I primi giorni del quinto mandato di Putin appaiono già tra i più turbolenti della recente storia russa, tra gli attentati di Mosca e le rinnovate tensioni con la Nato. A prescindere dalle sorti dell’Ucraina, il punto di non ritorno nei rapporti con l’Occidente è sempre più vicino.
Non sappiamo se vi sia in qualche modo un nesso, e di certo non possiamo indulgere all’idea che vi sia un principio di causalità tra la rielezione di Vladimir Putin e l’attentato al Crocus City Hall di Mosca, costato la vita, finora, a 139 persone. Sta di fatto però che la quinta riconferma al potere del presidente russo è stata da subito contrassegnata dalla violenza, nonché da un’escalation di tensioni – l’ennesima – che riaccende lo scontro in atto con l’Occidente.
Dal punto di vista del Cremlino, le elezioni del 15-17 marzo sono state un pieno successo. Con l’avanzare del voto elettronico e del conseguente maggior controllo sulle preferenze dei cittadini, la già annunciata e scontata riconferma di Putin si è trasformata in un plebiscito persino inedito nelle sue proporzioni. L’87% dei voti a favore del presidente uscente cambia il senso stesso del rito elettorale, non più un termometro – per quanto controllato – dei consensi reali ma una funzione dello Stato rivolta essenzialmente al suo mantenimento. Come se il voto rientrasse tra le armi difensive della Federazione, a pari merito con quelle già usate in Ucraina e le tantissime ancora ferme negli arsenali.
Ed ecco dunque che il già alto consenso popolare per Putin, mai davvero a rischio nonostante la guerra – anzi, in parte proprio grazie ad essa – non basta comunque a coprire le esigenze strutturali e d’immagine di un sistema alla perenne rincorsa di una maggiore stabilità. Si spiegano così i brogli, ovvero i milioni di voti probabilmente aggiunti alla già generosa conta dei consensi reali verso il presidente – meccanismo che in Occidente fatichiamo a comprendere. Voglia di strafare, certo, ma anche ras locali in cerca di visibilità e approvazione dall’alto, incoraggiati dalla macchina dell’Amministrazione presidenziale di Kirienko che non sembra essersi preoccupata di eccedere nei risultati. E questo nonostante certi aiutini elargiti ai formali oppositori (specie Kharitonov e Slutskij) tramite l’offerta di alcuni consulenti per la campagna elettorale.
L’ordine con cui si è consumato il rito del voto, nonostante i timidi tentativi di protesta dei sostenitori di Naval’nyj e di pochi altri, stride fortemente con quanto successo nei giorni immediatamente successivi. Almeno in apparenza. In realtà, la Russia non è nuova al contrasto tra la sua dimensione interna e quella esterna, ovvero tra il controllo ferreo e tutto sommato funzionante del proprio spazio socio-politico e l’alterazione degli equilibri geopolitici con gli altri Paesi. Anzi, il primo è spesso conseguenza della seconda. Eppure l’escalation di questi giorni supera persino queste regole. Innanzitutto perché il terrorismo – e in altro modo non può essere definito ciò che ha colpito Mosca il 22 marzo – è per sua natura un fenomeno che trascende la semplice dimensione interna di uno Stato, specie quando quest’ultimo si chiama Russia.
Gli attacchi al Crocus sono poi stati subito ricondotti, in forma diretta o indiretta, alla guerra d’Ucraina. Le prove a sostegno della tesi di un coinvolgimento di Kiev sono ancora deboli – la fuga dei terroristi verso un confine ultramilitarizzato non appare verosimile, ed è stata messa in discussione pure dall’alleato Lukashenko – ma è chiaro che la Russia, pur affetta da sindrome d’accerchiamento, vuole affrontare un solo nemico alla volta. Almeno nella retorica. E deve dunque ridimensionare la pista del fondamentalismo islamico – avvalorata dalla rivendicazione dell’ISIS – limitandosi a riconoscerlo come un elemento di contorno, quasi di folklore e relativo solo agli esecutori dell’attentato, per bocca del capo dell’FSB Bortnikov e dello stesso Putin. Scelta che a qualcuno potrebbe apparire singolare, visto l’impegno profuso da Mosca nel combattere lo Stato Islamico in Siria – anzi, un fiore all’occhiello della sua presenza in Medio Oriente – ma c’è sempre da considerare l’incognita interna, ovvero il timore che si possa aprire una faglia domestica coi suoi (tanti) cittadini di fede islamica. Assolutamente inopportuna, se non letale, nel momento in cui molti di essi combattono (e muoiono) in Ucraina, e molti altri sono accorsi nelle metropoli russe per svolgere lavori di cui l’attuale mercato interno fa tanta richiesta. Per il Cremlino dunque puntare il dito contro l’Ucraina è quasi una scelta obbligata, e questo – va detto – a prescindere dalla fondatezza del relativo campo d’indagine, che a priori ovviamente non può essere escluso.
Il risultato però è che non vi è alcuna tregua nello scontro con l’Occidente. Né si è intravisto, nelle pur numerose manifestazioni di cordoglio giunte all’indomani del 22 marzo, alcuno spiraglio per un dialogo concreto con la Russia – a partire dalla scelta delle cancellerie occidentali di non nominarne in tale circostanza lo Stato, ma solo i suoi cittadini vittime. D’altra parte, l’escalation ormai continua si arricchisce ogni giorno di nuovi e inquietanti capitoli. Dalle misure europee di preparazione alla guerra – sia in ambito NATO, con le esercitazioni Steadfast Defender 2024, sia nel dibattito strisciante sul servizio militare obbligatorio dei singoli Paesi e sul possibile invio di contingenti a Kiev, promosso finora quasi solo da Macron – alle contrapposte manovre russe. Fra tutte, l’intensificarsi dei raid sull’Ucraina tutta e le dichiarazioni putiniane sugli F-16 occidentali, individuabili come target “ovunque” in caso di loro impiego bellico.
A poco vale l’ottimismo di chi aveva già intravisto una guerra agli sgoccioli. Se è vero che l’Ucraina non potrà resistere per sempre, né tantomeno contrattaccare con successo – mancando gli aiuti occidentali di un piano condiviso di lungo termine – è altrettanto vero che neanche una sua immediata resa permetterebbe il ripristino di un modus vivendi accettabile tra la Russia e il resto d’Europa, incancrenite da un confronto non soltanto territoriale.
Chi qui scrive non ha mai creduto alla personificazione della storia, ritenendola al più un espediente retorico volto a non riconoscerne le reali forze (umane) trainanti. Resta naturalmente dello stesso avviso. Eppure non può non notare come in certi contesti la storia sembra accelerare il passo, fino a sopravanzare le volontà dei suoi decisori. Limitandone quasi i poteri. La speranza è di non essere ancora in uno di quei momenti. Ma la triste certezza è che non ci si è mai stati così vicini, almeno dalla fine della Guerra fredda.