Siamo arrivati al decimo pacchetto di sanzioni, ma sulla loro efficacia ormai anche la stampa più ostile a Mosca mostra seri dubbi. La crescita dei BRICS e il ruolo degli intermediari. E se Putin avesse voluto la guerra proprio per staccarsi dall’Occidente?
Il 25 febbraio scorso, il Consiglio europeo ha varato il decimo pacchetto di sanzioni contro la Russia, colpendo altre 87 persone (banchieri, politici, funzionari, giornalisti…) e 34 entità, portando così il totale dei sanzionati a 1.473 persone e 205 entità. A questo si sono aggiunte, ovviamente, ulteriori misure di tipo economico, per esempio il divieto di importare dalla Russia bitume, asfalto e gomme sintetiche o di esportare in Russia bussole, radar, gruppi elettrogeni, quadri elettrici di controllo, motori diesel e impianti industriali. Come si vede (e come peraltro aveva detto in marzo anche Josep Borrell, alto rappresentante dell’Unione Europea per la politica estera e di sicurezza), si sta raschiando il fondo del barile, dopo le migliaia di provvedimenti adottati dal 24 febbraio 2022, che peraltro andavano ad aggiungersi a quelli già presi dopo la riannessione della Crimea nel 2014.
Forse anche per questo, in quello stesso periodo anche la stampa mainstream (definizione orrenda ma utile a capirsi) ha cominciato a chiedersi se innumerevoli sanzioni adottate in così breve tempo contro la Russia stessero dando i frutti sperati. The Spectator, Forbes, Corriere della Sera, BBC… E la risposta è stata sempre più spesso uno sconsolato no. Per un po’ l’ottimismo sull’effetto delle sanzioni è stato obbligatorio, quasi un dogma. D’altra parte a garantire in proposito erano personaggi stimati e autorevoli, ai quali era difficile non dare fiducia. L’allora premier Mario Draghi, per esempio, che di economia capisce, nella primavera scorsa disse che le sanzioni avrebbero dispiegato tutto il loro peso in estate, cosa che non pare sia avvenuta. Ma che qualcosa non funzionasse lo si poteva intuire dalla sostanziale vaghezza degli obiettivi che con quei provvedimenti ci si prefiggeva.
Il 1° marzo del 2022, ovvero all’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, il ministro francese delle Finanze Bruno Le Maire disse: “Provocheremo il crollo dell’economia russa”. La prima, e più clamorosa, delle previsioni sbagliate. Via via si è detto un po’ di tutto. Che con le sanzioni avremmo bloccato o frenato la macchina da guerra del Cremlino, e non è successo: l’industria bellica russa è tuttora in grado di produrre 60 missili a lunga gittata al mese e, pare, mille carri armati l’anno. Che le difficoltà di vita, provocate appunto dalle sanzioni, avrebbero spinto la popolazione russa a rivoltarsi contro Vladimir Putin, e non è successo. E anche, in maniera più immaginifica, che l’isolamento economico internazionale avrebbe spinto la Russia ancor più nelle braccia della Cina, che a sua volta avrebbe puntato a mediare una pace in Ucraina. Dimenticando che alla Cina, già impegnata in un braccio di ferro globale con gli Usa e i loro alleati, tutto può far comodo tranne che una Russia sconfitta.
È ovvio che le sanzioni hanno colpito l’economia russa, e non poco. Le esportazioni russe di gas sono scese di quasi il 50% e quelle di petrolio del 60%, ovvero si sono assottigliate le travi che reggono le sorti del bilancio dello Stato. Che infatti, nei primi cinque mesi del 2023, ha mostrato un deficit pari a circa 40 miliardi di euro. Le riserve della Banca centrale di Russia, che erano a quota 640 miliardi prima dell’invasione, sono scese a 580, con 300 miliardi però bloccati nei conti occidentali, appunto per le sanzioni. I prezzi al consumo aumentano. E così via. Le difficoltà sono notevoli. Nulla, però, che arrivi neppure vicino al “crollo dell’economia russa”, o a fermare la guerra con l’Ucraina o a sollevare i russi contro il Cremlino.
Alla radice dell’insuccesso stanno diversi fattori, che proviamo qui a elencare. Il primo è l’analisi delle decisioni prese da Putin e dal suo gruppo di potere. L’invasione del 2022 è stata letta, in generale, come il delirio di una leadership violenta, impegnata a resuscitare un mai davvero sepolto imperialismo vetero-sovietico. In qualche caso, come il colpo di testa di un uomo malato. E se invece lo scopo vero dell’invasione fosse non tanto (o comunque non solo) prendersi un po’ di territori ucraini con la loro parte di popolazione russofona, ma proprio sganciarsi da certe “servitù” occidentali? Non dover più importare dall’Europa il 90% dei semiconduttori o dipendere dal mercato europeo del gas e del petrolio per sostenere il bilancio? Assurdo? Azzardato? Forse, ma in proposito conta il giudizio del Cremlino, non il nostro. Qualcuno ricorderà che Ursula von Der Leyen sei mesi fa disse che i russi cannibalizzavano frigoriferi e lavatrici per cavarne i microchip da utilizzare per gli armamenti. Lo direbbe ancora, oggi?
