A trent’anni dalla guerra di secessione dalla Georgia, lo status della repubblica non riconosciuta resta incerto. Tbilisi ne rivendica la sovranità, Mosca si autodefinisce mediatrice. Affinità e differenze con il caso dell’Ossezia del Sud.
Contrariamente a quanto avviene in Ossezia del Sud, con periodiche proposte di referendum per diventare parte della Federazione Russa, la questione della sovranità e indipendenza dell’Abcasia è una parte costitutiva fondamentale della sua identità. Come l’Ossezia del Sud, l’Abcasia è uno stato de facto, che gode solo parzialmente del riconoscimento internazionale di Stati membri delle Nazioni Unite (Russia, Nicaragua, Venezuela, Nauru, e Siria). Le due repubbliche sono considerate dalla maggior parte della comunità internazionale come parte del territorio della Georgia, nonostante il suo mancato controllo delle regioni. Tbilisi considera entrambi i territori occupati dalla Russia dopo la guerra dell’agosto del 2008. Tuttavia, le radici del conflitto con Sukhum(i), la capitale dell’Abcasia, hanno radici più profonde.
Lo scorso 14 agosto si è celebrato il trentesimo anniversario dell’inizio della guerra in Abcasia. Il conflitto, combattuto da una parte tra le forze del governo georgiano, milizie paramilitari locali e volontari internazionali, e dall’altra da quelle della repubblica indipendentista, con l’ausilio di milizie irregolari provenienti dal Caucaso settentrionale, durò circa tredici mesi e si concluse con la firma di un cessate il fuoco il 27 settembre 1993. Vi seguì l’introduzione di un contingente di forze di peacekeeping della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), composto principalmente da truppe russe lungo la zona di contatto, all’incirca a ridosso del fiume Inguri.
Le operazioni belliche si svolsero in un contesto di instabilità generalizzata. La Georgia usciva da una guerra combattuta con l’altra regione separatista, l’Ossezia del Sud. Il Paese si trovava inoltre in una fase acuta di guerra civile tra il governo di Tbilisi e la presidenza di Eduard Shevardnadze da un lato, e le milizie della resistenza “zviadista” dall’altro. Queste ultime sostenevano il ritorno al potere dell’ex presidente Zviad Gamsakhurdia, rimosso dalla sua posizione con un colpo di stato alla fine del ‘91. A questo quadro si aggiungeva la partecipazione di signori della guerra e di milizie paramilitari locali in competizione tra loro e con lo Stato centrale per il controllo del territorio.
A livello regionale, instabilità e conflitti in tutta la regione dell’ex Unione Sovietica, scioltasi ufficialmente solo pochi mesi prima, raggiungevano punti cruciali dei propri sviluppi. La guerra del Nagorno-Karabakh, combattuta tra Azerbaigian e Armenia, era da poco entrata nella sua fase internazionale; nel maggio del ’92 la guerra civile in Tagikistan era appena scoppiata; il cessate il fuoco in Ossezia del Sud veniva firmato a Sochi tra Russia e Georgia il 24 giugno dello stesso anno. Infine, nello stesso periodo si consumava la guerra di Transnistria, conclusasi il 23 luglio con la firma di un cessate il fuoco tra la Repubblica Moldova e la Federazione Russa dopo l’intervento della 14esima Armata della Federazione, guidata dal Generale Lebedev, e l’introduzione di una operazione di mantenimento della pace tripartita (Russia, Moldavia, Transnistria) il 29 luglio successivo.
Troppo spesso la caduta dell’Unione Sovietica viene vista in Italia come un processo relativamente pacifico, soprattutto se paragonato alle guerre civili iugoslave. Molti dei conflitti armati nell’ex Unione Sovietica non solo rimangono irrisolti, ma restano ferite aperte nelle società locali che, da trent’anni, vivono in una situazione d’incertezza. Sebbene diversi tra loro per natura ed intensità, la mancata risoluzione di questi conflitti è fonte d’insicurezza a livello internazionale, come viene dimostrato ogni giorno dalla guerra in Ucraina.
