L’ideale insostenibile di un uomo che ha sfidato ogni principio geopolitico per poi venirne sconfitto. Cosa ci insegna la parabola di Gorbačëv, al di là delle facili beatificazioni e delle ormai inutili condanne.
Troppo umano. In tutte le accezioni che possiamo dare a questo termine, positive e negative, ognuno scelga la sua. L’ultimo rappresentante della grande utopia sovietica sembrava tutto fuorché un prodotto del socialismo reale. Lo riconobbero subito tutti, avversari compresi, già da prima della sua ascesa al potere. Il giudizio di Margareth Thatcher, che lo aveva incontrato per la prima volta alla fine del 1984, era stato eloquente:
“La sua personalità non avrebbe potuto essere più diversa dal legnoso ventriloquismo dell’apparato sovietico medio. Sorrideva, rideva, sottolineava le parole coi gesti, modulava la propria voce, seguiva fino in fondo i ragionamenti ed era acutamente dialettico. […] A mano a mano che le ore passavano cominciai a capire che era questo stile, più che la retorica marxista, a esprimere la sostanza della personalità che stava sotto la superficie. […] Quando ci lasciammo sperai di aver parlato con il prossimo leader dell’Unione Sovietica.”
La Thatcher immaginava che di lì a poco Gorbačëv avrebbe preso il potere, attraverso l’investitura formale alla guida del PCUS. Ma non poteva di certo immaginare – né nessun altro poteva realmente farlo – quello che sarebbe successo di lì a pochi anni. Non tanto le riforme, la glasnost, la perestrojka e tutto il loro corollario. Non solo la caduta del Muro di Berlino e poi – conseguenza non inevitabile – la fine dell’impero sovietico. Ma il ribaltamento di ogni principio geopolitico. Che per qualche tempo fece credere a tutti che un altro mondo fosse possibile – salvo poi ritrattare amaramente in età più adulta.
La storia non la fanno i singoli uomini, ma Gorbačëv – assieme a pochissimi altri – appartiene alla cerchia di chi può legittimamente sfidare questa asserzione. E a buon diritto. In Russia possiamo contare forse solo Pietro il Grande, Caterina, Nicola II, Lenin e Stalin. Nel bene e nel male, nei successi e negli errori grossolani, tutti esempi palesi di come il carattere, la personalità e le convinzioni dei singoli abbiano cambiato il corso degli eventi.
Nel caso di Gorbačëv, l’impatto è stato evidente. Non solo perché si discostava palesemente dall’homo sovieticus, dalle formalità e dai rituali di una nomenklatura sempre più conservatrice e autoreferenziale. Ma perché con la sua voglia di fare (e disfare) ha impresso un’accelerazione senza pari a tendenze già in corso, o ancora sul nascere – e che Dio solo sa quando si sarebbero altrimenti sviluppate. Risultato: un movimento tellurico di cui ancora oggi fatichiamo a comprendere gli effetti. La portata epocale della fine dell’URSS, la catastrofe geopolitica (o capolavoro, a seconda degli opposti punti di vista) del XX secolo, rimarrà suo malgrado la più grande eredità della sua parabola. Un marchio indelebile.
Gorbačëv lo sapeva bene, e avrà avuto modo di riflettervi nei tre lunghi decenni seguiti al ritiro della politica. La sua esperienza non poteva finire in altro modo: in Russia il suo consenso era sceso inesorabilmente, dopo le iniziali euforie di una società confusa dalle prime liberalizzazioni. Non si sarebbe più risollevato, fino a rendere drammatico il suo unico tentativo (nel 1996) di tornare in politica.
Nemo propheta in patria? Sarà, ma neanche dalle macerie del resto dell’URSS è mai giunta una vera riabilitazione dell’operato di Gorbačëv. Dall’Occidente che tanto gli deve, poi, non è arrivato nulla, al di là di qualche pacca sulla spalla. Anzi, la promessa della non espansione della NATO è stata allegramente disattesa – del resto, si era limitata a dichiarazioni verbali sulla fiducia, in pieno stile gorbacioviano. Con gli effetti a catena che conosciamo. Certo, restano gli inviti alle conferenze, le ovazioni, e i sorrisi di chi in quel “nuovo modo di pensare” aveva anche seriamente creduto, al di qua della cortina. Come la mia generazione, cresciuta col suo mito prima di porsi qualche domanda – non solo sulla Russia, ma su come funziona il mondo.
Resta l’alone di gloria che ancora oggi circonda le sue azioni, senza dubbio coraggiose. Un’aria di laica santità che lo accostava a Gandhi, Mandela e pochissimi altri statisti dell’immaginario collettivo novecentesco. Nell’ubriacatura da fine della Guerra fredda, anzi da fine della storia, nulla poteva essere più ambìto. Ma quando la storia è tornata, rivelandoci anzi di non essersene mai andata, abbiamo cominciato a cambiare prospettiva. A vedere ingenuità in quella che credevamo generosità, a bollare persino come stupide o avventate azioni che reputavamo eroiche.
Tutto amaramente corretto. Ma il senno del poi andrebbe ridimensionato. E oggi che Gorbačëv non c’è più, anziché accanirci su un passato che non si può più cambiare, potremmo cogliere l’occasione per fermarci a riflettere su noi stessi. Perché in fondo, anche solo per un momento, siamo stati tutti un po’ gorbacioviani.