I sabotaggi del Nord Stream e del Ponte di Crimea, al di là dell’identità dei loro esecutori materiali, certificano uno scollamento sempre più rapido e violento tra la Russia e il nostro continente. Ma si possono cancellare secoli di storia e appartenenza identitaria in pochi mesi?
Anche nel linguaggio di ogni giorno, “tagliare i ponti” indica una rottura totale e definitiva. E questo, un taglio dei ponti, simbolico e concreto insieme, è proprio ciò che è avvenuto nelle ultime settimane tra la Russia e l’Europa. Prima l’attentato contro i gasdotti Nord Stream, l’ultimo e più importante collegamento tra la Russia degli estrattori e l’Europa dei trasformatori. Poi il Ponte di Crimea, legame (oltre che legaccio) tra la Russia e il territorio dell’Ucraina. C’è chi affronta tutto questo come un derby, come una manifestazione di tifo per questo o quel contendente. E chi almeno vive tutta l’angoscia del conflitto di cui questi atti sono espressione. Ma c’è di più, se guardiamo in prospettiva: la drammatica spaccatura all’interno di uno stesso continente, di una stessa civiltà, di una stessa storia.
Le necessità dell’economia ci portano a valutare con frequenza le conseguenze pratiche della guerra in Ucraina. Qualunque sia la ragione, e chiunque ne abbia la colpa, è una situazione assurda quella per cui il cancelliere tedesco Scholz va a cercare il gas nel lontanissimo Canada e non può più riceverlo dalla vicina Russia. Ma il dramma vero, profondo, sta nella lacerazione continentale che si è prodotta e che segnerà, ormai è chiaro, il secolo che stiamo vivendo. E che anche nelle pure questioni economiche segnala tutte le possibili conseguenze ultra ed extra economiche: proprio nei giorni dell’attentato contro i gasdotti Nord Stream, e quindi nei giorni immediatamente precedenti quello contro il Ponte di Crimea, le statistiche hanno sancito che la Cina, ora, compra più idrocarburi (per 220 milioni di dollari al giorno) dalla Russia dell’intera Europa occidentale (150 milioni al giorno).
Non è un caso che il conflitto coinvolga direttamente l’Ucraina e la Russia, e indirettamente la Bielorussia, la Polonia e i Paesi Baltici, ovvero l’enorme regione che ha sempre fatto da cerniera tra l’Europa dell’Ovest e l’Europa dell’Est e che proprio per assolvere a questa funzione ha scontato infiniti cambi di confine, regime e padrone, arricchendosi di infinite influenze e assorbendo, spesso in modo traumatico, infinite differenze.
Fino al 1989 l’Europa era artificialmente divisa da un Muro ideologico alto e potente ma, nella sostanza, incapace di spezzare l’intima coesione del continente. L’arcipelago sovietico, dalla Mosca dell’ucraino Vasilyj Grossman alla Praga di Milan Kundera, produceva intellettuali e artisti che sarebbero stati di casa a Parigi o a Berlino, e la tomba di Immanuel Kant, il più europeo dei filosofi, spiccava miracolosamente intatta nella Kaliningrad-Koenigsberg del feroce assedio del 1945. Dal 24 febbraio è risorto un muro di ferro e di fuoco che l’invasione russa dell’Ucraina ha battezzato, ma che era stato in qualche modo preparato negli anni dall’incapacità e dalla non volontà di troppi attori continentali di pensarsi come parte di un tutto, di un insieme. Oggi assistiamo a una duplice torsione. Quella dell’Europa dell’Ovest, che gira le spalle a un Est che ha avuto la fondamentale colpa di non adottare fino in fondo (e come avrebbe potuto?) i suoi valori e i suoi criteri. E quella dell’Europa dell’Est, in gran parte territorialmente abitata da russi e russofoni, che rinuncia all’ancoraggio occidentale e intraprende un viaggio pieno di incognite nel tentativo di agganciarsi al suo Est, all’Asia, principalmente alla Cina.
Certo, si è sviluppato, in Russia, un movimento culturale teso a rivalutare il contributo storico delle province lontane dalla parte europea del Paese. Ma la grande letteratura, come la musica, la pittura, l’architettura e la filosofia della Russia sono europee e l’Europa non sarebbe ciò che è senza di esse. Esiste, in Russia, uno scrittore influenzato dall’humus asiatico che possa reggere il confronto con Dostoevskij? E qualcuno, dalle nostre parti, potrebbe mai dire che Josip Brodskij è uno scrittore sovietico e non uno scrittore europeo? O che Nikita Mikhalkov, oggi fanatico sostenitore del putinismo e dell’operazione speciale in Ucraina, non è un regista pienamente, tipicamente e magnificamente europeo?
Le torsioni cui stiamo assistendo sono movimenti contro natura, che non porteranno beneficio ad alcuno. E sono movimenti contro una storia che, a dispetto delle attuali narrazioni, è stata nel complesso più convergente che divergente. Il grande studioso Sergej Soloviov faceva notare che mentre il re Ferdinando il Cattolico (Ferdinando II d’Aragona, marito di Isabella di Castiglia) conquistava Granada e poneva fine alla presenza degli arabi nel capo Sud-Ovest dell’Europa, lo zar Ivan il Terribile affermava l’espansione della Moscovia ortodossa contro i khanati eredi dell’Orda d’Oro mongola, nel capo Nord-Est dello stesso continente. Andare contro la storia è sempre una pessima idea.
Fulvio Scaglione