Fino ad oggi, gli eventi vengono considerati dall’Abcasia come la propria guerra patriottica, attraverso la cui vittoria il popolo abcaso ha ottenuto e meritato la propria indipendenza. Secondo la versione abcasa, il diritto all’autodeterminazione, intesa come secessione dalla Georgia, rappresenta una riparazione ai torti subiti durante il periodo sovietico ad opera di Stalin e di Berija, quali deportazioni e l’introduzione di “coloni” georgiani nella regione. La guerra del ‘92 rappresenta un mito fondamentale della nazione abcasa, che all’infuori della Colchide settentrionale non ha alcuno Stato di riferimento, nonostante la sua vicinanza, anche linguistica, a popoli del Caucaso settentrionale (in particolare i circassi).
Dal punto di vista georgiano, la guerra rimane una ferita aperta. Il risultato della guerra ha sancito la perdita della sovranità della Georgia sul territorio abcaso, ritenuta parte fondamentale del suoStato sia per ragioni legate alla mitologia (come il mito di Giasone e il Vello d’Oro), sia allo sviluppo statuale della Georgia stessa, divisa in regni fino all’unificazione dinastica con la stessa Abcasia sotto re Bagrat II nel 1008. Ma ancora più importante sotto il profilo sociale è la questione dei georgiani fuggiti ed espulsi dall’Abcasia durante la guerra. Secondo l’Internal Displacement Monitoring Center, la popolazione registrata come rifugiati interni in Georgia (anche detti IDPs, o internally displaced peoples) ammonta a 304.925 persone. Di queste, tre quinti, ovvero circa 240.000 persone, proviene dall’Abcasia, e il resto dall’Ossezia del Sud.
Il ritorno dei rifugiati georgiani in Abcasia rappresenta un nodo gordiano che, insieme alla questione dello status della repubblica separatista, è rimasto impossibile da scogliere durante tutti gli anni di negoziazioni. E questo sia prima che dopo il riconoscimento russo del 2008, a sua volta seguito alla Guerra d’agosto in Ossezia del Sud (anche detta guerra russo-georgiana per l’intervento militare di Mosca nella regione). La questione degli IDPs è fondamentale e strettamente legata allo status dell’Abcasia per due motivi intrecciati tra loro. Il primo dipende dalla demografia della regione. Stando alle stime ufficiali del governo (de facto riferite al 2019), in Abcasia vivono 245.424 persone, di cui solo poco più della metà, ovvero 125.974, appartiene all’etnia abcasa. Sebbene i georgiani contestino questi dati, sostenendo che l’attuale popolazione dell’Abcasia sia per lo più composta da armeni, il quadro è più che sufficiente a far capire che il ritorno dei rifugiati interni georgiani in Abcasia sovvertirebbe l’attuale equilibrio demografico.
A questo motivo si aggiunge il secondo: quando (e come) andrebbe deciso lo status della Repubblica di Abcasia? Nello specifico, se dovesse essere definito attraverso un referendum, chi dovrebbe parteciparvi? La posizione georgiana sostiene che, a questo processo, devono partecipare anche gli IDPs, i quali hanno diritto, secondo le norme previste dal diritto internazionale, a tornare nei territori da cui sono stati espulsi. D’altro canto, la posizione abcasa è che la questione dello status è ormai chiusa dopo il riconoscimento della repubblica da parte della Russia e altri stati membri delle Nazioni Unite. Prima di discutere del ritorno dei rifugiati georgiani, la Georgia dovrebbe a sua volta riconoscere l’indipendenza dell’Abcasia. Se prima del 2008, infatti, esisteva dello spazio per la negoziazione dello status della regione data anche dalla posizione russa per il rispetto dell’integrità territoriale georgiana, l’equilibrio demografico della regione ha sempre impedito la risoluzione del conflitto.
