La presenza di truppe nordcoreane nell’oblast di Kursk ha segnato un’escalation non indifferente. In tutta risposta, la Casa Bianca ha acconsentito all’utilizzo dei missili ATACMS sul territorio russo.
L’oblast di Kursk, parzialmente occupato dalle forze ucraine dall’agosto scorso, è sotto i riflettori internazionali. Le motivazioni sono sostanzialmente due: in primo luogo perché nella regione si trovano, da qualche settimana, delle truppe nordcoreane; in secondo luogo, perché gli Stati Uniti hanno acconsentito all’utilizzo di missili a lungo raggio nel territorio russo, sebbene limitatamente al suddetto oblast.
Innanzitutto qualche considerazione sul primo punto, ovvero la presenza di soldati nordcoreani in Russia. La notizia – diffusa a metà ottobre dai servizi segreti sudcoreani, poi confermata dagli Stati Uniti e dal governo ucraino – riporta l’invio da parte di Pyongyang di circa 12000 soldati (compresi 500 ufficiali e tre generali) sul territorio russo, aventi come obiettivo la partecipazione allo sforzo bellico di Mosca contro l’Ucraina.
Durante un conflitto, l’afflusso di soldati provenienti da un altro Paese rappresenta quasi sempre un campanello d’allarme, in quanto indice di un allargamento della guerra. Se il Paese che invia i propri soldati è la Corea del Nord, l’allarme viene percepito da più parti. L’Ucraina, prima interessata, ha immediatamente parlato di pericolosa escalation, esortando l’Occidente a intervenire; la Corea del Sud, ancora tecnicamente in guerra con il suo vicino settentrionale, ha avvertito che potrebbe inviare direttamente armi in Ucraina se i soldati di Pyongyang non verranno ritirati; gli Stati Uniti, infine, hanno allentato i vincoli all’utilizzo delle loro armi nel conflitto.
Per quanto riguarda la Russia e la Corea del Nord, non hanno rilasciato particolari dichiarazioni circa questa mossa, anche perché il loro avvicinamento – soprattutto in ambito militare – è noto da anni. Già nel settembre 2022, infatti, l’intelligence statunitense aveva segnalato una particolare intensificazione dei rapporti fra i due Paesi, con l’acquisto, da parte della Russia, di milioni di razzi e proiettili d’artiglieria nordcoreani. Da allora, alla compravendita di armi si sono affiancate anche visite ufficiali fra Kim Jong-Un e Putin, nonché fra politici di alto livello dei rispettivi Paesi. Infine, pietra angolare del sempre più stretto allineamento fra Mosca e Pyongyang è stata la recente ratifica di un accordo di partenariato strategico. Un trattato di mutua difesa che, all’articolo 4, obbliga i due Paesi a fornirsi, a vicenda, assistenza militare nel caso in cui uno dei due si trovi ad affrontare “un’aggressione”. Questa assistenza militare, finora espressa solo dalle armi e dalle munizioni fornite da Pyongyang all’esercito russo, vede adesso anche la partecipazione di soldati nordcoreani nel conflitto russo-ucraino.
Vladimir Putin e Kim Jong-un a Vostočnyj, Russia, il 18 settembre 2023. Fonte: Michael Metzel, Kremlin / Reuters / Contrasto
La prima domanda che sorge in merito al dispiegamento di questi soldati è circa il loro effettivo impatto sulle sorti della guerra. Nonostante i numeri, la “qualità” delle truppe di Pyongyang lascia a desiderare: la maggior parte dei militari sono denutriti, demotivati e, soprattutto, impreparati. L’ultima esperienza di combattimento convenzionale su larga scala dell’Esercito Popolare Coreano, del resto, risale alla fine della guerra di Corea (1953); da allora, sebbene Pyongyang abbia inviato alcuni piccoli gruppi di consulenti e specialisti in conflitti stranieri (ad esempio, la guerra dello Yom Kippur) per osservare e acquisire determinate competenze tecniche, i soldati non hanno avuto modo di fare alcuna esperienza sul campo. Ecco, quindi, ciò che guadagna Pyongyang con questa operazione: una preziosa opportunità per svecchiare la propria dottrina militare, confrontandosi con armi moderne – come quelle impiegate nella guerra elettronica – e maturare esperienza di comando e controllo. Il tutto, beninteso, con un notevole ritorno economico: i soldati nordcoreani, secondo Business Insider, riceverebbero fino a 2000 dollari al mese.
E Mosca, invece, cosa ci guadagna? Di base, un’importante “iniezione” di forze. La scelta dell’oblast di Kursk per il dispiegamento dei soldati nordcoreani, infatti, non è stata casuale: rispondeva a esigenze ben precise, almeno fino a pochi giorni fa. Da un lato, infatti, questa regione – la cui piena riconquista è, per Mosca, priorità assoluta – da fine agosto ha visto l’arrivo di circa 50.000 soldati russi provenienti da altre zone del fronte, lasciate sguarnite al fine di dare la precedenza alla difesa di Kursk. L’entrata in campo delle forze nordcoreane quindi non solo permette la riassegnazione di molti soldati russi ai fronti lasciati scoperti, ma allevia anche lo sforzo delle truppe in loco, che, sfiancate da mesi di offensiva, hanno subito perdite consistenti (stimate in circa 80.000 soldati).
Dall’altro lato, il dispiegamento dei soldati nordcoreani in questa specifica regione sarebbe vantaggioso anche per le truppe di Pyongyang. L’oblast di Kursk, rispetto ad altre aree – come il Donbass, ad esempio – fino a pochi giorni fa era considerato relativamente meno esposto a pesanti bombardamenti e intensi combattimenti: ciò avrebbe minimizzato i rischi per i soldati nordcoreani, che si sarebbero trovati in una zona non solo più “tranquilla”, ma anche dotata di infrastrutture logistiche; insomma, un’area protetta, su territorio russo e “a difesa” della Russia.
