Conquistata nei primissimi giorni dell’Operazione speciale, a Kherson sono stati rapidi i preparativi per entrare a far parte della Federazione Russa. Ora formalizzati da un referendum. La madrepatria è pronta a (ri)accoglierla, ma non può ignorare una certa resistenza. Kherson non è la Crimea. E intanto l’Ucraina avanza.
“Moja istorija”, “la mia storia”. È il titolo della prima lezione che ha accolto il ritorno a scuola degli studenti dell’oblast’ di Kherson, occupata dai russi fin dai primi giorni dell’“Operazione militare speciale”. Dal 1° settembre la storia di Aleksandr Nevskij e Pietro il Grande è diventata anche la loro storia. Una storia “tornata” (implicita quindi una qualche precedente “presenza”) sulle coste del Mar Nero con la Novorossija di Caterina II e del principe Potëmkin. Una storia che concepisce i “piccoli russi” parte di una “nazione trina” insieme a russi e bielorussi[1].
Il rientro a scuola, da sempre ritorno alla routine, alla normalità, traghetta simbolicamente gli studenti di Kherson in quella che si vorrebbe essere la loro nuova “normalità” (se di questo in un Paese dove la guerra non accenna ad arrestarsi si può parlare). Una nuova normalità fatta di insegne e cartelli in russo, bandiere russe sugli edifici amministrativi, nuovi monumenti eretti ad antichi eroi (sovietici), nuove celebrazioni, festività e parate, come quella tenutasi il 13 marzo per la liberazione di Kherson dai nazisti e quella del 9 maggio – entrambe dal valore quanto mai simbolico nel contesto attuale. Non solo nuovi manuali sui banchi di scuola, ma simboli, concreti e visibili, per plasmare le giovani menti. Ma anche capaci di sfiorare note profonde nella memoria dei più adulti, ricordi di un’infanzia o di una giovinezza che il passare del tempo rende sempre più dolce. Soprattutto quando il presente appare così oscuro.
Il tutto, naturalmente, in russo, che, nonostante le recenti politiche linguistiche ucraine e il naturale rifiuto di utilizzarlo di una parte della popolazione come reazione all’invasione, rimane ancora così famigliare nell’inconscio di molti. Rendendo inevitabilmente più immediata ed efficace la comunicazione del messaggio che si vuole veicolare. Tanto più se ai tradizionali metodi di “conquista culturale” – storia, lingua e religione – ben assodati ormai nell’esperienza imperiale russa (ma testati più di recente anche da Kiev), si aggiunge il controllo dei moderni mezzi di comunicazione, potendo così mettere (quasi) fuori gioco ogni narrazione altra. Così, già dallo scorso maggio i server dell’oblast’ di Kherson sono stati agganciati all’infrastruttura di telecomunicazione russa, i cittadini hanno dovuto dotarsi di SIM russe, mentre la televisione ucraina è stata oscurata e sostituita da quella russa.
E per convincere anche i meno sensibili al fascino culturale russo è stato rapidamente predisposto un sistema di welfare di base che starebbe già erogando stipendi ai dipendenti statali (collaborazionisti) e pensioni, rigorosamente in rubli. Nell’intento di inserire la regione di Kherson nel sistema economico e sociale della Federazione. Fugando sin da subito ogni dubbio: la presenza russa in quei territori che la retorica di Kiev è attenta a definire sempre “temporaneamente occupati” vuole essere tutt’altro che passeggera. Troppo importanti per la Russia, simbolicamente e strategicamente, le terre di Kherson.
E a questo scopo Mosca si adopera per “conquistare cuori e menti” secondo l’antico insegnamento impartito da Caterina II al suo procuratore generale, il conte Vjazemskij: “Queste province (Livonia, Polonia e Ucraina – N.d.A.) devono essere russificate nel modo più indolore, affinché smettano di comportarsi come un lupo che non vede l’ora di fuggire nella foresta. (…) Quando nella Piccola Russia non ci saranno più etmani, bisognerà cercare di far scomparire dalla memoria il nome e l’epoca stessa degli etmani”[2].
