Le relazioni diplomatiche tra i due Paesi hanno toccato uno dei punti più bassi dalla fine della Guerra fredda. Tuttavia, alcune linee di comunicazione critiche rimangono aperte, mentre il conflitto in Ucraina continua a determinare in larga parte le regole del gioco.
“È probabilmente sbagliato giungere a qualunque ipotetica conclusione che questo potrebbe essere un passo verso il superamento della crisi attualmente in corso nelle relazioni bilaterali” – così Dmitrij Peskov, portavoce del Cremlino, ha commentato lo scambio di prigionieri tra Stati Uniti e Russia, avvenuto lo scorso 8 dicembre, che ha portato alla liberazione della cestista statunitense Brittney Griner in cambio di quella di Viktor Bout, noto trafficante d’armi russo.
Griner era stata arrestata a febbraio di quest’anno e condannata a nove anni, dopo che all’aeroporto Sheremetyevo di Mosca le autorità russe l’avevano trovata in possesso di meno di un grammo di olio di cannabis. Bout, d’altro canto, si trovava sotto custodia americana dal 2008, da quando un’operazione della DEA ne aveva svelato i piani di vendere milioni di dollari in armi a membri della FARC (rivelatisi poi agenti statunitensi sotto copertura). Entrambe le parti hanno rispettivamente asserito che prima l’imprigionamento di Bout, poi quello della Griner fossero in realtà dovuti a motivazioni politiche. Tuttavia, nello scambio dell’8 dicembre il piatto della bilancia pende piuttosto chiaramente dalla parte di Mosca. Mentre nei corridoi del Cremlino lo scambio viene celebrato come una vittoria di Putin, alla Casa Bianca viene rimproverato dalle fazioni più conservatrici di aver lasciato indietro il marine Paul Whelan, detenuto in Russia sotto accusa di spionaggio.
La cornice dello scambio Griner-Bout è quella che è stata definita la peggiore crisi dei rapporti Stati Uniti-Russia dalla fine della Guerra fredda. Nel marzo del 2021, agli inizi della presidenza Biden, il Segretario di Stato Anthony Blinken, in visita ai quartieri generali NATO a Bruxelles, aveva affermato che “quello che possiamo sperare è avere una relazione con la Russia che sia almeno prevedibile e stabile”. L’insediamento di Biden aveva certamente segnato un cambio di passo rispetto al suo predecessore, Donald Trump. È sicuramente celebre l’intervista del neopresidente con ABC News, nella quale aveva definito Putin “un assassino” – accusa forse non solo indirizzata a Mosca, ma atta anche a scuotere la sensibilità di alcuni Stati europei, come la Germania. Quello che forse non viene ricordato è che, contestualmente, Biden aveva sottolineato l’interesse comune nel portare avanti un’intesa su alcuni dossier specifici, come il controllo sugli armamenti nucleari – di cui simbolo l’estensione dell’accordo New START, prolungato fino al 2026. I due leader si erano inoltre incontrati nel giugno 2021 a Ginevra. Il summit sembrava aver dato un impulso almeno parzialmente positivo alle relazioni tra i due Paesi, e nei mesi successivi i contatti tra Washington e Mosca erano gradualmente diventati più frequenti.
L’invasione dell’Ucraina ha totalmente cambiato le carte in tavola. Le speranze di Blinken di una relazione “prevedibile e stabile” con il Cremlino sono state deluse. Già nel periodo immediatamente precedente al 24 febbraio 2022, i rapporti tra Stati Uniti e Russia avevano iniziato a incrinarsi. Questo accadeva mentre la Casa Bianca diffondeva informazioni di intelligence sulla concentrazione di truppe russe al confine con l’Ucraina, e Biden tentava di dissuadere Putin dal procedere con l’offensiva. Sforzi, come sappiamo, rivelatisi vani – con tutto quello che ne è conseguito, poi, in termini di sanzioni contro Mosca e di contestuale supporto militare a Kiev. È al momento piuttosto evidente che il conflitto in Ucraina determinerà il procedere delle relazioni bilaterali tra i due Paesi. Non solo per le sue implicazioni pratiche, ma anche perché ha portato all’instaurazione di un clima di profonda sfiducia a livello diplomatico.
