La situazione dei rifugiati ucraini a dieci mesi dallo scoppio della guerra è diventata molto composita, tra chi resta all’estero, chi cerca di tornare in patria e chi già cerca di impegnarsi nella ricostruzione. In un contesto estramemente mutevole, il proseguimento del conflitto e i cambiamenti delle politiche di asilo europee sono solo alcuni dei fattori che aggiungono ulteriori incertezze sul futuro della popolazione colpita.
L’involuzione dell’accoglienza europea
Secondo i dati raccolti da UNHCR, sono più di 7 milioni gli ucraini che dall’inizio del conflitto hanno attraversato i confini del Paese in cerca di protezione e riparo dalla guerra. Di questi, quasi 5 milioni i richiedenti Protezione Temporanea negli Stati membri dell’Unione Europea, usufruendo dello schema straordinario adottato dall’UE per gestire il più ingente flusso migratorio in Europa dalla Seconda guerra mondiale. La direttiva della Commissione europea sulla protezione temporanea, valida fino a marzo 2024, ha permesso ai rifugiati provenienti dall’Ucraina di ottenere alloggi, assistenza sanitaria e accesso al mercato del lavoro senza passare per le complesse misure di richiesta d’asilo.
La situazione dell’accoglienza in Unione Europea ha però negli ultimi mesi subito un’involuzione, dovuta alla crisi economica ed energetica che ha investito l’intero Occidente dopo la pandemia e lo scoppio della guerra. Di fronte a questa duplice sfida da raccogliere, sono proprio i Paesi ad aver accolto con più solerzia in un primo momento a ritrovarsi ora in grave difficoltà nel mantenere lo stesso livello di cura nei confronti dei profughi ucraini. Le ragioni alla base di questo impedimento si ravvisano in difficoltà di natura sia economica, a causa della scarsità di risorse, dell’aumento dei prezzi e della necessità di mettere in atto misure di austerity, sia politica, in quanto i governi si trovano sempre più in difficoltà nel giustificare ai propri cittadini il dispendio di tali risorse per il mantenimento di un popolo che continua ad essere percepito come ospite.
In Germania, dove un milione di rifugiati ucraini ha ricevuto accoglienza fino ad ora, ben 12 Länder su 16 hanno dichiarato di aver raggiunto il limite di alloggi e di accessi alle strutture educative, mentre l’Austria ha limitato la possibilità di viaggiare in treno gratuitamente ai soli ucraini che accedono al Paese per la prima volta, e la Gran Bretagna ha ammesso di non avere un piano per la ricollocazione di un terzo dei rifugiati stabilitisi su territorio britannico da febbraio in avanti. In Polonia, dove già tre mesi dopo lo scoppio del conflitto il governo aveva rivisto al ribasso i propri piani di accoglienza per evitare polemiche da parte dei cittadini, è stata introdotta un’ulteriore modifica con cui si richiede agli ucraini che soggiornino per più di 120 giorni su territorio polacco di pagare parte dei costi del proprio soggiorno. Ma in città come Varsavia, che iniziano a subire l’influenza dello stile di vita e dunque anche dei prezzi delle altre metropoli europee, sembra poco realistico chiedere ad un rifugiato disoccupato e spesso responsabile di minori di spendere per un affitto cifre che spesso neanche i locali possono permettersi.
All’esterno dell’UE, colpisce tra la lista dei Paesi d’accoglienza uno in particolare: sempre secondo UNHCR, ben 2 milioni e 593 mila ucraini sono stati registrati come sfollati in Russia dall’inizio del conflitto in Ucraina, dato confermato dall’agenzia di stampa russa TASS, che parla di 2.8 milioni di persone entrate nel Paese.
