Stime ONU del 2021 riferiscono di 11 milioni di cittadini russi che vivono all’estero, mentre alcuni calcoli1 rivelano che dall’invasione dell’Ucraina si siano trasferiti stabilmente in altri Paesi circa 1.3 milioni di russi2. Per dare il senso dell’ordine di grandezza con cui abbiamo a che fare, stiamo parlando approssimativamente di un 8,4% della popolazione complessiva del Paese. Questo numero, tutt’altro che irrilevante, ci suggerisce l’importanza di studiare il comportamento elettorale di queste persone.
Tuttavia, l’incertezza del dato e la particolarità del processo elettorale russo, nient’altro che una ratifica delle decisioni prese dal regime, rende un esercizio sterile provare a calcolare un ipotetico “spostamento” causato dal voto estero.
Eppure, negli ultimi mesi ha generato una moderata attenzione dai parte dei media internazionali la decisione di alcuni Paesi di permettere il voto russo, così come della Russia stessa di blindarlo in altri. Un’analisi di questi fatti, apparentemente minori, è utile per almeno due ragioni: da una parte permette di saggiare la tenuta della relazioni di Mosca con alcuni di questi Paesi “di confine”, in bilico tra i due poli eurasiatici sempre più definiti; dall’altro, allarga lo sguardo sugli emigrati russi, specialmente di nuovo arrivo, e sulla loro presunta condizione di oppositori politici in fuga.
I Balcani tra Russia e UE
Il 14 febbraio, la Bosnia Erzegovina ha autorizzato il voto dei cittadini russi nell’ambasciata di Sarajevo e nella sede dell’azienda Optima Lux a Banja Luka, capitale della Repubblica Srpska, entità regionale a maggioranza etnica serba con larga autonomia, lascito della guerra del 1992. Come spiega Radio Free Europe3, Optima Group è di proprietà del gruppo russo NeftegazInKor, a sua volta affiliato alla compagnia petrolifera di Stato Zarubezhneft, con sede a Mosca ma operante in Bosnia. Questa modalità di voto, atipica per usare un eufemismo, suggerisce da sé l’importante intreccio di interessi che da Mosca arriva nel cuore dell’Europa meridionale, in un Paese candidato ad entrare a far parte dell’Unione Europea.
Non serve però scavare così a fondo per scorgere i riflessi dell’influenza di Mosca in Bosnia e nei Balcani: basta guardare all’attivismo sulla scena internazionale di Milorad Dodik, leader della Repubblica Srpska, che nell’ultimo mese ha incontrato Lukashenko e Putin e ha ricevuto da quest’ultimo l’Ordine di Aleksandr Nevskij per il suo contributo allo sviluppo della cooperazione tra la Federazione Russa e la Bosnia Erzegovina”4.
L’equazione tra Paesi variamente “filo-russi” e apertura delle urne è però una tentazione che non va raccolta: rimanendo nella penisola balcanica, Macedonia del Nord e Kosovo hanno dato luce verde al processo elettorale (tramite voto elettronico nel caso di Pristina), mentre il governo serbo, ben più vicino a Mosca, non si è espresso. Difficile ipotizzare le ragioni: un caso non fa statistica, ma la notizia dei giovani cittadini russi impegnati a raccogliere firme per Boris Nadezhdin a Belgrado5 da’ adito a speculazioni sulla convenienza per il Cremlino nel permettere il voto in Serbia.
Il voto nei “Paesi ostili”
The Moscow Times riporta come nelle ambasciate russe nel mondo apriranno circa 300 seggi elettorali, 100 in meno rispetto alle elezioni del 2018. La ragione facilmente rintracciabile nelle parole della portavoce del Ministro degli Esteri Maria Zakharova, secondo cui il voto estero nei Paesi occidentali “ostili” a Mosca comporterebbe dei “rischi per la sicurezza” in particolare in Paesi in Europa e America che non hanno garantito “assistenza nella gestione dell’ordine pubblico durante il processo elettorale”6.
