L’importanza dell’infrastruttura di collegamento tra la Crimea e il resto della Federazione Russa va ben oltre gli aspetti strategici, ed è al centro della narrativa di Putin – nonché, specularmente, dei mirini ucraini. Il Ponte di Crimea rischia però di diventare un enorme “villaggio Potëmkin”, vetrina confortante di un sistema meno solido di quanto voglia apparire.
Nella notte tra il 16 e il 17 luglio gli ucraini hanno colpito per la seconda volta (la prima era stata l’8 ottobre del 2022) il Ponte di Crimea (o di Kerč), l’ardito collegamento stradale e ferroviario che Vladimir Putin aveva “ordinato” pochi mesi dopo la riannessione della Crimea, nel 2014, affidando i lavori alle società del fido oligarca Arkadij Rotenberg. Il ponte, con i suoi 18,1 chilometri il più lungo d’Europa, è in effetti un’opera straordinaria e fu completato in tempi record (meno di quattro anni) e a costi record: 14 miliardi di dollari. Il primo attentato, quello del 2022, fu realizzato con un camion imbottito di esplosivo. Il secondo con dei droni marini che, dicono i russi, sono stati coordinati da un drone aereo da ricognizione degli Usa.
Non è difficile intuire l’importanza, per la Russia, di questo collegamento. Via strada e via rotaia arrivano alla Crimea, dalla regione di Krasnodar, fitta di industrie e di basi militari, tutti i rifornimenti essenziali, essendo ovviamente preclusi quelli con la confinante Ucraina. Ultimi, ma non ultimi, i turisti che tanto contribuiscono all’economia della penisola – da sempre, fatte le debite proporzioni, una specie di grande lido romagnolo per i russi. Le esigenze pratiche, fatta salva l’indubbia importanza del ponte, potrebbero essere soddisfatte anche con altri mezzi. Gli aerei, per esempio, o i traghetti, che infatti hanno continuato a navigare anche in queste settimane. Nel caso del Ponte di Crimea, il lato simbolico è decisamente prevalente.
Nei giorni dell’ultimo attentato, i più patriottici tra i media ucraini hanno fatto circolare una cartina che mostra il lunghissimo periplo che i russi dovrebbero compiere per arrivare in Crimea se fossero fatti saltare il ponte di Crimea, appunto, e quello di Gonchar, che sulla terraferma in pratica fa da confine tra la Crimea e la regione di Kherson. Come se, appunto, in Crimea si potesse arrivare solo via terra. E lo stesso presidente Zelens’kyj ha ribadito che il Ponte “è un nostro obiettivo e deve essere neutralizzato”. Dall’altro lato c’è la smodata passione di Vladimir Putin per il “suo” Ponte di Crimea. Fu lui a volerlo, lo abbiamo già detto. Fu lui a inaugurarlo, il 15 maggio del 2018, guidando personalmente un camion che stava alla testa di una colonna degli automezzi utilizzati per costruirlo. Fu ancora lui, nel 2022, a percorrerlo, di nuovo impugnando un volante, per re-inaugurarlo dopo i lavori di ripristino a seguito del primo attentato. E conoscendo il tipo, si può quasi scommettere che lo rifarà non appena il vice-premier Khusnullin, l’uomo delle situazioni di emergenza, avrà riparato gli ultimi danni.
Il punto è che il Ponte, più di qualunque altra cosa, è un gigantesco cordone ombelicale che lega la Crimea alla Russia. Per questo Putin lo vuole intatto, anche se in Crimea si potrebbe arrivare pure in altro modo. Per questo Zelens’kyj vuole abbatterlo, anche se è importante ma non decisivo per i collegamenti tra la Russia e la Crimea. Da un certo punto di vista, il Ponte è un gigantesco “villaggio Potëmkin” dei giorni nostri, uno spettacolo orchestrato per esaltare una vittoria (la riannessione della Crimea alla Russia) e la potenza dello Stato.
Quando i russi, dopo infinite guerre e ogni genere di sforzo, riuscirono finalmente ad appropriarsi della Crimea, nel 1783, la zarina Caterina II, che voleva insediarsi sul Mar Nero, il mare che non ghiacciava d’inverno, decise di affidare il nuovo possedimento (e molto altro, visto che la carica era quella di governatore generale della Russia meridionale) al suo favorito del momento, il generale Grigorij Potëmkin, subito insignito del titolo di principe di Tauride (così era stata ribattezzata l’oblast’ crimeana). Per riprendere una frase celebre del vecchio Viktor Cernomyrdin, che fu premier dal 1992 al 1998, già allora “volevamo fare tutto per bene ma è finita come al solito”. Potëmkin convocò i più illustri studiosi e scienziati dell’impero perché esaminassero la situazione dell’ex khanato tataro e suggerissero riforme e interventi per trasformare la Crimea nel “giardino della Russia” tanto desiderato dalla zarina. E qualcosa pur si fece, dando sviluppo ai porti e modernizzando l’agricoltura. Poco, però, rispetto alle promesse. E quando Caterina II, nel 1787, decise di visitare la Crimea, aspettandosi di trovare tutte le meraviglie che le erano state descritte, il principe di Tauride non trovò di meglio che inventare i famosi “villaggi Potëmkin”: finti insediamenti, all’apparenza ovviamente perfetti, dove schiere di comparse si atteggiavano a villici felici, beneficati dalla conquista russa e desiderosi solo di salutare la sovrana. La zarina viaggiava con un seguito imponente, che comprendeva anche un gruppo di diplomatici stranieri. E questi lasciarono passare pochi giorni prima di riferire alla propria corte che Potëmkin, avendo intascato parte dei fondi trasmessi da San Pietroburgo per lo sviluppo della Crimea, era dovuto ricorrere a quell’astuta farsa per non perdere il titolo, il ruolo di favorito e forse pure la testa.
L’odierno Ponte serve a Putin per mostrare ai russi che tutto va bene, che “la Crimea è nostra e lo sarà per sempre”, come dicono gli slogan dei propagandisti TV. Abbatterlo serve a Zelens’kyj per mostrare che, al contrario, quel ponte non è che un gigantesco villaggio Potëmkin, una finzione che pretende di sfidare i trattati internazionali. Non la storia, perché la Crimea fu soprattutto tatara, poi russa (dal 1783, appunto) e solo di recente ucraina per gentile regalia di Nikita Khruščev nel 1954. Ma la geografia sì. Lo stesso Khruščev, quando fece quel passo, volle sottolineare che ciò avveniva “tenendo conto della comunanza dell’economia, della prossimità territoriale e degli stretti legami economici e culturali tra la regione della Crimea e la Repubblica Socialista Sovietica Ucraina”. Magari non ci credeva ma aveva ragione. Putin lo sa, ci mancherebbe, certo non ignora che qualunque cartina geografica mostra la Crimea come una protuberanza dell’Ucraina. Il “suo” ponte è il villaggio che racconta una storia diversa.
Fulvio Scaglione