La Russia appartiene senza dubbio al campo degli sconfitti, nell’epilogo del regime siriano. Ma non bisogna soffermarsi troppo sulla portata militare degli eventi, che semplicemente non c’è stata. La rapidità con cui si è sgretolato il fronte lealista suggerisce l’esistenza di un accordo preesistente tra Mosca e gli altri attori regionali – Israele e Turchia in primis – non necessariamente con la partecipazione dell’Iran. Ai russi interessa(va) Tartus, non il baathismo.
Sono passati appena undici giorni dall’inizio dell’offensiva dei ribelli guidati da Hayat Tahrir al-Sham (HTS), partita da Idlib e dalle regioni più remote della Siria, e Damasco è già caduta. L’incredibile sviluppo degli eventi ha sorpreso tutti, anche gli esperti più navigati dell’area. Dopo quasi 14 anni di guerra civile, di cui almeno l’ultima metà condotta a bassa intensità, il regime è crollato come un castello di carte.
La prima cosa che sconcerta è proprio l’assoluta inconsistenza militare del regime di Bashar al-Assad e dei suoi alleati, capaci di perdere in pochi giorni tutte le porzioni di Siria faticosamente conquistate in anni di dura e sanguinosa guerra civile – si pensi solo al lungo assedio di Aleppo. Non solo, ma anche quelle aree – come i governatorati costieri di Tartus e Latakia, oltre alla stessa capitale Damasco – che non erano mai finite sotto il controllo delle forze anti-governative.
A ben vedere tuttavia, è proprio la rapidità dello sgretolamento del fronte lealista a suggerire una diversa interpretazione degli eventi. L’avanzata delle forze ribelli non ha quasi incontrato resistenza, se si eccettuano alcune incursioni aeree russe – probabilmente compiute in forma poco più che simbolica. Ed è pur vero che l’esercito regolare siriano era ben lontano dall’efficienza e dagli effettivi dei primi anni di guerra, così come la Russia aveva ridimensionato il suo impegno – già limitato quasi solo all’air power – in favore delle più impellenti necessità in Ucraina. Per tacere di Hezbollah, costretta a ottobre a ritirare dal campo i suoi uomini per fronteggiare l’invasione di terra israeliana in Libano.
Ma tutto ciò non basta comunque a spiegare la celerità di una simile disfatta. Insomma, non è la chiave di lettura militare a restituirci un quadro realistico degli eventi siriani. Una simile evoluzione non può non essere stata preparata, oltre che da un accurato lavoro d’intelligence, da sotterranei accordi tra le potenze. Al momento in cui si scrive ben poco risulta intelligibile. Proviamo comunque a fare chiarezza, partendo da ciò che ci interessa di più in questa sede: la Russia.
Com’è noto a tutti, Mosca ha avuto un ruolo assolutamente centrale nella momentanea salvezza del regime siriano. Già prima del suo intervento sul campo si era adoperata per impedirne la caduta, attraverso i veti in sede ONU (a partire dal 2011) e poi con la mediazione diplomatica in seno al G20, che escluse la possibilità di un intervento occidentale e dunque di una possibile replica del modello libico. L’intervento del 2015 è stato tuttavia la chiave di volta della guerra civile siriana, così come dell’influenza russa in Medio Oriente. Il successo delle offensive aeree contro i ribelli stabilizzò in breve tempo la situazione sul campo, chiudendo nei fatti il primo capitolo del conflitto – che mantenne attive le sue braci in aree sempre più periferiche del Paese, le stesse da cui oggi è partita la riscossa fatale dei ribelli.
