La tendenza a ingigantire i dissidi tra Mosca e Tel Aviv è spesso frutto di una certa ignoranza sui rapporti tra i due Paesi. Che restano essenziali anche a fronte delle oggettive difficoltà che li attraversano. Nuova puntata della rubrica “Dietro lo specchio” di Fulvio Scaglione
Il dito puntato contro la Russia anche per la questione di Gaza (Putin è d’accordo con l’Iran, arma Hezbollah, sostiene Hamas…) è la dimostrazione perfetta di come l’onda di emozione generata dall’invasione dell’Ucraina stia degradando l’informazione e l’analisi in ancelle della propaganda. Non ci vuole molto a capire che quella tesi è assurda. Basta chiedersi, per esempio, perché la Russia, che secondo certi “esperti” starebbe lavorando con un vasto “fronte del male” (Iran, Hamas, Siria…) per la rovina di Israele, ora non impedisca allo stesso Israele di colpire gli aeroporti siriani di Damasco e Aleppo, avendo già dal 2015 fornito a Bashar al-Assad i sistemi antiaerei S-300. Da ricordare, peraltro, che alla vigilia di quella decisione il premier israeliano Benjamin Netanyahu si recò a Mosca per parlarne con Vladimir Putin, non esattamente l’atteggiamento che si tiene con un Paese ostile. E che proprio in quell’occasione nacque il “patto” per cui, in questi anni, le forze aeree dello Stato ebraico hanno potuto colpire indisturbate, in Siria, molte basi e installazioni dei pasdaran iraniani o delle formazioni a essi legate.
Certe pseudo-analisi, comunque, affondano le radici in una sostanziale ignoranza del complesso rapporto che lega la Russia a Israele, l’unico Paese del Medio Oriente dove i russi si sentono a casa: il 15% della popolazione israeliana è in vario modo russofono, e il cosiddetto “voto russo” è un fattore importante in ogni elezione; fino all’irruzione del Covid, circa 600 mila turisti russi ogni anno viaggiavano verso Gerusalemme e Tel Aviv; la Chiesa ortodossa russa è saldamente radicata nella Terra Santa.
Pur essendo stata uno dei primi Paesi a riconoscere il neonato Stato ebraico, l’Unione Sovietica svoltò verso i Paesi arabi dopo l’ascesa al potere di Nikita Khrushcev, fino a interrompere le relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico nel 1967, con la Guerra dei Sei Giorni. Fu Mikhail Gorbačëv a riallacciarle nell’ottobre del 1991, appena prima che l’URSS scomparisse, e poi Boris El’cin a ravvivarle, nonostante l’inclinazione filo-araba del ministro degli Esteri (1998-1999) e brevemente primo ministro (1999) Evgenij Primakov. Poi, come per tutto il resto del Medio Oriente, arrivò Vladimir Putin ad aprire una stagione del tutto nuova e intensa.
I dirigenti israeliani se ne accorsero anche prima di altri. Ariel Sharon fu tra i pochi leader mondiali a non criticare l’intervento russo in Cecenia, in nome della comune ostilità verso i terroristi islamisti, fossero ceceni o palestinesi. Anzi: nel 2004, dopo la strage di Beslan, la collaborazione tra i due servizi segreti fu approfondita e nel 2005, quando compì il suo primo viaggio nel Paese, Putin si pronunciò con forza per la sicurezza di Israele, accolse la richiesta del premier Olmert di non fornire missili Iskander alla Siria e si offrì di ospitare a Mosca un tavolo negoziale tra israeliani e palestinesi.
Si potrebbero fare infiniti esempi di convergenze politiche tra Israele e Russia, basate sul principio fondamentale che entrambe le dirigenze, al di là degli interessi contingenti, condividono: nessuna avventura, se il risultato più probabile è aumentare l’instabilità e l’incertezza. 2008: Israele, di nuovo quasi solo rispetto al resto dell’Occidente, non critica l’intervento russo in Georgia, anzi: sospende la collaborazione militare con Tbilisi. 2013: Israele e Russia condividono una discreta ma sostanziale soddisfazione per il colpo di Stato con cui il generale Al-Sisi, in Egitto, rovescia il presidente Morsi, espressione dei Fratelli Musulmani. 2015: l’intervento armato della Russia in Siria è considerato da Israele un elemento di stabilizzazione, di fronte alla prospettiva dell’insediamento dell’Isis o di una Siria frantumata e in preda al caos.
