La visita di Putin in Iran conferma i capisaldi della politica estera di Mosca nella regione: rispetto, scambi e reciproca convenienza. Per le autocrazie locali l’Ucraina resta in secondo piano, se non sullo sfondo.
Ora che l’urgenza dell’attualità si è un po’ spenta, proviamo a riflettere sulla recente visita di Vladimir Putin in Iran, con annesso incontro con il leader turco Recep Tayyep Erdogan. Una due giorni diplomatica non facile, per il leader del Cremlino, evidentemente segnata dal bisogno di ritirare, in un momento così difficile per la Russia, parte dei crediti maturati in passato, dovendo però tener conto di interlocutori che, a partire da Erdogan, hanno interessi non meno marcati e non si fanno scrupoli nel perseguirli approfittando dello scontro epocale in atto tra Russia e Usa e Ue. Eppure Putin qualcosa ha portato a casa. Emblematica la foto finale, con Erdogan, Putin e il presidente iraniano Ebrahim Raisi che si tengono per mano, un’immagine che Annalene Baerbock, ministra degli Esteri della Germania, ha definito “a dir poco una sfida”. Dagli incontri di Teheran è uscita la conferma dell’accordo per l’esportazione del grano dai porti ucraini (e sarebbe interessante sapere quale sia il vero patto Russia-Turchia che sta dietro questa intesa) e il consolidamento di quell’International North-South Transport Corridor che collega l’India alla Russia, ha nell’Iran un pivot fondamentale ed è uno degli assi lungo cui la Russia cerca di sviluppare relazioni politiche ed economiche alternative a quelle, ormai compromesse, con l’Europa. Insomma: per quante ombre possiamo trovare, la visita di Putin in Iran è stata di certo più produttiva di quella di Joe Biden in Arabia Saudita.
Vladimir Putin, d’altra parte, è l’uomo che ha riportato la Russia in Medio Oriente dopo un’assenza durata in pratica dal 1972, ovvero da quando il presidente egiziano Anwar al-Sadat decise di spostarsi verso l’orbita americana e cacciò i circa 20 mila consiglieri militari sovietici presenti nel Paese. Diventato presidente nel 2000, Putin fu piuttosto rapido nel rovesciare la tendenza: dal 2005 al 2007 visitò Egitto, Israele, Arabia Saudita, Giordania, Qatar, Turchia, Iran ed Emirati Arabi Uniti, tanto che la Russia ottenne lo status di Paese osservatore presso l’Organizzazione della Cooperazione Islamica. Per fare un paragone: il predecessore di Putin, Boris El’cin, in due mandati presidenziali non aveva fatto una sola visita ufficiale in Medio Oriente. Una strategia, quella putiniana, che è arrivata al culmine nel 2014 proprio laddove era fallita quella sovietica: in Egitto, con il sostegno al generale golpista Al-Sisi e con la fornitura al suo regime di armi russe per tre miliardi di dollari.
Nella “questione egiziana” si rinvengono i tratti più caratteristici della nuova presenza russa in Medio Oriente. Il primo è la garanzia di non interferenza negli affari interni dei diversi Paesi. L’ossessione russa per le “rivoluzioni colorate” dell’ex impero sovietico, considerate uno strumento usato dall’Occidente, in particolare dagli Usa, per espandere la propria influenza culturale, politica ed economica, diventa in Medio Oriente una difesa dello status quo che suona assai gradita alle autocrazie locali, soprattutto dopo gli shock imposti dalla schizofrenica strategia Usa di esportazione della democrazia. Il primo messaggio forte e chiaro, in questo senso, la Russia lo lanciò nel 2011, quando all’Onu non votò la risoluzione che imponeva la no fly zone sulla Libia di Gheddafi. Ancora più forte e più chiaro il messaggio lanciato nel 2015 con l’intervento armato in Siria a favore di Bashar al-Assad.
In questo modo, la Russia di Putin è riuscita a parlare con tutti, da Israele all’Iran, dalla Turchia all’Egitto, e soprattutto a fare affari con tutti. L’intervento in Siria, che non ha compromesso i rapporti né con la Turchia né con Israele, entrambi nemici giurati di Assad ma ora entrambi assenti dalla lista dei Paesi che sanzionano la Russia, è forse l’esempio più clamoroso di questa strategia. Armi, centrali nucleari e petrolio sono i capisaldi dell’offerta russa. In questi campi, a parte qualche occasionale polemica, sono pochi i Paese mediorientali che possono lamentarsi della Russia quando si tratta di business. C’entra anche questo con la decisione dell’Arabia Saudita di scontentare persino gli Usa e Biden, che chiedeva di aumentare l’estrazione del greggio per calmierare i prezzi, pur di restare fedele agli accordi Opec+, ovvero quelli siglati dall’Organizzazione dei Paesi produttori di petrolio con la Russia. E non dimentichiamo che nel 2015, quando annunciò la firma dell’accordo sul nucleare iraniano, Barack Obama ringraziò la Russia per il ruolo di “facilitatore” svolto presso gli iraniani, la cui industria nucleare tanto deve alle forniture e alle consulenze di Mosca.
L’altro elemento che ha caratterizzato la presenza russa in Medio Oriente è l’ostilità assoluta all’estremismo islamista e alle sue propaggini terroristiche. Per Mosca agisce il ricordo delle lunghe guerre di Cecenia (dove le infiltrazioni islamiste a un certo punto erano diventate evidenti), e il perenne timore che un’inquietudine politico-religiosa possa partire dal Caucaso e penetrare la folta comunità islamica russa. D’altra parte è stato calcolato che almeno 3.500 – 4.000 uomini siano corsi ad arruolarsi nell’Isis dalle regioni meridionali della Russia negli anni più caldi della guerra in Siria, quindi non si tratta solo di spettri. Gli analisti del Cremlino sanno benissimo che i regimi autocratici del Medio Oriente non hanno mai esitato a finanziare l’islamismo e a usarlo per i propri fini politici. Ma sanno anche che i vari Al -Qaeda, Daesh e simili finiscono sempre per diventare una presenza scomoda, se non una vera minaccia, per i regimi che li hanno generati e nutriti.
A Teheran, Vladimir Putin ha esaltato la collaborazione tra Russia, Turchia e Iran che a suo dire, “a dispetto di alcune divergenze relative alla Siria, ha spezzato la spina dorsale del terrorismo internazionale”. L’affermazione può destare persino stupore, se si pensa alle politiche concrete della Turchia in Siria e dell’Iran in Libano, nello Yemen e altrove. Ma risponde pienamente all’idea russa del contenimento del terrorismo anche attraverso la collaborazione con i Paesi che lo proteggono. In definitiva sono il rispetto, lo scambio e la reciproca convenienza a costituire la proposta fondamentale della Russia ai Paesi del Medio Oriente. Un atteggiamento che, dicono molti, manca di profondità, di prospettive di lungo periodo. Ma che risulta tranquillizzante per gli interlocutori e garantisce alla politica russa una flessibilità che ad altri attori internazionali sembra ormai mancare.
Fulvio Scaglione