Che cosa ha portato il Cremlino ad immergersi militarmente nel calderone siriano? Dall’interesse nazionale alla convergenza di alcuni fattori chiave, sono numerose le motivazioni dietro all’intervento a fianco del governo di Damasco del 30 settembre 2015.
Il fenomeno delle “Primavere Arabe”, ovvero i numerosi cambi di regime nella regione MENA avvenuti nel 2011, fu visto con un forte senso di apprensione da parte del Cremlino. La destabilizzazione di un’area così vasta poteva difatti essere molto pericolosa per Mosca. In un famoso e controverso articolo pubblicato nel 2013 su VPK, il generale Gerasimov aveva descritto questi eventi come operazioni di regime-change occidentali. Egli li aveva aspramente criticati, in quanto riteneva che le rivolte popolari sponsorizzate dai paesi NATO, e dagli Stati Uniti in particolare, avessero messo in serio pericolo la sicurezza internazionale. Mosca, poi, aveva visto diminuire la propria influenza nella regione, fatto piuttosto frustrante se si considera che, nel 2011, la Russia si era astenuta dall’apporre il proprio veto alla risoluzione 1973 dell’UNSC con lo scopo di instaurare una no-fly-zone sulla Libia al fine di proteggerne la popolazione. Provvedimento che le potenze occidentali avevano poi sfruttato per supportare i ribelli ed esautorare Gheddafi.
Pertanto, sin dall’inizio delle manifestazioni popolari, la Federazione Russa cominciò a prestare particolare attenzione agli avvenimenti in corso a Damasco. Il Cremlino, infatti, vantava storici legami con il regime guidato da Bashar al-Assad. Rapporti che potevano essere fatti risalire all’epoca sovietica. A livello militare, negli anni Settanta l’URSS aveva ottenuto il permesso di stabilire due installazioni belliche sul territorio siriano: una base navale a Tartus, sfruttata principalmente come punto di rifornimento e ristoro per i vascelli, ed una base aerea a Latakia. A loro volta, gli armamenti sovietici erano stati fondamentali per consentire la modernizzazione dell’esercito siriano nel corso degli anni Sessanta e, soprattutto, per permettere a quest’ultimo di equipaggiarsi nuovamente dopo le pesanti sconfitte subite ad opera di Israele nel 1967 e nel 1973. Anche dopo la dissoluzione dell’URSS, le relazioni in ambito militare tra Mosca e Damasco rimasero piuttosto profonde.
Per tali motivi, e per evitare un ulteriore calo della propria influenza nel MENA, il Cremlino decise di supportare fin da subito il regime di Assad. A livello diplomatico, la Russia riuscì ad evitare in ben tre occasioni che l’Occidente intervenisse per esautorare il governo siriano, ricorrendo al proprio diritto di veto in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e bloccando qualunque risoluzione in tal senso. Grazie alla mediazione russa, persino all’interno del piano di pace stabilito a Ginevra nel 2012 non venne fatto alcun riferimento alla possibilità di un cambio di regime. Ma il maggiore sforzo diplomatico operato dal Cremlino avvenne nell’agosto del 2013, quando l’Occidente accusò il regime di Damasco di essere responsabile di un attacco chimico nei confronti della popolazione siriana. All’epoca, la Russia fece enormi pressioni sul governo di Assad perché accettasse di ratificare la Convenzione sulle armi chimiche e aprisse infine le porte dei propri depositi di armi in modo da poter eliminare tale arsenale. Se Damasco si fosse rifiutata di aderire al trattato, il rischio di un’invasione occidentale del Paese, che avrebbe inevitabilmente portato alla capitolazione di Assad, sarebbe stato concreto.
In termini di assistenza militare, Mosca cominciò a rifornire Damasco a partire dal 2012, quando sembrò evidente che l’esercito siriano stesse perdendo terreno rispetto alle opposizioni. Se inizialmente i russi inviarono essenzialmente armi leggere e munizioni, ben presto, per sostenere lo sforzo bellico di Assad, furono costretti a rifornire i siriani con armamenti più avanzati (persino droni ed elicotteri). La regolarità di tali rifornimenti fece sì che si parlasse di “Syrian Express” in riferimento ai convogli navali che facevano la spola tra la Russia ed il Paese mediorientale.
Mosca, poi, supportò il regime anche a livello economico, in particolare tramite la coniazione di banconote siriane che venivano convogliate all’interno della nazione al fine di sostenerne le spese belliche.
Ad ogni modo, è importante notare come il Cremlino non fosse per nulla propenso, in questa fase, ad inviare i propri uomini in aiuto alle forze armate siriane impegnate sul campo, contrariamente a quanto stavano facendo altri Paesi, come ad esempio l’Iran. Del resto, la Russia aveva ottenuto alcuni vantaggi in termini geopolitici già soltanto grazie a queste limitate attività di supporto. In qualità di cassa di risonanza del governo siriano all’interno della comunità internazionale e durante i negoziati, il Cremlino aveva accresciuto il proprio profilo e la propria influenza a livello regionale e globale. Inoltre, è necessario tenere presente il fatto che fino al 2014 l’ISIS non aveva ancora fatto capolino all’interno dello scenario siriano. Infine, durante le prime fasi del conflitto civile, gli strumenti diplomatici possedevano ancora una certa valenza, in quanto i colloqui non avevano del tutto esaurito il loro slancio. A partire dalla primavera del 2015, però, le cose cominciarono a cambiare. La presa di Palmira da parte dei miliziani dello Stato Islamico e la contestuale pressione portata dalle brigate al-Nusra sull’esercito siriano spinsero le alte sfere delle forze armate russe a credere che il regime di Assad sarebbe caduto nel giro di qualche mese, se non di qualche settimana.