A motivare il costoso intervento russo, a dispetto di certe narrazioni propagandistiche, non era l’amicizia pluridecennale con la famiglia Assad, e nemmeno in ultima analisi l’urgenza di combattere lo Stato Islamico. Era bensì la tutela di una posizione di rendita nel Mediterraneo, il cui peso specifico stava crescendo di pari passo con l’acuirsi della crisi in Ucraina e con le rinnovate ambizioni imperiali dello Stato russo. La base navale di Tartus, in particolare, era l’unico reale punto d’appoggio dei russi nel mare nostrum, dettaglio non da poco in un momento in cui le tensioni con l’Occidente stavano cominciando a mostrare la loro gravità. Alla metà degli anni Dieci si era aperta una finestra irripetibile, e Putin decise di sfruttarla subito: intervenendo in Siria, la Russia avrebbe potuto centrare simultaneamente una serie di obiettivi, tra i quali la riconquista di un ruolo regionale (a spese di un Occidente ancora indeciso sul che fare con Assad), l’aggiornamento delle pratiche belliche e persino il riconoscimento simbolico di un contributo alla lotta contro il terrorismo islamico. Oltre naturalmente a quello primario del mantenimento delle proprie basi (Tartus e poi Hmeimim) di cui sopra. Scommesse temporaneamente vinte, anche se Mosca non ha potuto fare a meno di scendere a patti con gli altri due grandi attori interessati alla Siria, la Turchia e l’Iran, inaugurando a partire dalla fine del 2016 il cosiddetto formato di Astana.
La storia fin qui raccontata non è fine a sé stessa o a una mera ricostruzione cronologica degli eventi. Le ragioni che hanno portato Putin a intervenire in Siria sono le stesse per cui oggi ha scaricato Assad. Ovvero il mantenimento della propria influenza nel Mediterraneo orientale. Con ogni evidenza, queste garanzie non potevano più essere fornite dal regime baathista. Privo di un consistente supporto esterno, ma anche di una legittimazione interna che non si è mai impegnato realmente a ricostruire, il potere di Assad rappresentava ormai soltanto sé stesso. Una bandiera simbolica sventolata più dai suoi sporadici fan all’estero che dai suoi reali sostenitori in patria.
Mosca deve averne preso atto da tempo. Del resto non sono mai mancati gli avvertimenti al regime, sia prima che dopo l’intervento del 2015. Ignorati dai nostri media, che già a fatica riuscivano a seguire il complesso guazzabuglio mediorientale e non avevano certo bisogno di nuovi elementi di complessità. Non ostentati nemmeno dalla Russia, che ovviamente non aveva alcun interesse a esibire le crepe bilaterali. E probabilmente neanche recepiti dallo stesso Assad, che ha continuato per la sua strada forse convinto dell’ineluttabilità del proprio ruolo, o dell’eternità degli appoggi esterni.
A meno di credere alla bizzarra ipotesi di una Russia in definitiva ritirata, pronta a cedere le sue basi senza vender cara la pelle, la desistenza mostrata in questi giorni può avere un solo significato: l’esistenza di un patto che salvi la presenza russa nel Mediterraneo in cambio della testa di Assad. Senza spargimenti di sangue, non utili a nessuno. Peraltro interessante contraltare di una speculare trattativa (questa fallita) intavolata da Stati Uniti e Paesi del Golfo negli scorsi mesi, volta ad allentare le sanzioni in cambio di una rottura tra Damasco e i suoi protettori (l’Iran e forse anche la Russia).
Ovviamente la prima è ancora una speculazione, non abbiamo ad oggi le prove di un simile accordo. Possiamo comunque vederne i contorni (l’assenza di ostilità da parte dei ribelli verso i russi) e immaginarne i contraenti – con ogni probabilità Israele e Turchia. Un simile scenario sarebbe sicuramente una mezza sconfitta per la Russia, nonché una certa umiliazione dopo oltre un decennio speso nel sostenere pubblicamente la traballante immagine del clan Assad. Permetterebbe però a Putin di salvare capre e cavoli senza troppo impegnarsi in un fronte sul quale ha già speso più di quanto ha ricevuto.
Per il momento Mosca tace, e stavolta non certo perché distratta da altri eventi. A differenza di Assad, che è riuscito ad abbandonare Damasco senza nemmeno lasciare un commiato, Putin non potrà fingere a lungo di disinteressarsi alla questione, delegando ai suoi sottoposti qualche dichiarazione di circostanza sulla stabilità della Siria e la volontà popolare dei suoi cittadini. La Siria è entrata prepotentemente nella storia russa e non ne uscirà così facilmente.