Stati Uniti e Unione Europea hanno imposto nuove sanzioni contro la Russia, in relazione al caso di Aleksej Naval’nyj. Eppure Mosca sta dimostrando una resilienza inaspettata, che potrebbe spingere i policymakers occidentali a rivedere la loro strategia.
Dopo mesi in cui l’Occidente ha puntato il dito contro il Cremlino, ritenuto responsabile dell’avvelenamento di Aleksej Naval’nyj, e la sua incarcerazione, i primi giorni di marzo diversi ambasciatori europei hanno approvato l’imposizione di sanzioni contro i responsabili degli attacchi conto il blogger. Pochi giorni dopo anche l’intelligence americana si è unita nella condanna contro gli enti governativi della Federazione. Il governo statunitense ha espresso di “[condividere] le preoccupazioni dell’UE in merito al crescente autoritarismo della Russia e [accogliere] con favore la determinazione dell’UE a imporre sanzioni alla Russia secondo la sua nuova autorità globale per i diritti umani.”
Tali disposizioni includono misure come il congelamento dei beni e il divieto di visto per sette persone coinvolte nell’avvelenamento e nella detenzione dell’attivista, tra cui Aleksandr Bortnikov, direttore dell’FSB; Andrej Jarin, capo della direzione della politica interna del Cremlino; e i viceministri della difesa Aleksej Krivoručko e Pavel Popov. Sono stati inoltre inclusi nella lista nera Sergej Kirienko, il primo vice capo di stato maggiore di Putin; Aleksandr Kalašnikov, direttore del Servizio penitenziario federale russo; e il procuratore generale Igor Krasnov. Lista destinata ad allungarsi grazie all’impegno del team di Naval’nyj.
Sono state colpite da queste nuove disposizioni anche 14 attività associate alla produzione di agenti biologici e chimici, accusate di sostenere la proliferazione di armi di distruzione di massa. Di questi enti, 13 sono aziende che operano in diversi settori, tra cui quello della difesa, finanziario, hi-tech ed energetico, accompagnate da un istituto di ricerca governativo russo. Tra le altre misure, sono state inoltre imposte sanzioni secondarie che ostacolano la capacità della Russia di esportare petrolio e gas naturale nel Vecchio Continente, vietando la vendita di determinate tecnologie occidentali e limitando l’accesso ai mercati dei capitali europei per banche e società russe. A questo proposito, l’amministrazione Biden ha dichiarato di voler imporre sanzioni sulle aziende coinvolte nella realizzazione del Nord Stream 2.
Le smart sanctions imposte sulla Federazione sono dunque sanzioni mirate atte a danneggiare unicamente gli individui stranieri che, in questo caso, hanno commesso violazioni dei diritti umani o che favoriscono la corruzione. Secondo questo schema esse non dovrebbero devastare l’economia del Pase, ma arrecare danni unicamente alle persone coinvolte. La popolazione, estranea a tali dinamiche, non dovrebbe pertanto risentirne. Alcuni esponenti della linea dura occidentale nei confronti di Mosca, tra cui William Browder, artefice del Magnitsky Act, hanno tuttavia affermato che le ultime misure, ovvero la limitazione dei viaggi e l’accesso alle banche statunitensi di alcune figure del governo russo, non sono abbastanza incisive da attirare l’attenzione di Putin. Sarebbe dunque necessario allargare il target e colpire gli assetti finanziari della cerchia stretta del presidente.
Dal momento che molti dei personaggi sanzionati negli ultimi anni sono involucrati nelle aziende chiave per l’economia del Paese, si è valutato l’impatto delle sanzioni sul mercato russo. Nel breve periodo molti esperti non vi vedono particolari ripercussioni. Le stesse sanzioni del 2014 in seguito alla crisi ucraina, che avevano colpito numerose imprese, avevano avuto conseguenze decisamente minori rispetto al crollo dei prezzi del petrolio, avvenuto l’anno precedente, e la successiva svalutazione del rublo. Secondo uno studio di Citibank, il calo del PIL del 2.5% era in effetti dovuto per il 90% dalla caduta del prezzo del petrolio e per il 10% dalle sanzioni.
Il limitato impatto delle disposizioni occidentali sul mercato russo sarebbe dovuto alla struttura stessa di queste ultime, che per la loro natura mirata, non metterebbero in crisi interi settori. Nel 2014, L’UE ha infatti vietato le esportazioni di armi e alcuni prodotti relativi a progetti di acque profonde, offshore, artiche o di scisto. Progetti di nicchia su cui il mercato russo non poggia completamente nel presente. L’Unione stessa rimane estremamente interessata al gas russo e non vuole fermare completamente l’approvvigionamento di risorse naturali.
Per le imprese punite e dunque per l’intera Federazione, queste sanzioni potrebbero avere un impatto molto più grande nel lungo termine. Successivamente a un calo della produzione nei campi tradizionali, il Paese avrà bisogno di rinnovare le sue fonti di approvvigionamento sfruttando nuove riserve più complicate, che sono proprio quelle prese di mira dalle disposizioni occidentali. Mosca infatti importa dall’Unione europea e dagli Stati Uniti la maggior parte di questa tecnologia avanzata e il know-how, che non sono disponibili altrove e difficilmente sostituibili con prodotti nazionali, almeno nel breve o medio termine.