“Difesa”, in questo contesto, è un termine fondamentale: nel Kursk, infatti, pare che ai militari nordcoreani sia stato assegnato un ruolo prevalentemente difensivo, essendo impiegati nella costruzione di fortificazioni oppure nella protezione delle infrastrutture strategiche. Ciò avrebbe consentito alle truppe russe – e in particolare alle unità più esperte e addestrate – di dedicarsi alle operazioni controffensive. Del resto, come sostiene uno degli ultimi report dell’Institute for the Study of War (ISW), è improbabile che i soldati nordcoreani vengano schierati direttamente in Ucraina fino a quando il Cremlino non riterrà di aver risposto adeguatamente all’incursione di Kursk, sia per l’attuale priorità che il governo russo sta assegnando alla riconquista del territorio, sia perché mantenere le truppe nordcoreane sul suolo russo consente a Mosca un maggiore controllo sugli effetti “informativi” del loro utilizzo. Prima di partecipare attivamente al conflitto, inoltre, i nordcoreani dovrebbero imparare ad usare i modelli d’arma russi. Un’impresa non da poco: sebbene le armi di entrambi i Paesi siano di origine sovietica, sussiste un grosso problema di comunicazione fra i due eserciti, a causa della mancanza di interpreti russi e nordcoreani (una questione che potrebbe rivelarsi particolarmente sfidante soprattutto per quanto riguarda il comando e controllo).
Ad ogni modo, per quanto Mosca abbia scelto di mantenere le truppe nordcoreane sul territorio russo – in un tentativo, forse, di “circoscrivere” l’impatto della notizia del loro coinvolgimento – la risposta dell’Occidente è infine arrivata. In principio, si trattava solo di una voce. Il 17 novembre, un’agenzia statunitense aveva fatto circolare una notizia che riportava che, secondo una fonte vicina al governo statunitense, l’amministrazione Biden avrebbe acconsentito all’utilizzo di missili ATACMS sul territorio russo, ma limitatamente all’oblast di Kursk: l’obiettivo, infatti, era colpire l’area in cui sono presenti le truppe nordcoreane, per scoraggiare Pyongyang dall’inviarne ulteriori. La notizia, arrivata in Russia, ha scatenato le ire del Cremlino, che il 18 novembre ha avvertito che una simile decisione sarebbe stata percepita come un’escalation: in caso di attacco, hanno fatto sapere alcuni funzionari russi, la risposta di Mosca avrebbe potuto implicare il ricorso a non meglio specificati “nuovi” sistemi d’arma. Ad aggiungersi a queste dichiarazioni, un’altra non troppo velata minaccia: la decisione statunitense avrebbe delineato la nuova dottrina nucleare russa.
Se, in un primo momento, la notizia non è stata confermata né dal governo americano né da quello ucraino, la situazione è cambiata radicalmente nella notte fra il 18 e il 19 novembre: passando dalle parole ai fatti, gli Stati Uniti hanno evidentemente dato luce verde a Kiev, che non ha esitato a sferrare un attacco con sei missili balistici ATACMS contro un arsenale nella città di Karachev, nell’oblast di Bryansk. Secondo quanto riportato dal Ministero della Difesa russo, grazie ai sistemi di difesa aerea S-400 e Pantsir cinque di questi missili sarebbero stati abbattuti, mentre uno sarebbe stato danneggiato. I detriti hanno comunque colpito la struttura, innescando un incendio che è stato domato rapidamente e non ha causato vittime o danni.
Il lancio di un missile ATACMS. Fonte: The Times
Anche se l’attacco non è stato condotto nell’oblast di Kursk e non ha riguardato le truppe di Pyongyang, l’utilizzo degli ATACMS segna effettivamente un’escalation, ma non sul piano militare. I missili in questione – così come i Taurus o gli SCALP-Storm Shadow – non rappresentano un vero e proprio game changer: in una guerra d’attrito, infatti, il successo di una campagna non si basa esclusivamente sull’utilizzo di una specifica arma, ma anche su numerosi altri fattori, come la capacità di adattamento del nemico – una capacità che Mosca ha più volte dimostrato di saper padroneggiare.
L’escalation che si è manifestata negli ultimi giorni è, di fatto, politica: sbloccando una nuova serie di opzioni per colpire in profondità il territorio russo, gli Stati Uniti possono aiutare Kiev a conquistare Kursk, e ciò potrebbe cambiare le carte in tavola in vista dell’inserimento di Trump alla Casa Bianca. Putin, nel frattempo, ha firmato il decreto che aggiorna la dottrina nucleare russa, volto ad abbassare l’asticella di impiego dell’arma atomica. Sebbene il messaggio sia di pura deterrenza, ciò che è più probabile è che Mosca risponda con un’escalation “orizzontale”, ricorrendo a mezzi diversi dallo strumento nucleare: secondo alcuni analisti, la Russia potrebbe danneggiare l’Ucraina in modo trasversale – attaccando, come già accaduto, la rete energetica del Paese – e potrebbe anche fornire numerose armi ai nemici della NATO e degli USA (come, ad esempio, agli Houthi).
La situazione, comunque, è in continuo mutamento. Pyongyang, nel frattempo, non pare affatto intenzionata a ritirare le sue truppe dall’oblast di Kursk, anzi: secondo alcuni fonti dell’agenzia Bloomberg, il numero di soldati nordcoreani inviati in Russia potrebbe aumentare fino a centomila.
Isabella Chiara