Non solo la tradizionale prossimità tra Stato e Chiesa. Ad avvicinare il patriarca e il presidente, entrambi ex agenti del KGB, sono diverse contingenze. Il mondo ortodosso intanto è sempre più diviso.
La Chiesa ortodossa russa, guidata dal patriarca di Mosca Kirill, ha chiarito la sua posizione sulla guerra in Ucraina fin dalla prima settimana dopo l’invasione del 24 febbraio 2022. Contro ogni apparente (nostra) logica, Kirill, con il sostegno di gran parte dell’alto clero ortodosso russo, ha sposato la retorica ufficiale del Cremlino. Un atto che sembra più in linea con un comune interesse di espansione e controllo, piuttosto che con una rispondenza a qualche più alto principio.
Nel corso del suo patriarcato, infatti, Kirill ha fatto spesso riferimento al concetto ortodosso della sinfonia, secondo cui Chiesa e Stato sarebbero due realtà distinte ma vicine e complementari e, anche e soprattutto nel contesto dell’attuale guerra, sembra che ad esso voglia rifarsi per giustificare la sua adesione all’ideologia putiniana. È verosimile credere, tuttavia, che il rapporto attuale tra Stato e Chiesa in Russia si nutra in realtà di ambizioni più terrene che spirituali, in un do ut des post-sovietico, fatto di scambi e vantaggi reciproci. Nonostante questo, o, forse, esattamente per questo, il patriarca di Mosca non ha esitato, nelle sue omelie, a trasformare una guerra di conquista in una vera e propria guerra santa, tirando in ballo la corruzione morale dell’Occidente e le sue “peccaminose parate gay” quali incarnazioni dell’anticristo.
Esiste un prima e un dopo il 24 febbraio, e quella data, che ha cambiato profondamente la Russia e, insieme ad essa, il mondo, ha rappresentato uno spartiacque anche per il patriarcato di Mosca e i suoi rapporti col potere politico nazionale. Kirill si è spinto molto oltre le aspettative generali nel sostenere la propaganda di Putin, spaccando la sua Chiesa e inimicandosi le comunità ortodosse non russe all’estero. Eppure, la vicinanza tra il potere politico e quello religioso non comincia certo con l’invasione su larga scala dell’Ucraina del 2022, né con la guerra in Donbass del 2014.
Nel 2009 Vladimir Michailovič Gundjaev viene nominato patriarca di Mosca con il nome di Kirill. A differenza del suo predecessore Aleksej, Kirill ritiene fin da subito di dover avvicinare le istanze della religione a quelle della politica, in antitesi con la tendenza alla privatizzazione del sentimento religioso dell’Occidente. L’obiettivo è di raggiungere o, meglio, di tornare a quell’unità d’intenti, la già citata sinfonia, che caratterizzava i rapporti Stato-Chiesa prima della “parentesi” sovietica, ovvero durante l’impero zarista. Di fatto, dal passato sovietico, ateo per definizione, e dalla sua storia familiare fatta di persecuzioni religiose, Gundjaev ha imparato una lezione molto semplice: è meglio avere dalla propria parte chi comanda.
Proprio tra il 2007 e il 2009, e cioè nello stesso periodo dell’ascesa di Gundjaev-Kirill, all’interno del partito di governo Russia Unita cominciano a prendere piede quelle idee conservatrici, antioccidentali e illiberali che tutto il mondo conosce come l’ideologia ufficiale della Russia odierna. Nonostante sia Putin che Gundjaev fino a quel momento venissero tutto sommato considerati, tanto in patria quanto all’estero, dei leader aperti alle posizioni dell’Occidente e, in qualche modo, vicini ad esse, è invece all’insegna dei cosiddetti “valori tradizionali”, quindi in opposizione all’Occidente, che ha inizio la loro intesa. Un Putin in calo nei sondaggi, alla ricerca di una base ideologica per il suo potere, e un giovane Kirill appena eletto ma già con le idee chiare, entrambi ex agenti del KGB con una forma mentis da “homo sovieticus”, trovano, probabilmente anche grazie alla figura mediatrice del religiosissimo Medvedev (presidente della Federazione tra il 2008 e il 2012), una linea comune.
Questa è basata, appunto, sui “valori tradizionali” del nazionalismo e della religione ortodossa, su una visione messianica, nonché imperialista, del ruolo della Russia nel mondo e su una contrapposizione sempre più netta con l’Occidente (con tutto quello che “Occidente” significa) e, in particolare, con gli Stati Uniti. Tale vicinanza di pensiero e di intenti ha garantito una serie di vantaggi reciproci. Per la Chiesa ortodossa, oltre ad agevolazioni fiscali e vantaggi economici, un rinnovato consolidamento nel tessuto sociale russo dopo lo sradicamento forzato del periodo sovietico attraverso una serie di misure, a partire dall’introduzione dell’ora di religione nelle scuole. Per il governo di Putin, invece, soprattutto con la guerra in Ucraina, questi vantaggi assumono varie forme. In primo luogo, il sostegno della Chiesa contribuisce alla crescita, nonché al mantenimento, del consenso interno e del sostegno all’“Operazione militare speciale” (è di Kirill la frase secondo cui Putin sarebbe “un miracolo di Dio”). Dal momento che quella ortodossa è la religione più diffusa in Russia con circa il 79% di credenti, anche se non tutti coloro che si definiscono cristiani ortodossi si rispecchiano nelle istituzioni ecclesiastiche, l’influenza del patriarca sull’opinione pubblica russa è rilevante.
