Di fronte al tentativo di utilizzare la revoca della cittadinanza come arma, l’opposizione bielorussa si sta mobilitando per sdoganare l’utilizzo di un nuovo sistema di passaporti. Un’operazione diretta contro la politica di forza di Lukašenko, ma che potrebbe avere conseguenze anche in altri contesti internazionali.
Il periodo immediatamente successivo alla Prima guerra mondiale fu caratterizzato da un mutamento radicale della fisionomia geopolitica del Vecchio Continente. Il disgregarsi degli Imperi centrali, i 14 punti di Wilson e i trattati di pace firmati in varie cittadine vicino a Parigi confluirono in un momento storico particolarmente turbolento. A complicare le cose fu l’avvento della Guerra civile russa e, in particolare, la decisione delle autorità bolsceviche di revocare la cittadinanza a coloro che risiedevano nei territori una volta appartenenti all’Impero zarista, nonché a coloro che avevano lasciato il Paese prima o dopo la Rivoluzione senza il permesso delle autorità e che avevano partecipato a sommosse antisovietiche.
Così, nell’intramezzo tra le due guerre mondiali, e più precisamente tra il 1922 e il 1938, per far fronte al vasto numero di apolidi e profughi la Lega delle Nazioni costituì un nuovo sistema internazionale di passaporti. Tale sistema fu intitolato all’Alto Commissionario per i rifugiati ed esploratore Fridtjof Nansen, insignito del Premio Nobel per la pace nel 1922. Tra i personaggi illustri che ottennero il passaporto Nansen figurano artisti del calibro del compositore Igor Stravinskij, il pittore Marc Chagall e il pianista Sergej Vasil’evič Rachmaninov.
A cento anni dall’istituzione di Nansen, si torna a parlare della possibilità di istituire un nuovo sistema di documenti di viaggio internazionalmente riconosciuto per tutti quegli apolidi provenienti dagli angoli più disperati del pianeta – dai curdi ai rohingya. L’idea di un passaporto Nansen 2.0 è stata negli ultimi mesi ripristinata a più riprese sia per offrire un documento di viaggio alternativo agli oppositori russi che per far fronte al crescente numero di migranti climatici. Ma alla lista degli apolidi in Europa adesso si aggiungono anche i bielorussi che hanno lasciato il loro Paese.
Lo scorso 4 settembre, il presidente bielorusso Aleksandr Lukašenko con un colpo di penna ha sospeso il rinnovo dei passaporti bielorussi all’interno delle ambasciate o consolati all’estero, giustificando tale decisione con la volontà di ottimizzare le procedure amministrative e le attività delle missioni estere. Il decreto presidenziale n. 278 determina così la possibilità di ottenere nuovi documenti di viaggio solo facendo ritorno in patria tramite una richiesta alle autorità competenti presso la propria residenza. Un modo per delegittimare e punire tutti quei cittadini che in qualche modo secondo Lukašenko avrebbero tradito la propria patria, identità ed origini.
L’interruzione del rilascio di passaporti presso le rappresentanze diplomatiche ufficiali non solo restringe la libertà di movimento oltre frontiera di tutti quei cittadini che hanno lasciato il Paese, ma costringe i bielorussi a rincasare per tutta una serie di procedure ed atti legati, ad esempio, al possesso di beni – come passaggi di proprietà, rilascio di diplomi o certificati vari. Eccezion fatta per gli impiegati statali e “altri individui” approvati dal governo.
Il decreto n. 278 non solo viola la Costituzione bielorussa, ma anche la Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari, il cui articolo 5 prevede che la prima funzione basilare di una rappresentanza consolare sia quella di proteggere gli interessi del proprio Stato e dei propri cittadini. L’articolo 59 della Costituzione della Repubblica di Bielorussia decreta invece l’impegno dello Stato bielorusso in termini di protezione dei diritti e delle libertà dei cittadini bielorussi.