Secondo testimonianze raccolte da BBC, Associated Press e altre testate internazionali, il viaggio dei rifugiati ucraini diretti verso la Russia inizia dalle zone più martoriate dal conflitto, quelle controllate dalle truppe russe, la città di Mariupol, la regione di Kharkiv e le due repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk, e si dirama verso diverse destinazioni sul suolo russo, preferibilmente quelle collocate nell’estremo oriente russo, sconosciute ai viaggiatori. Il percorso di questi rifugiati ha una tappa fissa, quella dei “campi di filtraggio”, centri di raccolta e smistamento dei dati personali degli ucraini e spesso anche dei loro effetti personali. Tali trasferimenti, forzati o meno, garantirebbero alla Russia un nuovo flusso di immigrazioni, opportunamente indirizzate verso zone strategiche per ricchezza di risorse minerarie, passaggio di gasdotti – oltre a Power of Siberia, attualmente in funzione, anche il Power of Siberia 2 in fase di costruzione, che approvvigionerà annualmente la Cina con 50 miliardi di metri cubi di gas,– e vicinanza a un pivot geopolitico come l’Artico, al centro della sfida con Pechino per lo sfruttamento delle future rotte commerciali lungo la Northern Sea Route.
I numeri fino ad ora elencati non raccontano però di tutti i civili ucraini impossibilitati – o non intenzionati – a lasciare il territorio ucraino e spostatisi all’interno del proprio Paese per raggiungere zone meno segnate dal conflitto come quelle più occidentali e centrali, dove hanno richiesto ospitalità a strutture comunitarie e centri collettivi. Le stime di IOM, l’Organizzazione Internazionale per la Migrazione, riportano che ad ottobre 2022 il numero dei profughi interni, cosiddetti IDPs (Internally Displaced People) ammontava a 6 milioni e 540 mila persone.
Tornare a casa, anche se la casa non c’è
I dati riportati dalle agenzie internazionali non sono statici, ma devono la propria dinamicità, e dunque anche il rischio di imprecisioni, ai continui flussi di ritorno verso l’Ucraina verificatisi fin dai primi mesi dopo lo scoppio del conflitto. Caratteristica distintiva dei flussi migratori in oggetto è stata infatti la propensione dei profughi a tornare in patria, anche quando la guerra era ancora nel pieno del suo svolgimento, rischiando di ritrovarsi in zone soggette a bombardamenti. Per chi è sfollato all’interno del Paese il rientro nelle zone d’origine è di certo più facile, ma anche chi ha trovato accoglienza in Paesi esteri segue questa tendenza al ritorno.
Uno studio condotto da IOM sui cosiddetti “returnees” mostra come essi siano stati, nel primo periodo di flussi, prevalentemente persone dirette verso le regioni occidentali e la regione di Kiev, mentre chi proveniva dalle regioni centro-orientali e voleva farvi ritorno si è mosso con alcuni mesi di differenza, dovendo attendere un indebolimento delle ostilità. Interrogati a campione da IOM sui motivi di questa scelta apparentemente rischiosa, i rimpatriati hanno rintracciato tre ordini di ragioni per spiegare il proprio ritorno nel Paese ancora martoriato dai combattimenti: la maggior parte degli intervistati dice di essere stato spinto da ragioni sentimentali come la nostalgia di casa e il desiderio di riprendere una vita normale (42%), oltre che dal desiderio di riunirsi a familiari e amici (30%). Anche le motivazioni economiche hanno avuto un ruolo di primo piano, con il 34% che ha indicato il desiderio di avere un lavoro, di guadagnare uno stipendio o di gestire la propria attività come motivazione principale per il ritorno, e il 27% che ha indicato un alloggio più economico o di proprietà come motivo principale per tornare.
Ricostruire il capitale umano
I movimenti migratori da e verso l’Ucraina sono legati a doppio filo ad una delle conseguenze più incisive della guerra, l’impatto sul capitale umano del Paese, il costo umanitario di questa guerra che genererà strascichi nel lungo periodo. L’impatto più immediato è riscontrabile nella diminuzione della popolazione dovuta all’uccisione di civili durante gli scontri. Secondo le statistiche di OHCHR, più di 4300 civili sono stati uccisi durante i mesi del conflitto, tra cui 272 bambini, e oltre 5000 sono stati feriti. In aggiunta a queste perdite, vanno considerati anche gli ucraini che hanno ottenuto la protezione temporanea al di fuori del Paese e che non sanno quando vi rientreranno – per timore di nuovi scontri, perdita delle proprietà ma anche perché hanno iniziato a costruirsi un futuro nei Paesi che li hanno accolti. Oltre a questa conseguenza di natura quantitativa, è riscontrabile una seconda forma di intaccamento del capitale umano del Paese, questa volta qualitativa: l’impatto che la guerra ha avuto e continua ad avere sulla “produttività” degli ucraini.