Oltre al consenso interno, il patriarcato di Mosca ha inoltre una propria rete diplomatica attraverso la quale esercita il suo soft power in numerosi Paesi stranieri, in linea anche con le posizioni e gli obiettivi del governo che oggi sono orientati verso la creazione di un mondo multipolare dove la Russia abbia nuovamente un ruolo di primo piano. Questo significa, da un lato, mantenere buoni rapporti con gli ambienti più conservatori della Chiesa evangelica americana e di quella cattolica europea. Dall’altro, esercitare la propria influenza attraverso le chiese ortodosse nazionali che rientrano sotto la sua autorità – e su un vasto numero di Stati, non solo quelli di stretta osservanza ortodossa. Il plateale sostegno di Kirill alla guerra ha tuttavia danneggiato l’immagine della Chiesa ortodossa russa al di fuori dei confini della Federazione. E com’è facile immaginare, l’ha fatto soprattutto in Ucraina e nei Paesi baltici, dove le chiese ortodosse autoctone stanno cercando sempre più di ottenere l’indipendenza o di radicalizzare il proprio distacco (nel 2019 la chiesa ucraina è stata formalmente riconosciuta autocefala dal patriarca di Costantinopoli, ma non da Mosca). Ad essere compromessi, con un incredibile effetto boomerang, sono quindi gli interessi della stessa Chiesa russa, che da anni punta a espandersi nello spazio post-sovietico e in modo particolare in Ucraina, dove è nata.
Dal 2015, cioè da quando la Russia è intervenuta militarmente in Siria a fianco di Assad, la Chiesa si occupa anche di offrire aiuto sul campo. Il supporto morale dei sacerdoti, che sono fisicamente presenti al fronte, con tanto di chiese e cappelle militari, migliora il morale e la resistenza psicologica dei soldati. Inoltre, con l’ampliamento del fronte ucraino a inizio 2022 e l’inizio della campagna di mobilitazione parziale, la presenza dei rappresentanti del clero è diventata ancora più importante: poiché fornisce, laddove la propaganda politica non arriva, una giustificazione, per un credente sacra e inviolabile, a una guerra altrimenti insensata. Il primo discorso pubblico di Kirill che va in questa direzione risale al 6 marzo 2022. Proprio in occasione di quell’intervento, il patriarca definì ‘metafisica’ la guerra in corso e rivendicò il diritto di stare ‘dalla parte della luce e della parola divina’ contro il peccato, cioè contro quella società del consumo e dell’eccesso, delle false libertà di chi vive senza Dio, che è l’Occidente. Sono invece dello scorso settembre le dichiarazioni dello stesso Kirill secondo cui morire combattendo in Ucraina purificherebbe le anime dei soldati (dal momento che combattono per una guerra giusta, santa). Trasformando di fatto i caduti in martiri, le parole del patriarca di Mosca rimandano quasi all’epopea delle crociate, a una guerra di civiltà dai toni apocalittici, e scavano una frattura sempre più profonda con l’Occidente liberale e laico, ma anche con i suoi vertici religiosi. In un anno di guerra, infatti, l’atteggiamento ufficiale della Chiesa ortodossa di Russia e del suo patriarca è rimasto lo stesso, nonostante il tentativo di intermediazione delle altre e soprattutto di quella cattolica di Papa Francesco, il quale ha condannato fin da subito la guerra e rivolto a Kirill parole piuttosto dure.
Nell’analizzare i rapporti tra la Chiesa e il potere politico in Russia oggi, a un anno dall’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina, è importante non trascurare, da un lato, il ruolo che in essi giocano le singole personalità dei rispettivi leader, Kirill e Putin, e dall’altro, il fatto che il sostegno religioso alla campagna militare e alla propaganda governativa trova le sue radici in più di un decennio di ideologia condivisa e scambio reciproco di vantaggi. Durante la guerra questo sostegno non è venuto meno, anzi si è intensificato, contribuendo in maniera massiccia alla diffusione della propaganda e del consenso verso il regime. Allo stesso tempo, l’appoggio all’“Operazione militare speciale” è costato all’ortodossia russa un grande danno di immagine all’estero, bilanciato, tuttavia, da un’influenza e un peso sempre crescenti all’interno del territorio nazionale. Per il Cremlino, la Chiesa si sta confermando un alleato prezioso in vari modi, in un connubio repressivo e oscurantista che porta la Russia indietro di secoli, direttamente al motto dello zar Nicola I: “autocrazia, ortodossia e nazionalità”[1].
Maria Vittoria Rossi
[1] “Autocrazia, ortodossia, nazionalità” nasce nel 1812 come motto militare diffusosi fra le truppe russe durante la campagna di Russia di Napoleone, in contrapposizione al francese “Liberté, égalité, fraternité“, ma viene coniato in questa forma solo nel 1833 dal conte Sergej Uvarov, ministro dell’Istruzione sotto Nicola I. Lo stesso zar fece suo questo trinomio insolubile che stava ad indicare la lealtà del popolo russo al sovrano e al suo potere autocratico, alle tradizioni della Chiesa ortodossa russa e alla patria russa.