Allora come oggi, lingua e istruzione per colonizzare quella che per volere di Caterina II e per opera del suo favorito, il principe Potëmkin, sarebbe diventata la Novorossija. L’imperatrice impose infatti la lingua russa in tutte le scuole dell’impero, inclusa la famosa Accademia Mohyliana di Kiev: “Con l’istituzione delle scuole pubbliche (russe), vari costumi in Russia saranno uniformati, e l’indole delle persone verrà corretta”, trascrisse il suo segretario personale nel 1782[3]. Nel corso dell’Ottocento il processo di russificazione delle attuali terre ucraine, complici le rivolte polacche e il risveglio nazionale ucraino, si sarebbe reso più pervasivo, culminando nella Circolare di Valuev (1863) e nel Decreto di Ems (1876) con cui si vietava la pubblicazione di testi religiosi o educativi in ucraino e l’importazione dall’estero di qualsiasi libro scritto in lingua ucraina, ridotta a dialetto: “non c’è, non c’è mai stata e non ci sarà una lingua piccolo-russa”. Parole difficili da cancellare dalla memoria storica del popolo ucraino.
Si riteneva: “Finché il popolo conserva la fede, la lingua, i costumi e le leggi, non può essere considerato sottomesso”[4]. Ma se come raccomandava Machiavelli “uno de’ maggior remedii e più vivi sarebbe che la persona di cui acquista vi andassi ad abitare”, le leggi non sarebbero state sufficienti, occorreva lavorare sulla composizione etnica di queste terre. Così, se da un lato si incentivò l’immigrazione straniera, in particolare tedesca e serba, nell’attuale Ucraina sud-orientale perché “le tribù divise sono più vulnerabili”[5], dall’altro vi si favorì l’insediamento di popolazione russa o russificata.
Non certo un’invenzione dell’Impero russo, l’ingegneria etnica e sociale, ma che questo avrebbe adottato in maniera sistematica e pianificata una volta risorto nell’Unione Sovietica. Dopo una breve parentesi di ukrainizacija (la politica di indigenizzazione nel contesto ucraino), voluta da Lenin perché le popolazioni non russe potessero più facilmente accettare e far proprio il marxismo-leninismo, nel mutato contesto socio-politico che accolse Stalin al potere e di fronte ai rischi legati ad un risveglio nazionale ucraino, il nuovo leader sovietico cambiò strategia. Pur rimanendo la lingua russa predominante in ogni ambito pubblico, nell’Ucraina occidentale una (controllata) ukrainizacija avrebbe potuto garantire ad un confine storicamente poroso ed esposto ad una pluralità di influenze e rivendicazioni quella compattezza necessaria perché fungesse da baluardo contro la possibile proiezione occidentale. Il confine orientale invece sarebbe dovuto ridursi a pura formalità, collegamento, non ostacolo, nell’integrazione tra due membri (certo non paritari) dell’unica Unione Sovietica. Queste terre vissero pertanto una nuova iniezione di russi etnici e una più puntuale e profonda russificazione.
Non in modo pienamente omogeneo, però. Per quanto le campagne furono oggetto di dura riorganizzazione in stile sovietico, vero fulcro della sovietizzazione e russificazione (per molti aspetti, coincidenti) furono le città e i centri industriali. Industrializzazione e urbanizzazione, obiettivi centrali nella costruzione della società sovietica, misero in parte al riparo le campagne da una russificazione più penetrante. Che qui avrebbe comunque espresso esiti potenzialmente differenti, perché si sarebbe innestata su un terreno, quello della popolazione contadina, meno fertile rispetto a quello cittadino. Meno fertile in quanto vittima delle maggiori violenze legate alla sovietizzazione, ma anche perché meno preparato dalla russificazione imperiale, che coinvolse in misura maggiore le élite. Indicativo il fatto che nei primi anni di vita dell’Ucraina indipendente, ancora fortemente dominata dalla cultura russo/sovietica, la principale testata in lingua ucraina fosse il Sil’skyj Vistnyk, letteralmente “Il giornale del villaggio”.