Tale impatto è misurabile attraverso vari indicatori sociali, quali la scolarizzazione dei bambini, le competenze lavorative degli adulti, e le conseguenze sanitarie, siano esse psicologiche o fisiche. I bambini e ragazzi ucraini che frequentavano la scuola al momento dello scoppio del conflitto, e che nei due anni precedenti erano stati costretti a sperimentare l’istruzione a distanza a causa della pandemia, si sono ritrovati totalmente privati della possibilità di ricevere un’educazione a tutto tondo, che implicasse rapporti umani e luoghi dove socializzare con i coetanei. Una situazione del genere, come già verificatosi durante la Seconda Guerra Mondiale, ha causato lacune educative che, secondo vari studi, si ripercuoteranno sulle carriere future degli studenti in questione. Per questo il governo ucraino è stato fin da subito insistente nel proporre che venisse erogata la didattica online anche durante la guerra, garantendo dove era possibile che gli studenti rimanessero in contatto ognuno con la propria scuola. D’altra parte, questo approccio ha complicato, anziché facilitare, l’integrazione dei ragazzi nei Paesi dove si erano stabiliti e di cui avrebbero potuto frequentare le scuole.
Per quanto riguarda gli adulti, il loro capitale umano è deteriorato da una duplice causa: da un lato, la disoccupazione crescente nel Paese, dovuta sia all’arruolamento in guerra che alla crisi economica che ha distrutto il 30% dell’economia ucraina; dall’altro, il cambiamento di domanda del mercato, che in fase di ricostruzione post-bellica richiederà competenze fino ad ora non sviluppate. Gli alti numeri di sfollati interni mostrano inoltre come la forza lavoro dapprima presente in alcune zone si sia smembrata riversandosi in regioni diverse, generando una densità abitativa sbilanciata. Le zone orientali, più intensamente e lungamente colpite dagli attacchi, si sono infatti quasi totalmente svuotate dei propri abitanti, spostatisi altrove in cerca di riparo, ma sono anche quelle che necessiteranno di maggiori sforzi e capacità per essere ricostruite. Bisogna ammettere che la disponibilità a tali sforzi, e al ritorno nelle zone rase al suolo, rappresenta indubbiamente uno dei tratti caratteristici ed eccezionali della popolazione ucraina; ciò che però urge è un vero e proprio riaggiustamento della forza lavoro, ossia una formazione – o riformazione – della popolazione adulta nell’ottica di una ricostruzione del Paese, che al contempo non può prescindere da uno sforzo di ricostruzione psicologica e fisica dei suoi cittadini.
Questi passi verso una ricostruzione, prima di tutto umana, dell’Ucraina potrebbero essere utili anche ad imprimere un cambio di rotta a quell’involuzione dell’atteggiamento dei Paesi europei raccontata all’inizio di questo articolo. I Paesi che hanno il tempo e la possibilità di dedicarsi ad un aiuto prima di tutto educativo e formativo dei rifugiati, potrebbero e dovrebbero mettere, prima ancora che misure di welfare e sostegno economico, le proprie strutture e capacità al servizio di uomini che devono imparare un lavoro, di bambini che necessitano di un’istruzione più integrale di quella virtuale e, più in generale, di persone che sentono il bisogno di un supporto psicologico e umano per prendere in mano le sorti del proprio popolo. Al contempo, l’Ucraina stessa può incoraggiare la costruzione di capitale umano attraverso l’attuazione di politiche che, in parallelo alla ripresa economica e infrastrutturale, favoriscano l’emergere di una fiducia nelle istituzioni e il senso di coesione sociale, per esempio garantendo il reinserimento nel settore civile di chi ha partecipato alle azioni militari e facilitando l’accesso della popolazione ai servizi psicologici e medici.