La seconda considerazione è in qualche modo collegata alla precedente: si ha l’impressione che le cancellerie occidentali facciano riferimento a un ordine economico mondiale che in realtà è almeno in parte tramontato. Le riunioni del G7 (Usa, Canada, Giappone, Francia, Regno Unito, Germania e Italia) creano una grande eco mediatica. Ma mentre alla fine degli anni Ottanta il G7 rappresentava quasi il 70% del Pil mondiale, oggi è sotto il 45% ed è stato superato dai BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che in agosto peraltro dovrebbero accogliere anche Arabia Saudita e Iran, con la Turchia in lista d’attesa. E il Pil della Cina, secondo tutte le previsioni, si appresta a sua volta a superare quello degli Usa. Nomi di Paesi che aiutano a capire un altro fatto: l’alleanza delle democrazie sviluppate ha perso anche in capacità di traino e convinzione. Ciò che esse decidono, le loro scelte strategiche, i valori a cui si ancorano, non diventano più, automaticamente, patrimonio di tutte le nazioni. E infatti nessuno dei Paesi nominati ha aderito alle sanzioni contro la Russia. Il che (terza considerazione) riduce in briciole le argomentazioni di coloro che dicono: le sanzioni funzionerebbero se fossero davvero applicate da tutti.
È vero, le sacche di inadempienza ci sono e sono importanti. Secondo la società norvegese di consulenza alle aziende Corisk, che ha analizzato i dati delle dogane di dodici Paesi della Ue più Norvegia, Regno Unito, Stati Uniti e Giappone, nel 2022 merci per 8,5 miliardi di dollari sono state avviate verso la Russia in barba alle sanzioni sull’export. E i due Paesi più inadempienti, tra quelli analizzati, sono Germania e Lituania. Il sistema, peraltro legale, è noto: le aziende non mandano le merci in Russia ma in Kazakistan, Georgia, Armenia, Kirghizistan, Turchia: cioè in Paesi che non applicano le sanzioni contro Mosca. Poi, da lì, a prezzo ovviamente maggiorato, raggiungono la Russia. E il punto è proprio questo: se tanti Paesi non concordano con le sanzioni, come si può pensare che queste funzionino? Chi può pretendere di isolare la Russia se c’è una breccia così larga?
Ma il problema dei problemi, alla fin fine, è sempre quello: non si capisce bene quale sia il fine ultimo delle sanzioni. A lume di ragione, il vero obiettivo dovrebbe essere far cadere il regime preso di mira, oppure spingerlo a cambiare le sue politiche. E questo, siamo onesti, non avviene praticamente mai. Non è successo con gli ayatollah dell’Iran, con Bashar al-Assad in Siria, con i Castro a Cuba, con la Russia di Putin, con la Bielorussia di Lukashenko, con l’Afghanistan dei talebani, con la Corea del Nord di Kim Jong-un, con il Libano di Hezbollah, con la Cina di Xi Jinping. E nemmeno con il poverissimo Yemen della rivolta houthi. Se si consultano le pagine del ministero italiano delle Finanze (per le sanzioni europee) o quelle del Dipartimento del Tesoro Usa, si scopre che mezzo mondo è sotto sanzioni. E il risultato politico tuttora scarseggia.
Non va invece trascurato un altro esito della strategia sanzionatoria. Per una quasi inevitabile eterogenesi dei fini, i regimi che si vorrebbe azzoppare quasi sempre escono rafforzati. Pensiamo all’Iran, sotto sanzioni in pratica da cinquant’anni, cioè dal 1978 della Rivoluzione islamica e della presa di ostaggi all’ambasciata americana, e poi anche per il nucleare. Pensiamo alla stessa Russia, che non è mai stata così sanzionata ma che comunque si portava appresso persino sanzioni decise ancora in epoca sovietica. Scaricandosi assai più sulla popolazione che sulle leadership, le sanzioni vengono percepite come un’aggressione esterna e generano rigurgiti nazionalisti che vanno a tutto vantaggio del regime di turno. Al resto provvedono le leggi repressive che vengono prese anche in nome della reale o presunta aggressione esterna. Se qualcuno ancora crede che colpire il popolo serva a mettere in crisi il re, farebbe bene a guardarsi intorno, perché succede più spesso il contrario: colpire il popolo aiuta il re. È venuto il momento di trovare qualcosa di più adatto al mondo contemporaneo e di più efficace.
Fulvio Scaglione