In attesa di indagini accurate su ciò che è successo nei fondali del Baltico, resta solo il campo minato delle speculazioni. Nel quale è meglio metter da parte ogni posizione precostituita per concentrarsi, laicamente, sul “cui prodest“
“Danni senza precedenti”, forse addirittura “irreparabili”: i report su quanto successo lunedì al Nord Stream, tra le acque territoriali svedesi e danesi prossime all’isola di Bornholm, sono allarmanti. Ciascuna delle esplosioni squarcia tratti diversi del Nord Stream 1 e 2 in pochi istanti, ma impiega almeno un giorno per fare altrettanto col velo informativo del nostro Paese, troppo concentrato sulle cronache post elettorali. Ricostruiamo dunque gli eventi. Le detonazioni avvengono a distanza di parecchie ore l’una dall’altra, rispettivamente alle 02:03 e alle 19.04 di lunedì 26 – almeno stando alle rilevazioni dei sismografi, che registrano scosse (di 1,9 e 2,3 gradi Richter) in un’area placida dal punto di vista sismico (non certo da quello geopolitico). Poco dopo, vengono osservate delle fughe di gas di ampia portata e ben visibili dalla superficie del mare, prova che gli attentati sono andati a segno.
Fin da subito appare infatti chiaro che non si tratta di incidenti. Nessuno potrebbe crederlo seriamente, sia per l’intervallo ravvicinato tra di essi, sia per l’entità dei danni provocati, sia per il periodo di forte turbolenza europea in corso, sul fronte bellico in Ucraina e su quello degli approvvigionamenti di gas – appunto. La parola sabotaggio corre sulla bocca di tutti. Per delle indagini approfondite, tuttavia, occorreranno settimane (se non di più) a detta delle autorità danesi. Anche perché la priorità è quella di arginare il disastro. In un periodo così lungo, inevitabilmente prolifereranno le speculazioni e le congetture. Anzi lo stanno già facendo, spesso sulla scia delle contrapposizioni para-ideologiche già protagoniste dei primi sei mesi di guerra in Ucraina. Ma come sempre, serve un approccio laico. E se conoscere la verità è impossibile, almeno per il momento, possiamo almeno cercare di ricostruire con ordine le posizioni delle parti e i loro vantaggi (e svantaggi) derivanti da simili avvenimenti.
Due sono le ipotesi principali che finora hanno preso piede: l’attacco russo e quello occidentale.
Com’era inevitabile, è sulla Russia che si sono addensati i primi sospetti. Nonostante alcuni inviti alla calma, in attesa di qualche riscontro delle indagini, c’è già chi punta apertamente il dito contro Mosca. È il caso di Ursula von der Leyen: “La Russia deve pagare per questa ulteriore escalation” ha affermato la presidente della Commissione europea, presentando l’ottavo pacchetto di sanzioni di Bruxelles (attivato però per i referendum russi nei territori occupati in Ucraina). Ma quanto è realistico un attacco russo? Tecnicamente, Mosca avrebbe i mezzi per condurlo. Anche se la Nato vanta un crescente controllo delle acque baltiche, accelerato dall’avvicinamento (e presto adesione) di Finlandia e Svezia all’Alleanza Atlantica, resta pur sempre la spina del fianco di Kaliningrad a spezzare l’omogeneità geopolitica del bacino. L’exclave russa, distante meno di 400 km dai luoghi delle esplosioni, potrebbe ospitare i mezzi (sottomarini o unità specializzate) in grado di effettuare una simile operazione. Anche se proprio l’isola di Bornholm, a sovranità danese nonostante la maggior prossimità alla terraferma di Svezia, Germania e Polonia, è una sorvegliata speciale dell’Alleanza Atlantica, che vi tiene qui anche esercitazioni militari (come la recente BALTOPS 22).
Ma l’obiezione più immediata alla possibilità di un attacco russo non parte da considerazioni tecniche, bensì geopolitiche. Ovvero: che senso ha attaccare una propria infrastruttura, per di più quando si ha la possibilità di chiuderne i rubinetti per ottenere lo stesso scopo? Un’obiezione sensata, ma bisogna vedere quale sia, appunto, il reale scopo del sabotaggio. Se fosse quello di interrompere le forniture (già sospese) di gas alla Germania, in effetti sarebbe stata molto meno costosa e rischiosa una chiusura a tempo indefinito dei rubinetti (peraltro già in corso per il NS1). Il sabotaggio può fornire alla Russia maggiori tutele sul fronte contrattuale e assicurativo (evitando le multe con l’invocazione della forza maggiore), nonché evitarle i costi politici di una chiusura deliberata dei rubinetti. Ma ciò solo alla difficile condizione di un’operazione davvero ben coperta. E Mosca ha comunque già dimostrato di poter sopportare i costi politici ed economici delle sue scelte più sconsiderate.
In queste ore si è ventilato un altro possibile scopo di un attacco russo alla propria infrastruttura: un’azione dimostrativa volta a minacciare il futuro del Baltic Pipe, il gasdotto di collegamento tra il Mare del Nord e la Polonia, che incrocia proprio non lontano dall’isola di Bornholm il concorrente Nord Stream. Opera di fondamentale interesse strategico, poiché dovrebbe garantire dai prossimi mesi la completa indipendenza energetica di Varsavia da Mosca. In effetti, la coincidenza temporale tra le esplosioni sul Nord Stream e l’inaugurazione (avvenuta nello stesso giorno) del Baltic Pipe è inquietante, ma potrebbe essere stata sfruttata da tutte le parti in gioco, per opposte ragioni. E poi, un’azione pensata per essere puramente dimostrativa non avrebbe dovuto rendere il Nord Stream inutilizzabile “per sempre”, come sembrerebbe emergere in queste ore. Sarebbe potuta essere molto più circoscritta.