Secondo uno studio della Georgetown University [1], ciò che permetterebbe a Mosca di preservare il suo mercato è l’intervento diretto del governo, che con il suo “effetto scudo” sopperisce al ritiro delle aziende occidentali. L’amministrazione statale trasferirebbe infatti le risorse necessarie a mantenere le attività russe in vita. L’onere di tale manovra verrebbe dunque tergiversato sul governo, finanziato dagli stessi cittadini, gli unici soggetti che non dovrebbero risentire delle sanzioni. Ad esempio, nel 2017, ExxonMobil ha abbandonato il progetto nell’Artico e nel Mar Nero in collaborazione con Rosneft, fatto a cui il governo ha risposto concedendo all’impresa agevolazioni fiscali da milioni di dollari. In ambito bancario, nell’aprile 2014, il governo russo ha conferito alla Banca di Russia l’unico contratto per servire i pagamenti del mercato interno dell’elettricità, promettendo entrate di una certa importanza stimate almeno 112 milioni di dollari. VTB Bank ha invece chiesto 5,4 miliardi di dollari di capitale statale in aiuti per compensare le perdite dovute alle ratifiche occidentali.
L’intervento imminente nei confronti delle banche dimostrano che le sanzioni in ambito finanziario, a differenza degli scambi commerciali, hanno notevoli effetti nel breve periodo che poi, come vedremo, si affievoliscono nel lungo termine. Nel mercato finanziario, ogni grande evento crea uno shock iniziale. Gli effetti maggiori si sono infatti visti tra il 2014 e il 2015. Oltre ad avere conseguenze importanti sulle compagnie direttamente sanzionate, queste disposizioni hanno causato strascichi pesanti sull’economia russa riducendo gli investimenti diretti e i prestiti per aziende e banche non colpite direttamente dalle disposizioni occidentali e l’afflusso di capitale nel mercato del debito pubblico. [2]
Negli anni successivi, il mercato finanziario russo si è assestato. La mancata entrata di capitale dall’estero è stata compensata in larga misura dalla diminuzione del deflusso di capitali russi. La capacità dell’economia di adattarsi a questi tumulti è dovuta anche al passaggio a un tasso di cambio variabile. Quest’ultimo avrebbe infatti favorito un aumento delle esportazioni per gli effetti stimolanti del rublo più debole, causato minori importazioni (anche per la contrazione complessiva della domanda interna) e migliorato l’equilibrio del modello reddito-spesa.
Grazie alla solidità del mercato finanziario della Federazione, gli investitori stranieri, che inizialmente avevano venduto le loro obbligazioni di prestito federale (OFZ), sono tornati sui loro passi attratti dal suo basso rischio e con un rendimento del 7% dei bond, secondo solo alla Cina. I principali investitori nel mercato azionario russo sono gli stessi americani, i quali non lo hanno abbandonato definitivamente ma la cui presenza, a distanza di anni, è addirittura aumentata. Caso lampante è la società Lukoil, impresa sanzionata successivamente alla crisi ucraina, le cui azioni ad oggi sono possedute per il 26,3% proprio da compagnie statunitensi.
Il passo che potrebbe effettivamente mettere a rischio il sistema finanziario della Federazione è la realizzazione della proposta di Biden, che ha dichiarato di voler attaccare il debito russo, vietando ai Paesi occidentali di comprare titoli di stato. Il solo annuncio ha causato il crollo delle OFZ. Da parte sua Washington deve procedere con cautela su questo fronte in quanto tale disposizione potrebbe destabilizzare i mercati globali, in quanto il mercato del debito sovrano russo è profondamente legato agli indici globali.
A monte di quanto analizzato, si può concludere che le smart sanctions hanno avuto finora un effetto relativamente contenuto sull’economia del Paese. Le aziende prese di mira hanno sempre trovato un modo per riassestarsi dopo ogni colpo grazie all’intervento del governo o alla loro appetibilità per gli stessi agenti occidentali. La resilienza di queste ultime fa dunque sorgere molti dubbi sulla possibile efficacia delle recenti disposizioni per il rispetto dei diritti umani e la lotta alla corruzione. La Federazione in questo momento si trova a dover fare i conti con un’economia in crisi dovuta alla pandemia, proprio come nel 2014 ha dovuto affrontare il crollo dei prezzi del petrolio. Resta dunque da vedere se la storia si ripete o se l’Occidente troverà un modo per far crollare la piramide di potere russa.
[1] Daniel P. Ahn, Rodney D. Ludema, “The sword and the shield: The economics of targeted sanctions”, European Economic Review, Vol. 30, 2020, pp. 1-19.
[2] Evsey Gurvich, Ilya Prilepskiy, “The impact of financial sanctions on the Russian economy”, Russian Journal of Economics, Vol. 1, No. 4, 2015, pp. 359-385.