Effettivamente, queste terre ereditano oggi una più radicata russificazione e presenza russa in un Donbass altamente industrializzato e urbanizzato, piuttosto che nell’oblast’ di Kherson, che con i suoi 280.000 ettari di terra coltivabile è storicamente una regione prevalentemente agricola e rurale. Secondo il censimento del 2001 (l’ultimo effettuato in Ucraina) gli ucraini etnici nella regione di Kherson erano l’82%, i russi il 14,1% (in diminuzione rispetto al 1989). All’interno della componente ucraina, l’87% definiva l’ucraino la propria lingua madre (pur essendo generalmente in grado di utilizzare il russo quotidianamente). Percentuale che aumenta considerevolmente tra la popolazione rurale. Diversa la situazione nella regione di Donec’k, ad esempio, dove i russi etnici erano il 38.2% e gli ucraini il 56,9%, dei quali solo il 41,2% definiva l’ucraino come propria lingua madre, mentre per il 58,7% era il russo[6].
E infatti, nonostante un innegabile legame storico, culturale e linguistico con i vicini russi, nel momento in cui le proteste Euromaidan lo hanno messo in discussione, Kherson, al di là di contenute manifestazioni pro-russe, non ha seguito lo stesso percorso del vicino Donbass. Né della Crimea. Del governo in esilio della Repubblica di Crimea Kherson è invece diventata sede a partire dal 2014.
Abbattuta nel 2015 proprio sull’onda dell’Euromaidan, torna oggi a svettare sulla piazza di Henichesk la statua di Lenin. Ma l’accoglienza non è stata quella che il leader sovietico e i suoi connazionali si sarebbero aspettati. Le proteste pacifiche iniziate con l’occupazione si sono trasformate in un movimento partigiano che tra le aree occupate sembrerebbe avere proprio a Kherson la sua manifestazione più forte. “Non saranno solo gli HIMARS a privare gli occupanti russi del sonno” ha twittato Mychailo Podoljak, consigliere del presidente ucraino, “ma anche il movimento di resistenza ucraino”[7]. Diverse sono già state le vittime di attentati tra i rappresentanti delle autorità filorusse. Una resistenza questa che potrebbe acquisire ulteriore vigore di fronte all’avanzata ucraina in atto.
Ma proprio questa controffensiva e i successi conseguiti sembrerebbero aver costretto il Cremlino a premere sull’acceleratore. E così con quel suo discorso alla nazione del 21 settembre Putin, sotto attacco in patria per il fallimento sul campo, reagisce: mobilitazione parziale per i russi e sostegno ai referendum per (ri)accogliere a casa i “nuovi russi”. Solo due giorni dopo si sono aperte le urne delle Repubbliche popolari di Donec’k e Luhans’k, di Zaporižžja e Kherson. Inizialmente previsto per l’11 settembre, proprio in concomitanza con le elezioni regionali nella “Madre Patria”, poi riprogrammato per il 4 novembre[8], giornata dell’unità nazionale in Russia (altra data dal valore altamente simbolico, come piace ai russi), il tanto annunciato referendum per l’annessione delle regioni “liberate” (o “occupate” a seconda del punto di vista) alla Federazione Russa (che la controffensiva ucraina sperava forse di anticipare) si è tenuto tra il 23 e il 27 settembre. L’esito lascia poco spazio all’immaginazione: a Kherson l’87,05% dei cittadini sarebbe a favore dell’“uscita dell’oblast’ di Kherson dall’Ucraina, della formazione al suo posto di uno Stato indipendente e dell’ingresso nella Federazione Russa in qualità di soggetto della stessa”,[9] come recita l’ambiguo quesito referendario (nessun accenno invece ad uno Stato indipendente nel testo destinato agli abitanti di Donec’k, ad esempio).