La prospettata vittoria delle milizie islamiche avrebbe potuto avere conseguenze disastrose per la sicurezza nazionale della stessa Russia, in quanto, come disse Gerasimov, l’ISIS avrebbe potuto espandersi ulteriormente nei Paesi confinanti con la Siria fino ad arrivare a minacciare direttamente la Federazione. Essa, del resto, vantava una larga minoranza musulmana, evidentemente non immune al richiamo della jihad. Non a caso, migliaia di cittadini russi avevano ingrossato le fila dei combattenti dell’ISIS in qualità di foreign fighters. Una volta tornati in patria, essi avrebbero rappresentato un grosso problema per le autorità di Mosca. Era dunque necessario combattere la minaccia terroristica in Siria, prima che essa potesse allargarsi fino a coinvolgere direttamente la Russia. Stando alle stesse parole di Putin, il Cremlino doveva pertanto sostenere il governo di Assad poiché, qualora fosse stato rovesciato, il vuoto di potere sarebbe stato occupato dai terroristi. I bombardamenti russi delle roccaforti dell’opposizione siriana non collegata con le milizie islamiche devono essere interpretati proprio alla luce della necessità di garantire la sopravvivenza del regime di Damasco.
L’idea che le sollevazioni popolari, che avevano condotto al conflitto civile siriano, fossero sponsorizzate dall’Occidente, ed il parallelo tra le “Primavere Arabe” e le “rivoluzioni colorate” avvenute nello spazio post-sovietico, avevano accresciuto il timore del Cremlino che qualcosa di simile sarebbe potuto accadere anche in Russia. Era dunque opportuno dimostrare che tali operazioni di regime-change di matrice occidentale non avrebbero avuto necessariamente successo, per minarne il valore agli occhi degli strateghi della NATO. Infine, alla vigilia dell’intervento militare russo in Siria, avviato il 30 settembre del 2015, sembrava che gli strumenti diplomatici avessero completamente esaurito la propria rilevanza e non vi fosse più spazio per una soluzione negoziale del conflitto, anche a causa del boicottaggio dei colloqui da parte delle opposizioni sostenute dai governi occidentali.
A fare da contorno a queste considerazioni, valutate come primarie, vi erano altre motivazioni che, pur non essendo di per sé decisive, hanno spinto per un intervento armato della Federazione Russa. A livello geopolitico, la diretta partecipazione della Russia al conflitto siriano avrebbe consentito al Paese di ottenere importanti benefici, in particolare permettendogli di divenire un attore imprescindibile per la risoluzione della controversia. Inoltre, in tal modo, Mosca avrebbe aggiunto una nuova leva di pressione nel proprio rapporto con le potenze occidentali, in un momento in cui le relazioni tra i due blocchi erano fortemente deteriorate. In aggiunta, se il regime di Assad fosse caduto, il Cremlino avrebbe perso quasi completamente la propria influenza sulla regione MENA. Per non parlare poi dei vantaggi garantiti dal mantenimento della base navale di Tartus, senza la quale Mosca avrebbe avuto accesso al Mediterraneo soltanto attraverso il Bosforo. La richiesta d’aiuto formale presentata dalle autorità di Damasco a Vladimir Putin, poi, forniva l’ombrello di legalità necessario a garantire che l’intervento militare rispettasse i criteri stabiliti dal diritto internazionale.
Oltre a fattori prettamente politici o geopolitici, vi erano anche numerose motivazioni strategico-militari a far pendere la bilancia in favore di un intervento armato. Tanto per cominciare, Mosca era riuscita ad ottenere la possibilità di condurre i bombardamenti sfruttando lo spazio aereo iracheno ed iraniano, addirittura potendo lanciare i propri attacchi da basi all’interno del territorio sotto la sovranità di Teheran. In aggiunta, i complessi di Tartus e Latakia, ulteriormente ampliati nel corso del conflitto, rappresentavano già un’importante testa di ponte per le forze provenienti dalla Russia. La Siria, poi, si trovava in una posizione strategicamente favorevole per consentire alla marina russa di supportare le operazioni belliche sia dal Caspio che dal Mediterraneo senza particolari impedimenti. Inoltre, il lungo rapporto intercorrente tra i due Paesi aveva consentito agli alti gradi dell’esercito, grazie anche alla presenza di due basi dell’intelligence russa attive da prima del conflitto, di avere a disposizione informazioni piuttosto dettagliate per agevolare l’attività di pianificazione delle operazioni. Infine, il dislocamento dei mercenari della famigerata Wagner Group avrebbe permesso al Cremlino di non impiegare truppe di terra, riducendo enormemente il numero di vittime delle quali il governo avrebbe dovuto rispondere. Soltanto alcuni uomini delle forze speciali erano stati schierati allo scopo di coordinare le attività delle forze di terra siriane o filo-governative con l’aviazione russa.
Tali fattori, uniti a quelli afferenti alla sfera politica e geopolitica esaminati in precedenza, crearono le basi per l’efficace intervento della Russia nel conflitto civile siriano, al fine di salvaguardare alcuni obiettivi strategicamente rilevanti per il Paese. In particolare, la possibilità di mantenere un certo grado di influenza nella regione mediorientale combinata con l’opportunità di salvaguardare la presenza russa nel Mediterraneo ed allo stesso tempo la necessità di difendere fisicamente il Paese dal fondamentalismo islamico evitando di portare il conflitto entro i propri confini erano questioni di primaria importanza per il Cremlino. Se a questo si aggiunge il costo relativamente basso dell’iniziativa bellica, almeno in termini di vittime militari, è intuitivamente semplice comprendere le motivazioni alla base della nuova strategia russa nella regione.