Le ultime dichiarazioni di venticinque cittadini russi processati e condannati per reati d’opinione nella Russia di Putin, raccolte da Sergej Bondarenko e Giulia De Florio, membri dell’associazione Memorial, premio Nobel per la pace nel 2022.
Nadežda Jakovlevna Khazina è vissuta 82 anni, circa la metà dei quali impiegati a custodire e ripetere dentro di sé, parola dopo parola, i versi scritti dal marito, scomparso nel gorgo delle repressioni staliniane, ucciso dal potere di uno Stato che temeva i suoi poeti. Uno Stato che temeva chi aveva il coraggio di sbeffeggiare un dittatore paragonando i suoi baffi scuri alle antenne di uno scarafaggio. Grazie all’incessante lavoro, allo sforzo della memoria di una vedova, grazie a Nadežda, possiamo leggere oggi le parole di uno dei più grandi poeti del Novecento, Osip Emil’evič Mandel’štam. Grazie al lavoro dell’associazione russa per i diritti civili Memorial, che studia le repressioni politiche di ieri e di oggi, e ai curatori di Proteggi le mie parole, pubblicato nel dicembre del 2022 dalla casa editrice E/O, possiamo leggere in italiano venticinque “ultime dichiarazioni” di cittadini russi arrestati per motivi politici e reati d’opinione tra il 2017 e il 2022. “Proteggi le mie parole”, oltre ad essere il titolo della raccolta, è un verso dello stesso Mandel’štam, morto nel 1938 in un gulag, perseguitato per le sue poesie – che, come tutte le grandi poesie, non erano di regime.
Che il titolo della raccolta faccia riferimento a un tempo della storia russa particolarmente oscuro, e a un poeta di cui si sono perse le tracce in un campo di transito tra un gulag e l’altro, non è un caso. In Russia la repressione e la censura hanno dei precedenti lunghi oltre un secolo e quello che oggi, a partire dall’invasione su larga scala dell’Ucraina, si verifica quotidianamente (arresti di massa, perquisizioni, violenze da parte della polizia, intercettazioni e processi arbitrari, condanne spropositate a chi si dichiara apertamente contrario alla guerra) fa precipitare lo sguardo indietro, verso un passato torbido. Eppure, in Russia, la repressione e la censura vanno da sempre di pari passo con il dissenso e la resistenza (non solo civile ma anche personale e umana), ovvero con la speranza. Chi resiste, cioè spesso proprio chi rischia di scomparire nelle pieghe buie della storia, lo fa perché spera che qualcosa cambi. Perché spera che, nonostante tutto, ci sia o ci sarà qualcuno a proteggere le sue parole. Come scrive la poetessa russa Polina Barskova, qualcuno disposto a “farsi archivio[1]”: a rendersi, cioè, custode di quelle parole in bilico tra memoria e oblio, a prestarvi ascolto, e tenerle a mente, per poi tramandarle.
Nel 1966 in Unione Sovietica ci fu un processo contro gli scrittori Julij Daniel’ e Andrej Sinjavskij, accusati di aver scritto e pubblicato all’estero opere “antisovietiche”. Le loro “ultime dichiarazioni”, ovvero quelle parole che nel sistema giudiziario russo gli imputati stessi hanno la facoltà di pronunciare in propria difesa prima della sentenza, si trasformarono nella “base di una nuova espressione artistica e politica”, come scrivono Bondarenko e De Florio. E se poterono divenire tali, fu proprio grazie a chi decise di proteggere quelle parole, di memorizzarle e, in seguito, trascriverle e farle circolare clandestinamente in samizdat[2].
Bondarenko e De Florio, curatori di Proteggi le mie parole e membri rispettivamente di Memorial International e Memorial Italia, ripercorrendo la storia di questo particolare genere, l’“ultima dichiarazione”, includono i testi della raccolta in una tradizione “artistica e politica” russo-sovietica. In questo senso, non solo contestualizzano le “ultime dichiarazioni” dei prigionieri politici nella Russia odierna, ma attribuiscono loro una carica ulteriore di forza e dignità, che viene direttamente dal passato. La prefazione di Marcello Flores pone altrettanta attenzione all’aspetto storico, allargando ancora di più il quadro con riferimenti al periodo zarista. Flores inoltre fa notare il paradosso, per noi occidentali lampante, di uno Stato che priva i suoi cittadini della libertà di parola e al tempo stesso concede loro, prima della condanna già scritta, la possibilità di pronunciare l’ultima parola libera. Risponde Flores che, forse, si tratta di un retaggio di quella cultura della lettera e della parola che sappiamo contraddistinguere la Russia ma che non le impedisce, per dirlo con il titolo di una celebre opera di Roman Jakobson, di dissipare i suoi poeti[3]. Né di dissipare il suo futuro.