Poco importa che per Ucraina e Occidente si tratti di una farsa. Un non-riconoscimento scontato e irrilevante per il Cremlino. Che si dice ancora aperto a negoziati con Kiev. Certo, da un diversa posizione negoziale, ora che un attacco a questi territori diventerebbe un attacco alla Federazione stessa.
Tra propaganda e intimidazioni, da entrambe le parti (il governo ucraino minacciava di punire la partecipazione al referendum con 12 anni di prigione e la confisca delle proprietà), probabili brogli e falsificazioni, seggi mobili che bussavano alla porta degli elettori, difficile scorgere la verità dietro i numeri, numeri stabiliti a priori, funzionali al raggiungimento di scopi strategici.
Sicuramente gran parte della popolazione più ostile ad un’annessione alla Russia aveva già lasciato le regioni occupate. Chi è rimasto potrebbe non aver avuto molte alternative. Al di là delle pressioni russe. Così come chi ha fatto domanda per il passaporto russo, secondo una pratica in atto da mesi a Kherson e ormai consolidata nelle regioni secessioniste dello spazio post-sovietico. Un successo, secondo i media russi; mancanza di alternative secondo le autorità ucraine. In effetti, non è difficile credere che una popolazione stremata dalla guerra, specie nei suoi strati più sensibili, possa scegliere, nonostante tutto, la cittadinanza russa se questa consente o agevola l’accesso al welfare, ad una pensione o ad un’occupazione. Tanto più se la controffensiva ucraina dovesse portare con sé ancora più violenza e distruzione dell’iniziale rapida (e meno dolorosa che altrove) conquista russa.
Poco spazio resta per considerazioni politiche, ideologiche o culturali. Più probabilmente, è con le promesse socio-economiche che la Russia può (ri)conquistare gli abitanti di Kherson; le menti, non i cuori. Almeno per ora. Intanto si immagina un Distretto Federale di Crimea, pronto ad accogliere Kherson, insieme a Zaporižžja e alle Repubbliche popolari del Donbass. La Novorossija è (quasi) ricostituita. Ma i “nuovi russi”? Resta da capire infatti quanto questa nuova russificazione possa effettivamente attecchire in terre che ancora prima dell’inizio delle ostilità erano meno russificate o russofile di quanto si potesse pensare. Kherson non è il Donbass, né tantomeno la Crimea. Forse consapevole, il capo del governo filorusso a Kherson Sergej Eliseev si è affrettato a dichiarare all’indomani del referendum, mentre il collega Sal’do presentava a Putin la richiesta di annessione, che a Kherson l’ucraino e il russo avrebbero avuto lo stesso status.[10]
Rimane però qualche dubbio che russi e ucraini possano ritrovare la propria unità a Kherson; nella città che prende il nome dal luogo in cui ricevette il battesimo il principe Vladimir di Kiev; nel luogo in cui riposa il suo fondatore, il generale russo Potëmkin, nella Chiesa (non a caso) di Santa Caterina. Per dirla con le parole di Puškin: “Si uniranno i ruscelli slavi nel mare russo? O esso si prosciugherà? Questa è la questione”[11]. Ancora oggi, aggiungiamo noi.
[1] M. Majorov, Pro ščorozmovidatymut’ 1 veresnja u školach v okupaciї, (Cosa si racconterà il 1° settembre nelle scuole dell’occupazione), Likbez, 30.08.2022.
[2] Citato in I. Dzjuba, La russificazione in Ucraina, (trad. OlegRumjancev), Aracne, Roma 2021, p. 24.
[3] Ibid. p. 28.
[4] Ibid. p. 26
[5]Ibid.p. 22.
[6] http://2001.ukrcensus.gov.ua/
[7] https://www.kyivpost.com/russias-war/organized-resistance-movement-in-kherson-is-strong-active.html
[8] “Kherson region postpones referendum due to security considerations — authorities”, TASS, 5.09.2022, https://tass.com/politics/1502703.
[9] https://lenta.ru/news/2022/09/21/kherson_buleten/.
[10] https://tass.ru/obschestvo/15900961
[11]A. Puškin, KlevetnikamRossii(Ai calunniatori della Russia), 1831.