Nell’Artico religione e politica si fondono per rafforzare la sovranità russa. La Chiesa ortodossa, vero e proprio partner del Cremlino, gioca un ruolo cruciale nel legittimare l’espansione russa in questa regione.
Il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 – “la più grave catastrofe geopolitica del ventesimo secolo”, secondo Vladimir Putin – ha segnato non solo la fine di un modello politico ed economico, ma anche il collasso di un sistema ideologico che per oltre ottant’anni aveva definito l’identità delle quindici repubbliche sovietiche e dei loro cittadini. Strutturalmente ostile nei confronti della religione, il comunismo sovietico aveva sostituito la quasi millenaria tradizione ortodossa quale unico fondamento spirituale e morale del Paese. Come è facile immaginare, quindi, con la fine dell’URSS si è aperto un vuoto ideologico profondo. La Chiesa ortodossa russa è gradualmente riemersa come uno degli strumenti per riempire quel vuoto.
Il ritorno della religione in Russia, processo accelerato dal governo di Vladimir Putin, non si è limitato alla sfera privata o simbolica. Ha progressivamente assunto una dimensione politica e culturale, spesso accompagnata da quella militare, che ha saputo raggiungere anche l’Artico. Per secoli, questa vasta distesa di ghiaccio e tundra ha incarnato nell’immaginario russo l’idea di frontiera estrema e sfida alla natura e ha rappresentato, inoltre, una terra ricca di opportunità e un formidabile baluardo difensivo.
In quanto parte dell’immaginario russo, l’Artico è stato integrato nella narrazione di una Russia “sacra”, cioè di una nazione guidata da valori spirituali distinti rispetto a quelli del cosiddetto “Occidente”, percepito come decadente dall’ala più conservatrice della società, della politica e della Chiesa russe. In un’area lungamente contesa come quella dell’Artico, la religione ortodossa potrebbe non solo rafforzare la coesione interna, ma anche aiutare a proiettare un’immagine di potenza morale al di fuori dei confini della Federazione.
L’Artico è la Russia
L’intreccio tra fede e politica sembra essere particolarmente evidente nell’Artico, una regione che non è solo uno “spazio fisico”, ma anche un simbolo culturale e identitario di importanza fondamentale per la Russia. Sin dal periodo medievale, infatti, l’Artico è stato la fonte inesauribile di quelle preziose risorse che hanno permesso alla potenza russa di nascere, affermarsi e crescere. Durante l’epoca sovietica ha rappresentato un tassello importante del progresso scientifico e industriale e si è trasformato in teatro di sofferenza a causa delle atrocità commesse nei gulag presenti sul suo territorio.
Oggi l’Artico non è solo il terreno di un’ambizione nazionale legata a risorse naturali e rotte marittime strategiche, ma anche uno spazio in cui la Chiesa ortodossa russa può riaffermare la propria influenza. La sua presenza nell’Artico è tangibile attraverso iniziative pratiche e gesti simbolici che, pur avendo un impatto limitato, contribuiscono a consolidare una narrativa di sacralità nazionale che riveste l’Artico di un ruolo centrale sia nella politica estera russa che nella visione che la Russia ha del mondo.
La Chiesa ortodossa russa nell’Artico
Il “patriarca dell’Artico” o il “vescovo del ghiaccio”, al secolo Evgenij Tislenkoma, ai più noto con il nome di Iakov (“Giacobbe” in italiano), è una figura chiave nella strategia della Chiesa ortodossa russa nella regione. La sua attività, formalmente solo pastorale, si intreccia, tuttavia, con obiettivi politici e militari. Nominato per sovrintendere alle diocesi artiche, Iakov non si limita, infatti, a celebrare messa. La sua azione riguarda anche iniziative simboliche, come l’erezione di grandi croci lignee in luoghi estremi, che possono essere interpretate come segni visibili della vittoria di Cristo – e, quindi, della Russia, campione dell’ortodossia – sulla natura.