Letta dalla prospettiva opposta, il rischio per la sicurezza riguarda i votanti più che il voto in sé. E’ l’opinione7 di Artyom Waschenkow, attivista russo residente in Germania, secondo cui entrare in un’ambasciata russa – che equivale a suolo russo – comporta rischi non indifferenti per oppositori politici residenti all’estero.
Le possibilità di voto estero nei Paesi “ostili” a Mosca si sono ridotte drasticamente a causa della chiusura di diverse sedi di rappresentanza russa in vari Paesi dell’Unione Europea. Che ciò sia da attribuire alla volontà di detti Paesi, come sostenuto da Zakharova, o a un tentativo da parte di Mosca di silenziare gli esuli più politicamente posizionati è difficile da stabilire in mancanza di dati sulle intenzioni elettorali di queste persone. Rimane un fatto però che entrare in Unione Europea da cittadino russo è ben più difficile che stabilirsi in Armenia o in Serbia, ed è lecito pensare chi si è preso questo onere avesse delle ragioni per allontanarsi il più possibile dalla Russia, anche politicamente.
Il voto nelle regioni separatiste: il caso della Transnistria
Com’è ovvio, non si può parlare di voto estero in Transnistria, Abkhazia e Ucraina occupata. Si tratta di regioni controllate direttamente da Mosca che può piazzarvi seggi elettorali a piacimento. C’è un caso però, quello della Moldova, che è diventato politicamente significativo viste le crescenti tensioni sulla possibilità di un intervento russo a “protezione” dei cittadini russi della regione separatista.
Il caso nasce dal “no” di Chisinau del 7 febbraio alla richiesta formale da parte di Mosca di autorizzare le operazioni di voto in Transinistria. La decisione del governo europeista di Maia Sandu ha segnato un importante argine politico all’influenza russa nel Paese, ma nulla di più: come riconosciuto dalla stessa Moldova, non c’è modo di impedire le operazioni di voto in una regione che da più di trent’anni è occupata dall’esercito russo.
27 seggi elettorali sono oggi allestiti nella striscia di terra tra il fiume Dnestr e il confine ucraino in cui risiedono circa 22 000 cittadini russi. L’impatto elettorale è numericamente irrilevante, e stando ai dati del voto del 2018 ci si può aspettare un sostegno granitico a Putin da parte dei russi di Transistria8. Ciò che è rilevante è di nuovo la tensione irrisolta che la questione elettorale ha riacceso a due anni dall’invasione; la risposta moldava a Mosca – l’unica possibile – ha palesato l’insostenibilità dello status quo e ha dato al Cremlino una sponda per aumentare il livello di tensione.
La diplomazia elettorale è parte integrante del sistema di relazioni internazionali di un Paese, ed ha una rilevanza anche quando il processo di voto non equivale ad un esercizio democratico, come nel caso delle elezioni in Russia. Se non altro, mette allo scoperto alcuni aspetti legati al riconoscimento politico e alla legittimazione di tale processo elettorale, soprattutto in un contesto di massima tensione in cui ogni sfumatura rischia di diventare una scelta di campo. Ad oggi, questo riconoscimento è del tutto assente nel mondo Euroatlantico, mentre i Balcani e l’Europa Orientale, da sempre due arene di confronto tra Russia e Occidente, mostrano due posture diverse, accondiscente da una parte e più ferma nel caso della Moldova.
Riferimenti
- https://www.rferl.org/a/moldova-russia-election-putin-transdniester-pushback/32813386.html
- https://www.themoscowtimes.com/2024/01/31/eyeing-anti-kremlin-exiles-russia-tightens-rules-on-voting-abroad-a83887
- https://www.slobodnaevropa.org/a/milorad-dodik-vladimir-putin-tatarstan-kazanj-lukasenko/32827893.html
- https://balkaninsight.com/2024/01/26/russian-activists-in-serbia-defy-fear-to-campaign-for-putin-rival/
- https://mid.ru/en/foreign_policy/news/1932121/
- https://www.rferl.org/a/bosnia-russians-voting-presidential-election-putin/32819913.html
- https://news.un.org/ru/story/2021/01/1394392
- https://www.bbc.com/russian/features-65686712