Ne è un esempio il rinvio russo dell’incontro al Cairo, alla fine dello scorso novembre, proprio sotto l’ombrello del New START. Stati Uniti e Russia avrebbero dovuto discutere, tra i vari punti, della ripresa delle ispezioni reciproche agli arsenali in loro possesso. Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo, ha motivato la decisione di Mosca di non partecipare all’incontro in Egitto, accusando il governo americano di voler manipolare il trattato in favore degli Stati Uniti, senza però fornire alcuna prova. Zakharova ha poi affermato che “in ogni area, osserviamo l’alto livello possibile di tossicità e ostilità da parte di Washington” e che “quasi ogni passo degli Stati Uniti verso la Russia è affetto da un desiderio patologico di danneggiare il nostro Paese dovunque possibile”.
Del resto, all’inizio dello stesso mese, l’influente Evgenij Prigožin aveva ammesso – o quantomeno asserito provocatoriamente – di interferire nelle elezioni di metà mandato negli Stati Uniti: “Abbiamo interferito, stiamo interferendo e continueremo ad interferire – attentamente, accuratamente, chirurgicamente e a modo nostro, come sappiamo fare”. Affermazioni che di certo non hanno posto le basi per una ricostruzione efficace dei canali di comunicazione tra i due Paesi. Tuttavia, erano state proprio le midterm americane a suscitare qualche preoccupazione in Ucraina. Il timore di Kiev era che l’impegno statunitense – non solo a livello materiale, ma anche su un piano diplomatico – potesse essere messo in difficoltà da una maggiore influenza della fazione repubblicana più conservatrice. E che di conseguenza l’asse russo-americano si potesse spostare a favore di Mosca. Dall’altra parte della barricata, il Cremlino dimostrava un umore diverso. Lo stesso Peskov aveva dichiarato alla stampa: “Queste elezioni sono importanti, ma non è necessario esagerare la loro importanza nel breve e medio termine per le nostre relazioni. Queste elezioni non possono cambiare nulla di essenziale. Le relazioni sono ancora, e rimarranno, cattive”.
Proprio nella settimana successiva alle elezioni di metà mandato, il direttore della CIA Burns ha incontrato ad Ankara la controparte russa Naryškin. Un’iniziativa americana, come la telefonata tra Lloyd Austin e Šojgu di fine ottobre. A differenza di quanto successo in quest’ultima occasione, però, Burns e Naryškin non hanno discusso direttamente della situazione in Ucraina, ma delle minacce avanzate dalla Russia sul possibile uso dell’arma nucleare. Questi contatti dimostrano una certa attenzione da parte americana nel cercare di mantenere aperte alcune linee di comunicazione particolarmente funzionali nel quadro più ampio di una strategia di mitigazione del rischio e di deescalation. Un atteggiamento non sempre corrisposto da parte russa – qualche giorno dopo l’incontro di Burns e Naryškin, infatti, il capo dello stato maggiore russo Gerasimov non avrebbe risposto alla telefonata del capo dello stato maggiore congiunto americano Milley, in merito ai missili caduti in territorio polacco.
Come già accennato, quindi, il contesto regionale europeo determinerà con tutta probabilità l’evolversi delle relazioni tra Stati Uniti e Russia, i cui toni avevano già iniziato a raffreddarsi dal 2014. E sull’interpretazione di quanto sta accadendo in Ucraina, come sappiamo i due differiscono radicalmente. Da una parte, il comportamento russo viene percepito come il trascinarsi di un’indole imperialista e aggressiva, desiderosa di ristabilire la propria influenza sul mondo post-sovietico. Dall’altra, questa postura viene motivata con una rielaborazione di alcuni episodi storici e dal senso di accerchiamento derivante dal mancato rispetto delle promesse fatte riguardo l’allargamento NATO.
È interessante notare come nella storia delle relazioni bilaterali tra questi due Paesi molto spesso i migliori risultati a livello diplomatico siano stati raggiunti non solo a fronte delle mutate circostanze internazionali,ma sostanzialmente anche grazie a uno sforzo decisivo dei singoli leader. Da questo punto di vista, sul medio termine i rapporti tra Washington e Mosca hanno poco spazio di miglioramento, dato che l’immagine di Vladimir Putin rimarrà ormai legata all’invasione dell’Ucraina, chiudendo così la porta a tutta una serie di opzioni diplomatiche. Alcuni dossier regionali europei continueranno a fungere da terreno di scontro. Sul piano globale, invece, sia Mosca sia Washington guarderanno con tutta probabilità a Pechino – l’uno cercando una spalla a cui appoggiarsi, sia per alleviare alcune conseguenze materiali del conflitto in corso, sia a livello ideologico, contro la superpotenza americana; l’altro cercando di calibrare la propria risposta contro la Russia in vista anche della competizione in corso con la Cina.