Le venticinque “ultime dichiarazioni” di Proteggi le mie parole – solo un campione, ridotto ma significativo, delle migliaia di persone condannate per motivi politici oggi – si susseguono in ordine cronologico e coprono gli anni tra il 2017 e il 2022. A ciascuna di esse viene accompagnata una breve scheda che fornisce le coordinate necessarie alla comprensione della vicenda. Le voci contenute nella raccolta vanno da quelle più note, ormai famose tanto in Russia come all’estero, di artisti, politici, attivisti (Serebrennikov, Naval’nyj, Pussy Riot), a quelle meno conosciute di ambientalisti e politici locali o attivisti per i diritti umani, giornalisti, studenti. Varie età, varia estrazione sociale, varia provenienza geografica. Un tema ricorrente: il futuro della Russia. Con un’élite politica che impone di guardare in maniera univoca al passato, di mitizzarne alcuni aspetti e cancellarne altri, che del passato fa il proprio presente, che ha al polso un orologio rotto, a un cittadino per finire sotto processo basta agire da cittadino, adoperarsi perché al proprio Paese spetti un futuro migliore, o anche solo uno normale. Ciò che emerge, forte e chiaro, da queste “ultime dichiarazioni” è proprio una netta contrapposizione tra due visioni del mondo, tra passato e futuro, in un presente di guerra.
Il futuro si declina in molti modi nelle “ultime parole” della raccolta. Alcuni esempi. Luglio 2022, Andrej Pivovarov, condannato a quattro anni di reclusione per la sua attività politica, dice: «Può anche sembrare che si tratti di uno scontro fra lo Stato e un pugno di emarginati. Che di mezzo ci sia giusto qualcuno che vuole farsi sentire. In realtà è qualcosa di più profondo: lo scontro è con il nostro futuro». Dicembre 2020: Julija Galjamina è una filologa e docente universitaria, oltre che politica di opposizione, condannata a due anni con la condizionale per aver promosso manifestazioni di piazza contro la modifica della costituzione russa. Le sue parole sono: «Al contrario dei miei persecutori, quello che io propongo a noi tutti è il futuro. Un futuro in cui ogni nostro concittadino, ovunque abiti, possa vivere dignitosamente, guadagnare a sufficienza, comprare cibo e vestiti di buona qualità, viaggiare, far curare i propri cari e far studiare i figli. E allo stesso tempo sentirsi libero e al sicuro». Ottobre 2021: Vjačeslav Egorov, attivista ecologista, si rivolge nella sua “ultima dichiarazione” «a chi si batte per elezioni senza brogli, per la Russia del futuro, per i diritti umani e perché nella Russia di domani questi diritti siano garantiti. A tutti coloro per i quali questo futuro è importante». Tutti sembrano visualizzare con chiarezza il futuro e, piuttosto che con spavento, vi guardano con trepidazione: vogliono farne parte.
Nonostante le condanne sempre più dure che gravano sulle spalle degli oppositori (solo poche settimane fa il giornalista e politico Vladimir Kara-Murza è stato condannato a 25 anni di carcere per alto tradimento, dopo aver tenuto dei discorsi sullo stato della libertà di espressione in Russia), il futuro continua ad essere ricorrente nei discorsi e nelle dichiarazioni dei condannati, un’idea per cui vale la pena resistere. «Sarò uno di quelli che costruiranno sulle rovine del putinismo una nuova Russia libera e felice[4]», afferma Il’ja Jašin dalla cella dove sta scontando una pena di otto anni per la diffusione di informazioni false sull’esercito russo. Se dalle carceri russe, dall’emigrazione russa all’estero (tutti i protagonisti di queste “ultime dichiarazioni” si trovano o in prigione, o in un esilio forzato) ci arrivano esempi di resistenza e speranza, di una Russia che si è emancipata dal suo passato e guarda fiduciosa verso il futuro, anche se da una condizione di precaria marginalità, è a noi che spetta proteggere queste voci perché risuonino più forte. Come dice la Pussy Riot Marija Alëchina: «È nel silenzio che accadono le cose più tremende». Proteggi le mie parole è un tentativo di rompere il silenzio a cui ogni prigioniero politico viene relegato.
Maria Vittoria Rossi
[1]Polina Barskova, Živye kartiny, Izdatel’stvo Ivana Limbacha, 2019.
[2]Fenomeno sviluppatosi in Unione Sovietica tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, che consisteva nella diffusione clandestina di testi che non potevano essere pubblicati a causa della censura.
[3]Una generazione che ha dissipato i suoi poeti è uno scritto del celebre linguista russo Roman Jakobson scritto subito dopo il suicidio di Majakovskij avvenuto nel 1930.
[4]La dichiarazione di Jašin si può leggere tradotta in italiano sull’account Instagram di Memorial Italia.