In Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan, le donne si battono per emanciparsi dal ruolo subordinato che storicamente è stato assegnato loro, esponendo la pervasività della violenza di genere. A trent’anni dall’indipendenza, qual è la situazione nelle cinque ex repubbliche sovietiche?
Quando lo scorso marzo il giovane Serdar Berdimuhamedov ha preso il posto del padre Gurbanguly, in una successione dinastica sancita da elezioni di facciata, in Turkmenistan vi erano timide speranze che il quarantenne con esperienze internazionali potesse dimostrarsi, se non più liberale, magari un po’ meno repressivo dell’autoritarissimo genitore. Si trattava di un grave abbaglio. Il neopresidente ha fatto subito capire di voler procedere sul solco dei suoi predecessori, accanendosi con particolare veemenza sulla popolazione femminile di uno dei paesi più chiusi al mondo.
La guerra alle donne di Ašgabat
Fin dal mese successivo al suo insediamento, Berdimuhamedov ha lanciato una campagna moralizzatrice volta a normare diversi aspetti della vita delle turkmene, a partire dal loro aspetto esteriore. Le forze dell’ordine sono state sguinzagliate nei saloni di bellezza del paese per imporre un divieto (non ufficializzato in alcun modo) a una serie di trattamenti, quali la ricostruzione delle unghie in gel, il trucco semipermanente, l’applicazione di ciglia finte, i filler, il botox e la decolorazione dei capelli. Il controllo opprimente sui corpi femminili ha interessato anche il diritto all’aborto: negli ultimi mesi ha iniziato a essere applicata una legge approvata nel 2015, di cui nessuno era a conoscenza, che lo limita alle prime cinque settimane dal concepimento. Di fatto proibendolo, dato che la maggior parte delle donne non si rende nemmeno conto di essere incinta in una fase così poco avanzata della gravidanza. A causa delle drastiche restrizioni si sta sviluppando un rigoglioso mercato clandestino, erodendo ulteriormente l’autonomia delle turkmene ed esponendole a maggiori rischi per la loro salute. L’interdizione alla guida per le donne, mai formalizzata ma ottenuta, a partire dal 2018, attraverso il mancato rinnovo delle patenti per ragioni pretestuose e sistematici ritiri arbitrari, è ora accompagnata dal divieto di sedersi sul sedile anteriore delle automobili e di viaggiare su vetture private con uomini che non siano loro parenti.
Ašgabat non è certo nuova a tali derive autoritarie: ondate di vigorosa repressione si alternano a periodi in cui la presa sulla società civile è meno soffocante. Ma quanto sta accadendo negli ultimi mesi desta particolare preoccupazione. Squadre di agenti pattugliano le strade a caccia di donne troppo truccate o con labbra di volume sospetto. Alle coppie sorprese a camminare mano nella mano viene chiesto di provare il legame matrimoniale. Metodi che ricordano da vicino quelli della polizia religiosa dei limitrofi Iran (che ha annunciato di averla abolita) e Afghanistan.
Tradizioni «reinventate»
Tuttavia, in Turkmenistan, la giustificazione per comprimere le libertà femminili non è tanto l’islam, pure professato dalla maggior parte della popolazione, quanto il rispetto di sfuggenti «valori tradizionali». In tutta l’Asia centrale la caduta dell’URSS ha portato, nel processo di costruzione nazionale, al rifiuto di un’emancipazione delle donne percepita come estranea, sovietica, quindi coloniale, e alla riscoperta di antichi costumi che spesso assumono forme distorte, tanto da configurarsi, per dirla con la storica Marlène Laruelle, come tradizioni «reinventate».
È il caso, ad esempio dell’ala kachuu, ovvero il rapimento della sposa, largamente diffuso in Kirghizistan nonostante sia illegale dal 1994, e le pene siano state inasprite nel 2013. Poche sono le denunce, e ancor meno i casi che arrivano in tribunale. Tra gli studiosi che hanno esaminato attentamente le pratiche matrimoniali lungo tutta la storia della nazione, vi è un consenso unanime che prima del XX secolo la norma fossero le nozze combinate, mentre il ratto delle donne avveniva solo sporadicamente ed era considerato un grave insulto nei confronti della famiglia della ragazza rapita. Spesso era all’origine di conflitti intertribali e incursioni di rappresaglia mirate al salvataggio della giovane. Non una tradizione, ma un atto di aggressione.
Eppure, fin dall’epoca sovietica, tale usanza ha iniziato a divenire sempre più diffusa, poiché percepita come un’espressione dell’identità kirghisa. I suoi sostenitori affermano che il rapimento avviene quasi sempre con il consenso della futura sposa, una sorta di «fuitina», per ragioni economiche o per mettere genitori riluttanti di fronte al fatto compiuto. O ancora, asseriscono che in molti casi si tratta di una semplice messa in scena per rispettare la tradizione. Ma gli esperti, e i numerosi fatti di cronaca degli ultimi anni dicono il contrario. A causa della sua illegalità, non esistono statistiche ufficiali che diano conto del fenomeno. Secondo l’ONU, circa 12.000 donne e ragazze vengono sequestrate ogni anno a scopo di matrimonio: per avere un’idea delle proporzioni, nel 2021 le cerimonie celebrate nel paese sono state poco più di 50.000.
