ultimi potessero apprendere tattiche di guerriglia da importare in Uzbekistan per fomentare improbabili sollevazioni separatiste nella repubblica autonoma. Allo stesso modo sono stati in più occasioni richiamati in patria studenti uzbechi dalla Turchia, dall’Egitto e da altri Paesi in cui, secondo Taškent, vi potesse essere il rischio di incorrere in un’istruzione coranica che nello Stato centro-asiatico non è ritenuta accettabile, se non sotto lo stretto controllo statale.
L’arrivo di Shavkat Mirziyoyev alla guida del Paese ha segnato una graduale distensione nell’atteggiamento della politica uzbeca verso le diversità, siano esse elettorali, religiose o etniche. Ciononostante, lo Stato appare ancora poco preparato a tenere un approccio sereno nei confronti di chi non condivida la visione d’insieme del regime, come emerso nel corso delle ultime elezioni, poco trasparenti e fortemente sbilanciate nei confronti del leader uscente, subito riconfermato alla guida del Paese senza una reale opposizione. Altrettanto fredda è la relazione tra l’attuale presidente e la religione, vista ancora con sospetto e come fonte di proselitismo per cellule terroristiche. Uno dei motivi per i quali Taškent ha trattato fin da subito con i Talebani, dopo che questi hanno ripreso il potere in Afghanistan, è che l’Uzbekistan vuole tenere confinata all’interno delle frontiere afghane la proiezione del nuovo governo di Kabul. Si tratta di un passaggio obbligato se si vuole evitare che da sud arrivino armi, soldi e terroristi per ravvivare le tensioni nella fragile valle del Fergana e nelle regioni uzbeche meno controllate. Trent’anni di indipendenza non sono bastati a completare il processo di costruzione nazionale. Evitare che il Paese si spacchi resta ancora la prima preoccupazione per la leadership uzbeca.