Con la sua flotta ombra, Mosca riesce ad aggirare le sanzioni sul proprio petrolio, ma anche a portare a termine alcune azioni di sabotaggio verso i cavi sottomarini occidentali.
Il 25 dicembre 2024, nel Mar Baltico è avvenuto un incidente: la petroliera Eagle S, battente bandiera delle Isole Cook, ha danneggiato il cavo sottomarino Estlink-2, responsabile del trasporto di elettricità tra Finlandia ed Estonia. Sebbene i cavi subacquei vengano spesso danneggiati in maniera accidentale da ancoraggi maldestri, da attività di pesca o altro, il caso dell’Eagle S ha destato alcuni sospetti presso le autorità finlandesi: non solo perché la petroliera aveva danneggiato il cavo trascinando l’ancora sul fondale – e, dunque, non solo colpendolo accidentalmente, dando fondo – ma anche perché si trattava del secondo incidente nel giro di un paio di mesi[1]. L’ipotesi di sabotaggio si è fatta sempre più plausibile, e, di conseguenza, le autorità finlandesi hanno deciso di sequestrare la nave e condurre qualche indagine per attestarne l’effettiva proprietà. Ciò che è emerso è stato che l’Eagle S era caratterizzata da una strana “impalcatura” burocratica, con cui essa appariva registrata sotto la bandiera delle Isole Cook, gestita da una società con sede negli Emirati Arabi Uniti e amministrata da un’azienda indiana. Incrociando questi indizi con altri dati, le autorità finlandesi sono giunte a una conclusione: la nave farebbe parte della shadow fleet russa.
Innanzitutto: cos’è una shadow fleet?
Secondo il Kyiv School of Economics Institute, una flotta ombra è costituita da navi caratterizzate simultaneamente da due condizioni: la mancanza di un’assicurazione occidentale e l’appartenenza a società di Paesi extra-UE/G7[2]. Questa definizione però non sembra evidenziare particolari criticità: nessuno dei due elementi costituisce, di per sé, un reato. E quindi, il problema qual è?
A spiegarlo è l’IMO (International Maritime Organization), che, in una Risoluzione del 2023, fornisce alcuni dettagli circa l’effettivo impiego di queste navi: esse, di fatto, vengono adoperate in operazioni poco trasparenti o illegali, con lo scopo di aggirare sanzioni, eludere la conformità alle norme di sicurezza o ambientali, evitare i costi assicurativi o perseguire altre finalità. Queste ultime includono, ad esempio, l’intenzionale elusione delle ispezioni di controllo dello Stato di bandiera e dello Stato di approdo, o l’intenzionale adozione di misure per evitare l’individuazione della nave (come lo spegnimento delle trasmissioni AIS o LRIT o l’occultamento dell’identità della nave)[3].
Sebbene l’espressione “shadow fleet” sia un termine-ombrello che copre l’intero ventaglio di opzioni, l’operazione illegale svolta può portare ad una più precisa categorizzazione, che distingue fra “gray fleet” (composta da navi la cui effettiva proprietà e origine viene mistificata, spesso tramite flag hopping, al fine di renderle immuni alle sanzioni) e “dark fleet” (le cui navi perseguono attività ben più oscure, come la disabilitazione intenzionale del sistema di identificazione automatica o pratiche di navigazione ingannevoli)[4].
A prescindere dalla categoria, comunque, una cosa è certa: il ricorso ad una flotta ombra costituisce uno strumento di prim’ordine per operare in una zona grigia[5]. La stratificazione di attori coinvolti nella proprietà delle navi, che rende difficile l’identificazione dell’effettivo Paese mandatario, è, di fatto, la quintessenza della plausible deniability, pilastro fondamentale della zona grigia. Ed è proprio a questo proposito che entra in gioco il caso della shadow fleet russa.