Un viaggio a casa potrebbe tuttavia costare caro alle migliaia di bielorussi costretti all’esilio dopo il 2020 e, soprattutto, per l’opposizione dopo il giro di vite degli ultimi tre anni, rendendoli possibilmente soggetti alla persecuzione di Stato. Nel maggio del 2022 Lukašenko ha esteso la pena capitale in caso di “preparazione di atti di terrorismo”. Quello di terrorismo figura tra i capi di accusa che pendono a favore della stessa Svetlana Tichanovskaja e di decine di oppositori e attivisti quali Nikolaj Avtuchovič o Igor Losik.
Così, la leader dell’opposizione bielorussa Tichanovskaja ha avviato una campagna di sensibilizzazione al fine di trovare supporto in seno alle istituzioni europee nel concepimento di un passaporto per la “Nuova Belarus”.[1] Idea già ventilata lo scorso marzo in un discorso della stessa di fronte al Parlamento Europeo, che tuttavia pone una serie di problematiche di legittimità legate al fatto che l’autorità di presidente in esilio di Tichanovskaja non è internazionalmente riconosciuta. Di recente, l’ufficio della leader dell’opposizione bielorussa ha fatto sapere che sarebbero già iniziate le attività di approvvigionamento dei materiali per la stampa dei nuovi passaporti e che, una volta pronti, i primi campioni saranno inviati ai governi dei Paesi disposti al riconoscimento.
Diversi Paesi europei stanno mostrando solidarietà nei confronti dei bielorussi anche grazie al protagonismo e attivismo della Tichanovskaja, che ha portato alla formazione di gruppi parlamentari amici della Nuova Belarus dal Parlamento italiano alla Seima lituana. Lo scorso 25 novembre la stessa ha incontrato la Ministra degli Affari Esteri tedesca Annalena Baerbock con la quale ha discusso del rilascio di nuovi visti e passaporti per i bielorussi che hanno trovato rifugio in Germania.
Anche l’Italia sta facendo la sua parte. Lo scorso 14 novembre il gruppo parlamentare amico della Nuova Belarus ha presentato un’interrogazione al Ministero degli Esteri e a quello degli Interni per garantire documenti ai cittadini bielorussi che risiedono nel nostro Paese. Nell’atto rilasciato lo scorso 29 novembre dal Senato della Repubblica dopo una seduta presieduta da membri di varia estrazione (Partito Democratico e Fratelli d’Italia) si legge che il governo si impegna a “prevedere speciali documenti di viaggio per i cittadini bielorussi che hanno il diritto di risiedere in Italia e che sono stati privati del passaporto bielorusso”.
Il decreto di Lukašenko sui passaporti si inserisce in un contesto di rinnovata pressione e repressione anche in vista delle elezioni parlamentari che si terranno nel febbraio del prossimo anno. Negli ultimi giorni le famiglie di decine di attivisti e di oppositori vicini al Consiglio di coordinamento sono state prese di mira. Si registrano perquisizioni forzate e arresti arbitrari tra i parenti degli attivisti, bollati dall’opposizione come la “vendetta delle autorità contro coloro che hanno promosso l’avvio di un procedimento penale contro Lukašenko e il suo entourage per i crimini commessi”. Alle restrizioni sui passaporti si affianca, dunque, un nuovo giro di vite in patria contro coloro che hanno scelto di restare.
“Intimidire gli oppositori è una tattica ben nota da parte del regime […] tuttavia, questa terribile repressione non può farci rimanere in silenzio”. Queste le parole di Svetlana Tichanovskaja. Sebbene l’idea di un nuovo sistema di Nansen possa sembrare ad oggi ancora fumosa, l’impegno da parte dell’opposizione bielorussa e dei Paesi occidentali potrebbe de facto costituire un unicum e un precedente nella costituzione di un nuovo sistema di documenti di riconoscimento. Tale mossa costituirebbe un affondo decisivo a tutti quei regimi che utilizzano il ricatto della soppressione della cittadinanza come arma dal forte valore pratico e simbolico.
[1] L’opposizione bielorussa preferisce chiamare il proprio Paese “Belarus” perché tale termine rappresenta una forma di identità nazionale e distinzione culturale rispetto al nome “Bielorussia”, storicamente legato a una maggiore assimilazione culturale e politica con la Russia.