Nel caso della croce eretta nell’agosto del 2023 a Piramida, insediamento russo quasi abbandonato delle Isole Svalbard, si è trattato di un gesto chiaramente politico. La croce, ornata con il nastro di San Giorgio, simbolo della vittoria nella Seconda guerra mondiale e oggi associato al nazionalismo russo, è stata collocata senza il consenso delle autorità della Norvegia, formalmente sovrana sull’arcipelago, provocando critiche e reazioni diplomatiche. Questo evento si inserisce in una serie più ampia di azioni simili: un mese dopo, Iakov ha fatto costruire un’altra croce nella Terra di Francesco Giuseppe, arcipelago russo nell’Artico. Questa volta, il tutto si è svolto con la partecipazione di delegazioni militari e accademiche russe. Il messaggio pare chiaro: la Chiesa ortodossa russa non è soltanto un’entità spirituale, ma un vero e proprio partner del Cremlino nella sua politica artica. Allo stesso modo, questi monumenti, eretti in luoghi strategici, non sono semplici simboli religiosi. La loro funzione, infatti, è duplice: rafforzare il senso di appartenenza culturale e spirituale e mostrare al mondo la presenza russa in queste terre in maniera tangibile e difficilmente ignorabile.
In particolare, le Svalbard rappresentano un’area estremamente delicata, regolamentata dal trattato omonimo del 1920. Sebbene la Russia vi mantenga diritti economici, ogni gesto unilaterale può essere interpretato come un atto di rivendicazione. La presenza della Chiesa serve, dunque, a rivestire queste operazioni di una sorta di legittimità morale e a sostenere l’idea che l’Artico appartenga a una“grande civiltà russa”.
Un’altra operazione di natura simbolica che vale la pena citare è la costruzione della chiesa dedicata a San Serafino di Sarov nell’Arcipelago di Novaja Zemlja (famoso soprattutto per i test nucleari che vi furono effettuati nel corso del periodo sovietico). Questo edificio sacro, infatti, lega la religione alla storia militare dell’Artico, dal momento che San Serafino è stato scelto come patrono del dodicesimo Direttorato principale del Ministero della Difesa russo, quello responsabile del coordinamento degli scienziati e dei militari che operano nel campo delle armi nucleari. La scelta del santo non è stata ovviamente casuale e va a rafforzare l’idea di un’armonia tra fede e forza militare (nucleare in particolare) e tra tradizione spirituale e modernità tecnologica. I legami tra Chiesa e forze armate, anche se in misura minore rispetto a quanto discusso fino a ora, si manifestano anche nella benedizione rituale di navi e sottomarini progettati per operare nell’Artico.
Crocevia tra fede e politica
La presenza della Chiesa ortodossa russa nell’Artico rivela una precisa strategia politica in cui elementi culturali e simbolici si intrecciano in maniera profonda. Come gli episodi precedenti mostrano piuttosto chiaramente, è in atto un tentativo di costruire una narrativa di legittimità culturale e spirituale per giustificare la presenza russa in un’area strategicamente cruciale: la Chiesa ortodossa non si limita a consolidare l’identità nazionale in patria, ma contribuisce a proiettare all’estero un’immagine di coesione culturale che rafforza le ambizioni territoriali della Russia. L’intensificarsi delle attività religiose in queste zone, inoltre, coincide con una militarizzazione crescente. La religione viene utilizzata per legittimare la forza militare come parte di una missione più ampia di difesa e protezione dei valori nazionali.
L’Artico russo è oggi il riflesso di un progetto nazionale che ambisce a consolidare l’identità russa, intrecciando passato, presente e futuro in un’unica narrazione. Attraverso la Chiesa ortodossa russa, il Cremlino non si limita ad affermare o riaffermare la propria sovranità su queste terre, ma sembra voler costruire una nuova dimensione di legittimità: quella di una potenza radicata culturalmente, nonché spiritualmente, nell’Artico, nonché investita di una missione quasi divina. Quindi politicamente giustificata a operarvi. Nel freddo silenzio polare, ogni croce, ogni preghiera, ogni benedizione cela qualcosa di più profondo, un messaggio che la Russia intende incidere nel ghiaccio.
Tommaso Bontempi