(Lehtikuva/Sipa USA/Reuters pic)
Sebbene Mosca abbia spesso optato per un approccio “muscolare” alla zona grigia, il suo ricorso ad una shadow fleet – cioè ad uno strumento meno “militare” – è diventato significativo in seguito ad un evento specifico, ovvero l’imposizione delle sanzioni economiche occidentali in risposta all’invasione dell’Ucraina. Com’è noto, le sanzioni – elaborate con l’obiettivo di mettere in crisi la capacità di Mosca di finanziare il proprio sforzo bellico – hanno riguardato in particolare il settore energetico russo, che rappresenta il 60% dei proventi delle esportazioni e circa il 40% delle entrate del bilancio. Le misure in questione sono state di due tipologie: da un lato, restrizioni all’acquisto, all’importazione e al trasferimento nell’UE di petrolio russo trasportato via mare; dall’altro lato, un price cap di 60$ al barile sul greggio russo. Con quest’ultima misura, alle società sotto la giurisdizione dei Paesi UE e G7 è stato vietato di fornire servizi di spedizione, intermediazione, assistenza tecnica o assicurazione per facilitare il commercio di greggio russo in tutto il mondo, a meno che esso non avvenga al di sotto del price cap.
Ben lungi dal farsi intimidire – o dal sottostare al price cap – la Russia non solo si è rivolta a nuovi compratori, ma si è data anche ad una non troppo velata forma di contrabbando di petrolio, ricorrendo, appunto, ad una shadow fleet.
La costituzione di questa flotta ha avuto, alla base, un investimento non indifferente. Secondo un report del KSE[6], dal 2022 il governo russo avrebbe speso circa 10 miliardi di dollari destinati a coprire i costi di tre azioni: il trasferimento di petroliere russe a nuove compagnie di gestione; l’acquisto di navi con un’età superiore ai 15 anni da flotte regolari che possedevano l’assicurazione P&I[7]; infine, l’acquisto di navi particolarmente obsolete (con un’età superiore ai 20 anni) sia da flotte regolari che da altre shadow fleet. L’acquisto di navi con una “certa età” non è, ovviamente, casuale: una nave vecchia non solo risulta più difficile da tracciare dalle autorità internazionali, ma è anche più facilmente rottamabile in caso di sanzioni o problemi normativi, riducendo i rischi finanziari e le potenziali sanzioni per gli armatori.
Dunque, come appaiono queste navi, se incrociate lungo una rotta marittima? Di base, come vecchie navi cargo battenti bandiere di Paesi poco inclini – o incapaci – di applicare le sanzioni occidentali: esempi lampanti, in tal senso, sono le Isole Cook, Eswatini, Gabon, Liberia, Isole Marshall e Panama. I vessilli di questi Paesi rappresentano ottime bandiere di comodo per le navi della shadow fleet russa, che, in tal modo, possono apparire come indipendenti da Mosca. A complicare ulteriormente il processo di identificazione di queste navi si aggiungono altri fattori: innanzitutto il flag hopping, che implica un frequente cambio di bandiera (attività che ostacola notevolmente il monitoraggio delle spedizioni di greggio, dato che ogni cambio di bandiera richiede alle agenzie di controllo di ristabilire i collegamenti di tracciamento); in secondo luogo, l’appoggio a complesse strutture di proprietà e gestione, con il coinvolgimento di società di comodo registrate in giurisdizioni con requisiti di trasparenza poco rigorosi.
Anche per l’assicurazione di queste navi Mosca ha trovato una scappatoia: poiché le sanzioni occidentali si estendono anche ai servizi assicurativi forniti dall’International Group of P&I – responsabile della copertura assicurativa di circa il 90% del tonnellaggio marittimo mondiale – le navi della flotta ombra utilizzano assicurazioni di fornitori “oscuri” o offshore che non fanno parte della coalizione del price cap o dei Paesi allineati alle sanzioni. Ça va sans dire, queste assicurazioni non coprono incidenti come le fuoriuscite di petrolio, il che costituisce un grosso problema per la sicurezza marittima e ambientale.
L’occultamento dell’effettiva proprietà e una lassa assicurazione costituiscono, però, solo le sfumature più grigie delle attività perseguite dalla flotta ombra russa; veniamo, ora, a quelle più oscure.