La Russia ricambia: prima modera Assad (la frontiera Sud, ovvero la linea di armistizio stabilita nel 1973 nel Golan, resta calma e lo è tuttora), poi, una volta assicuratane la vittoria, o almeno la permanenza al potere, impedisce che i pasdaran iraniani e l’Hezbollah libanese la facciano da padroni a Damasco e dintorni, cosa che ovviamente nemmeno al Cremlino converrebbe. Netanyahu e Putin si sono sempre consultati sulle operazioni in Siria e, appunto, i caccia di Israele hanno sempre potuto colpire gli obiettivi delle milizie legate a Teheran, soprattutto nel sud del Paese. Nel 2016, quando Putin annunciò un parziale ritiro delle truppe russe dalla Siria, la preoccupazione dei vertici israeliani era evidente. E che tra Israele e Siria ci sia sempre stata una sorta di intesa è diventato più che chiaro nel 2018, quando un missile S-200 (non un S-300, che i siriani possono lanciare solo con l’autorizzazione dei russi), sparato dalle forze armate siriane per colpire un caccia F-16 israeliano, colpì un aereo da carico militare russo che volava nello stesso spazio, abbattendolo e uccidendo l’intero equipaggio. Ci fu uno scambio di accuse ma è significativo che i comandi russi non rimproverassero a Israele l’attacco in sé ma solo di non essere stato avvertiti con l’anticipo concordato di 15 minuti.
Restano, è chiaro, le differenze. La principale è il rapporto tra Russia e Iran, il Paese che Israele considera la prima minaccia alla propria esistenza. I politici israeliani, primo fra tutti Netanyahu, ovviamente non approvano. Ma anche in questo caso prevale il realismo. La Russia di Putin giocò un ruolo fondamentale di mediazione nella trattativa che, nel 2015, portò l’amministrazione Obama a siglare con l’Iran l’accordo sul nucleare che escludeva l’arricchimento dell’uranio a scopo militare. Un accordo che aveva i suoi difetti (non interveniva, per esempio, sulla costruzione di missili balistici) ma che in generale funzionava, come confermarono in diverse occasioni gli ispettori dell’ONU. Non piaceva a Netanyahu e fu annullato unilateralmente da Donald Trump nel 2018. Ma che quell’accordo fosse molto meglio di niente lo hanno confermato gli anni successivi: l’Iran ha ricominciato ad arricchire uranio, gli USA hanno dovuto precipitarsi a riaprire una trattativa con gli ayatollah (anche nel timore che, come mediatore tra Teheran e Gerusalemme potesse inserirsi proprio il Cremlino) e Israele ha ancor più timore dell’Iran di quanto ne avesse con il detestato accordo in vigore. E in ogni caso, come già detto, in Siria la Russia è un argine all’espansionismo iraniano, non il contrario.
L’altro punto critico delle relazioni tra Russia e Israele è il principio dei “due popoli due Stati” che il Cremlino continua a sostenere (Putin lo ha ribadito più volte in queste settimane) e che la politica israeliana da tempo rigetta. Israele può reggere il dissenso: quasi tutti i Paesi del mondo pensano, o almeno dicono, che il nodo fondamentale da sciogliere sia quello dello Stato per i palestinesi, ma ciò non ha cambiato e non sembra cambiare le politiche dei governi israeliani. Quel che più conta, per i dirigenti dello Stato ebraico, è che la Russia abbia smesso da tempo di sostenere anche in solido la causa palestinese. I fondi russi avevano smesso di affluire già negli ultimi tempi del Fronte di liberazione della Palestina di Yasser Arafat (si veda anche What is Russia up to in the Middle East di Dmitri Trenin, analista molto apprezzato in Occidente). E dal 2006, cioè da quando una guerra intestina divise le sorti di Al-Fatah da quelle di Hamas e la Cisgiordania dalla Striscia di Gaza, il Cremlino, avendo mantenuto i contatti con entrambe le parti, è tornato a essere potenzialmente prezioso per i governi israeliani, questa volta come eventuale mediatore tra le fazioni palestinesi, nella convinzione che nessuna vera pace sarà possibile senza una guida unificata per i palestinesi. Di nuovo, e per entrambi i Paesi: meglio un male sotto controllo che un male incontrollato.
Potremmo citare una lunga serie di altri fatti che, a quanto pare, ad alcuni ancora sfuggono. Le relazioni commerciali, per esempio, che per molti anni hanno permesso alla Russia di acquisire proprio in Israele parte di quella tecnologia che Usa ed Europa rifiutavano ormai di concederle. O, ai giorni nostri, il rifiuto di Israele di contribuire ad armare l’Ucraina e di fornire lo scudo anti-aereo Iron Dome che a Kiev sarebbe tanto servito. Ma vediamo che anche la politica, ormai, si rende conto dell’evidenza. Il che ci fa dire, di nuovo: per fortuna non governano i professori.
Fulvio Scaglione