In sintesi, l’(auto)attentato non sembra un’opzione particolarmente conveniente per Mosca, né così lineare come qualcuno vorrebbe far credere in queste prime ore. Al tempo stesso, comunque, mancano gli elementi per scagionarla del tutto. Del resto, anche la stessa invasione dell’Ucraina non si è rivelata una mossa particolarmente astuta del Cremlino – e su questi schermi lo dicevamo fin dal primo giorno di guerra, senza dover attendere i rovesci degli ultimi mesi.
Se non la Russia, chi?
Avevamo parlato di due opzioni, quella russa e quella “occidentale”. Per Occidente possiamo intendere molti Paesi, non necessariamente in segreto accordo tra loro: gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Polonia, l’Ucraina, etc. . Da escludere, per ovvie ragioni, quelli non particolarmente interessati dalle dinamiche del Nord Stream. E ovviamente la Germania, che da questa storia esce ferita e umiliata.
Il Nord Stream ha quasi altrettanti nemici della Russia. Non certo da oggi. Fin dal 2006 a Varsavia viene apertamente definito come un nuovo patto Molotov-Ribbentrop, una via energetica per aggredire alle spalle il Paese. E sempre dalla Polonia è arrivata una delle reazioni più curiose ai fatti di lunedì. L’ex ministro degli Esteri Radosław Sikorski (oggi europarlamentare) ha twittato una foto delle fuoriuscite di gas commentando «Thank you, USA», e ha poi aggiunto che «tutti gli Stati baltici e l’Ucraina si sono opposti alla costruzione di Nord Stream per vent’anni. Ora 20 miliardi di dollari di rottami metallici giacciono sul fondo del mare, un altro costo per la Russia e la sua decisione criminale di invadere l’Ucraina».
Forse è troppo facile leggere in queste parole una diretta ammissione di responsabilità. Perché una figura così navigata dovrebbe rovinare, contro i propri interessi, la reputazione dei suoi principali alleati? Eppure, per quanto ci si sforzi, non si trovano molte altre interpretazioni a tali parole, se non la spavalderia di chi a torto o a ragione si sente dalla parte giusta della storia, e in tale veste non si preoccupa troppo di esagerare (seguendo, peraltro, un costume tipicamente polacco). La chiosa finale, diretta al Ministero degli Esteri russo («Qualcuno, @MFA_Russia, ha condotto un’operazione di manutenzione speciale») può solo rafforzare i sospetti. Il confine tra azioni e provocazioni, anche solo verbali, a certe latitudini è molto sottile.
Anche qui, come nell’ipotesi “russa”, si può comunque avanzare un’obiezione: perché sabotare proprio adesso, dopo dieci anni di attività di NS1 e col NS2 mai entrato in funzione? Perché colpire un’infrastruttura geopoliticamente morta?[1] Probabilmente perché era questo il momento propizio. Prima di quest’anno, qualsiasi attacco al Nord Stream avrebbe avuto mandanti chiari (o quantomeno, non sarebbe stato in alcun modo imputabile alla Russia, per ovvie ragioni) e dunque sarebbe stato insostenibile per Washington (o Varsavia), nonostante le continue allerte in tal senso dei suoi apparati. Dopo quest’anno invece, o anche solo dopo quest’estate (presto la crisi comincerà a mordere, soprattutto a Berlino), la riapertura del Nord Stream sarebbe diventata una prospettiva credibile. La Germania, già non del tutto convinta del proprio appoggio a Kiev (almeno a giudicare dagli scarsi mezzi inviati in suo supporto) avrebbe forse cercato una via negoziale con la Russia in cambio della ripresa dei flussi. Insomma, avrebbe potuto costituire l’anello debole della solidarietà atlantica. Il condizionale è d’obbligo, visto l’epilogo del Nord Stream: messo fuori uso, resta solo la sua alternativa terrestre, il gasdotto Jamal. Che però passa dalla Polonia, con tutto ciò che ne consegue.
A conti fatti, e seguendo una logica del cui prodest scevra da qualsiasi preconcetto, l’ipotesi più credibile sembrerebbe addossare le responsabilità del sabotaggio a un qualche attore occidentale, o comunque nemico di Mosca (e della sua riconciliazione con l’Europa). Anche a voler ignorare le incredibili affermazioni di Sikorski, che per molti chiuderebbero il caso, non si possono non vedere le immani conseguenze dei sabotaggi: Europa e Russia sempre più divise, volenti o nolenti. Obiettivo mai celato di Washington e di almeno una decina di Paesi tra il Baltico e il Mar Nero.
La prudenza, obbligata in assenza di prove, ci impedisce di trarre delle conclusioni definitive, e invitiamo chi legge a evitare a sua volta di farlo in modo affrettato. Ulteriori indizi, in un senso o nell’altro, potrebbero arrivare con gli sviluppi (anche geopolitici, non solo nelle indagini) delle prossime settimane, ma la verità potrebbe tardare molto di più. Di certo, in ogni caso, preoccupa la coincidenza tra questi eventi e almeno altri due: la fine dei referendum nei territori ucraini occupati da Mosca e l’allerta diramata da Stati Uniti, Polonia e Bulgaria verso i propri cittadini ancora residenti in Russia – con l’invito ad abbandonare quanto prima il Paese. Pessimi segnali di una guerra che sembra non voler conoscere più confini.
[1] Il NS1, ricordiamo, è attualmente chiuso a tempo indefinito per volontà di Gazprom, il NS2 non ha mai cominciato la sua attività per decisione di Berlino dopo l’attacco russo all’Ucraina.