Per contrabbandare il petrolio russo, le navi della shadow fleet praticano, in primis, trasferimenti ship-to-ship (STS), che consistono nel “passaggio” di greggio tra due o più navi cargo in acque internazionali. Sebbene tale pratica sia comune anche per le flotte regolari, nel caso della shadow fleet russa viene perseguita con una finalità ben precisa: nascondere l’origine del petrolio. Operando in acque internazionali, le navi evitano di attraccare nei porti, dove le ispezioni potrebbero rivelare l’origine del greggio o la sua non conformità con il price cap. Durante i trasferimenti STS, inoltre, non è raro che il greggio russo venga miscelato con quello di altri Paesi per nasconderne ulteriormente l’origine.
Altra attività particolarmente gettonata dalla shadow fleet è lo spegnimento dell’AIS (Automatic Identification System), ovvero il sistema di tracciamento delle navi. Disattivando l’AIS – che trasmette informazioni sull’identità, la posizione, la velocità e la destinazione della nave – la flotta ombra russa si rende invisibile ai sistemi di localizzazione satellitare e terrestre. In alternativa allo spegnimento dell’AIS, le navi in questione praticano spesso anche lo spoofing, ovvero la trasmissione deliberata di falsi segnali AIS per nascondere la vera posizione, identità o viaggio dell’imbarcazione.
Grazie a queste tattiche, insomma, la shadow fleet russa – che ad oggi pare conti all’incirca mille navi[8] – sostiene a pieno l’esportazione di greggio a dispetto delle sanzioni occidentali. Eppure, sebbene il suo scopo sia principalmente questo, essa è sempre più circondata da un alone di sospetto circa un’altra tipica attività da grey zone: il sabotaggio delle infrastrutture subacquee. Lo sforzo per convincere un equipaggio a trascinare un’ancora e a danneggiare un cavo sottomarino, del resto, è minimo, mentre i vantaggi che ne derivano sono notevoli. Il sospetto di sabotaggio, una volta instillato, ha importanti implicazioni: sebbene solo alcune navi – come l’Eagle S – abbiano fatto sorgere tale sospetto, il dubbio si allarga, inevitabilmente, alla flotta intera. E questa minaccia implicita – la capacità della Russia di ordinare un sabotaggio diffuso – amplifica l’impatto strategico della flotta.
Isabella Chiara
[1]The Guardian, “Two telecoms cables in Baltic Sea severed, raising suspicions of sabotage”, 18.11.2014, https://www.theguardian.com/world/2024/nov/18/telecoms-cable-in-baltic-sea-may-have-been-severed-says-finnish-owner
[2] Anna Caprile, Gabija Leclerc, “Russia’s ‘shadow fleet’: bringing the threat to light”, European Parliamentary Research Service, November 2024.
[3]IMO, Resolution A. 1192(33), adopted on 6 December 2023.
[4]Windward, “Updated: Illuminating Russia’s shadow fleet”, https://windward.ai/knowledge-base/illuminating-russias-shadow-fleet/
[5]Con “zona grigia” si fa riferimento ad una serie di “azioni che combinano tra loro una vasta gamma di mezzi non violenti per colpire le vulnerabilità della società dell’avversario e minarne il funzionamento, l’unità o la volontà degli obiettivi, degradando e sovvertendo lo status quo senza che vi sia la necessità di ricorrere al combattimento” Cfr. Zampieri, Il “conflitto continuo” nella geopolitica marittima del XXI secolo. Riflessioni ed evidenze sulla “zona grigia”, (Roma:Edizioni Nuova Cultura, 2024), p. 31.
[6] KSE Institute, “Establishing ‘Shadow-Free’ Zones: KSE Institute Unveils Strategy to Rein in Russia’s Shadow Fleet”, https://kse.ua/about-the-school/news/establishing-shadow-free-zones-kse-institute-unveils-strategy-to-rein-in-russia-s-shadow-fleet/
[7] La P&I (Protection&Indemnity) è una soluzione assicurativa che protegge gli operatori marittimi (armatori, spedizionieri, etc.), attraverso associazioni mutualistiche definite clubs. Cfr. Insurance Trade, “Protection & indemnity insurance (P&I)”, https://www.insurancetrade.it/insurance/contenuti/glossario/14344/protection-indemnity-insurance-p-i
[8] Henri Van Soest, “Countering Russia’s ‘Shadow Fleet’”, RAND, 16.01.2025, https://www.rand.org/pubs/commentary/2025/01/countering-russias-shadow-fleet.html