Il 7 marzo del 2016, alla vigilia della Giornata internazionale della donna, le kirghise sono state le prime in Asia centrale, poi seguite dalle kazake, a organizzare una marcia in difesa dei propri diritti. Da allora sono scese in piazza ogni anno, sempre più numerose, nonostante tali iniziative siano duramente contrastate dalla parte maggiormente conservatrice della società, e talvolta persino interrotte con la forza.
Gli impegni legislativi
L’uguaglianza di genere è sancita dalle costituzioni di tutti e cinque i paesi della regione. Dall’indipendenza, ognuno di loro ha ratificato la Dichiarazione universale dei diritti umani e sottoscritto la Convenzione ONU sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW). Gli stati centroasiatici sono inoltre firmatari della Dichiarazione di Pechino e della relativa Piattaforma d’azione. Nel corso degli ultimi trent’anni, questi principi sono stati tradotti, in misura varia, nelle leggi nazionali, anche se resta ancora molto da fare in materia di protezione giuridica e accesso ai diritti.
Tuttavia, nonostante gli impegni statali, la partecipazione delle donne nelle società dell’area resta ancora in larga parte limitata ai ruoli storicamente loro attribuiti. In politica, sono in poche a ricoprire posizioni apicali (notevole è stata, in Kirghizistan, l’eccezione di Roza Otunbaeva, leader dell’opposizione e capo dello stato ad interim dopo la rivoluzione del 2010), anche se le ultime elezioni presidenziali hanno visto candidati donna in tre dei cinque paesi in esame, e iniziano a esserci sempre più sindache, deputate, ministre e governatrici di regione. Un ostacolo rilevante alla realizzazione sociale delle donne è la bassa età media di matrimonio, che di frequente implica l’abbandono degli studi e il mancato ingresso nel mercato del lavoro, privandole dell’indipendenza economica. Dalle giovani ci si aspetta che si prendano cura della famiglia, inclusa quella del marito, nella cui casa tradizionalmente vanno a vivere gli sposi.
La violenza, specialmente tra le mura domestiche, è molto diffusa. In Tagikistan, la persistenza di asfissianti norme patriarcali e stereotipi sociali, l’inerzia delle forze dell’ordine nel perseguire i reati che si compiono all’interno delle famiglie, con conseguente impunità degli aggressori, e la mancanza di consapevolezza dei propri diritti da parte delle vittime rendono la situazione particolarmente grave. La pandemia da Covid-19 e le relative misure di confinamento hanno portato, come in tutto il mondo, a un sensibile aumento dei casi. In Kazakistan, considerato il paese più avanzato della regione in termini di parità di genere, nel 2020, secondo quanto affermato dalla ministra dell’Informazione e dello Sviluppo sociale, le denunce per violenza domestica sono cresciute del 25 per cento. Nonostante l’ampiezza del fenomeno, Astana non si è ancora munita di una legge organica che criminalizzi questo reato. Il governo ha annunciato di voler introdurre dei correttivi alla legislazione vigente, ma le attiviste locali ritengono che si tratti di «modifiche cosmetiche» che avranno effetti irrilevanti.
Verso un futuro più paritario?
Anche in Uzbekistan, il 2020 ha visto un grave incremento degli episodi di violenza ai danni delle donne: in 900 si sono tolte la vita, quando il dato si era assestato sulle 600 unità negli anni precedenti. Il ministero competente per gli Affari familiari ha riferito che nella maggior parte dei casi i suicidi sono avvenuti nel contesto di conflitti con i mariti o con le suocere, alla cui autorità le kelin (le nuore) sono soggette. Di recente un gesto brutale ai danni di una giovane sposa durante il suo ricevimento di nozze, ripreso con un cellulare e divenuto virale, ha portato il tema della violenza di genere al centro del dibattito pubblico nel paese. Lentamente, ma in modo costante, nella società uzbeka sta maturando una maggiore consapevolezza del fenomeno, trainata dalle nuove generazioni delle aree urbane e anche grazie all’azione di governo, che negli ultimi anni ha introdotto diverse misure di contrasto alla violenza domestica e di tutela delle vittime.
Nel complesso, la condizione femminile nella regione centroasiatica è molto eterogenea, anche all’interno dei paesi stessi. Tutti sono attraversati da faglie sociali che dividono le zone settentrionali da quelle meridionali, le città dai villaggi, e sono caratterizzati da una variegata composizione etnica, quindi culturale. Ovunque, nell’area in esame, le donne si scontrano con norme di comportamento non scritte che ne limitano gravemente l’autonomia e alti livelli di violenza, ma allo stesso tempo, la presenza sempre più strutturata e visibile di movimenti in difesa dei diritti è sintomo di dinamismo, e dona speranza per un futuro nel segno del progresso.