Dopo la guerra del 2008, la Russia ha bloccato il rinnovo del mandato dell’operazione di peacekeeping della CSI concordata con cessate il fuoco del ’93. Al mancato rinnovo è seguita l’introduzione di forze russe nella regione con la sottoscrizione di un trattato di amicizia e cooperazione tra Mosca e Sukhum(i). Questo trattato ha dato delle nuove basi giuridiche alla presenza militare russa nel territorio. Dal punto di vista russo e abcaso si tratta di un accordo internazionale tra due Stati sovrani che si riconoscono e rispettano l’integrità territoriale l’uno dell’altro, la cui funzione ufficiale è quella di una protezione russa dell’Abcasia da un’eventuale aggressione georgiana.
Al contrario, la Georgia non riconosce la legalità dei trattati siglati tra Russia e Abcasia, considera quest’ultima una regione occupata, e, dopo il 2008, ha ufficialmente dichiarato il suo impegno a risolvere pacificamente il conflitto(russo-georgiano nella prospettiva di Tbilisi) riaffermando la sua posizione attraverso risoluzioni parlamentari. La Georgia mantiene la stessa posizione per l’Ossezia del Sud che, a livello amministrativo e costituzionale georgiano, fino ad ora non gode di uno status di autonomia (a differenza dell’Abcasia).
Infine, l’unico formato esistente per le negoziazioni rimangono le Discussioni Internazionali di Ginevra, sotto l’egida dell’ONU e co-presiedute da quest’ultima, l’OSCE e l’Unione Europea. Alle negoziazioni partecipano rappresentanti di Stati Uniti, Russia, Georgia, Abcasia e Ossezia del Sud – sebbene queste ultime siano presenti solo nel secondo livello di lavoro, ovvero quello dedicato alle questioni umanitarie, in cui i delegati partecipano non come delegazioni ufficiali ma come consulenti privati. In queste negoziazioni, la Russia riveste un ruolo ambiguo, riconoscendosi unicamente come mediatore e non parte interessata. A sostegno di Abcasia e Ossezia del Sud, ha cercato di promuovere la sottoscrizione di un trattato di non aggressione tra la Georgia e le due repubbliche separatiste.
Da parte georgiana, tuttavia, questo significherebbe un riconoscimento dei governi separatisti come parte ufficiale delle negoziazioni, senza ottenere nulla in cambio. Ciò ridefinirebbe la narrazione dello scontro non più con la Russia, ma (anche) sul piano interno con le repubbliche separatiste su cui, in misura diversa, Mosca esercita il controllo effettivo (riconosciuto nella sentenza Georgia vs. Russia (II) dalla Corte Europea dei Diritti Umani a partire dalla conclusione delle ostilità nell’agosto del 2008). Tuttavia, il fatto che la corte non sia stata in grado di stabilire la responsabilità russa delle operazioni belliche è stato oggetto di dibattito.
Nel conflitto tra Georgia e Abcasia si intrecciano dunque differenti narrazioni della sua storia e dei suoi risvolti politici e giuridici, che per molto tempo hanno fatto pensare che lo status quo fosse meglio di una risoluzione, troppo dolorosa e troppo costosa per le parti coinvolte, spesso incapaci o indisposte a comprendere le ragioni degli attori coinvolti. L’apertura della seconda fase della guerra in Ucraina con l’aggressione russa del 24 febbraio potrebbe aver ribaltato le carte in tavola. Quello che è mancato fino ad ora, tuttavia, è anche una riconciliazione sulla narrazione del passato, tra quella che in Georgia è vista alternativamente come una guerra fratricida e una lotta per l’integrità territoriale del Paese, e in Abcasia come una grande guerra patriottica, lotta per l’indipendenza, e mito fondamentale della nazione. Due prospettive inconciliabili, che ancora oggi impediscono la costruzione di una visione comune per il futuro – sempre che questa si voglia davvero trovare.
Elia Bescotti