Per Mosca la guerra civile libica del 2011 è un disastro: con il via libera all’intervento occidentale, Medvedev perde in un colpo solo la faccia di fronte ai suoi e i contratti miliardari stipulati con Gheddafi. Seguono anni grigi e poi l’opportunità per tornare a contare nel Paese simbolo delle primavere arabe abortite. Comunque vada, per il Cremlino oggi la missione è già compiuta.
20 ottobre 2011. A Sirte, a poca distanza dal suo villaggio natale, l’ex rais libico Muammar Gheddafi viene braccato e ucciso dai ribelli del Consiglio nazionale di transizione (CNT), sostenuti dalle forze militari occidentali. Quello è il giorno in cui la Russia raggiunge il punto più basso della sua parabola in Nordafrica. La sconfitta di una linea politica che non sarebbe stata più ripresa.
Fino a qualche mese prima, Mosca era uno dei primi partner in assoluto della Libia, con cui aveva stretto importanti accordi commerciali. E ancor prima, in epoca sovietica, era riuscita a fornire il 90% del suo materiale bellico, funzionante e attivo anche dopo la caduta del Muro. Come ha permesso, dunque, che il regime libico venisse rovesciato?
Occorre andare per ordine, e tenere conto di due grandi elementi di novità di quel momento: l’ascesa al potere di Dmitrij Medvedev e la violenza inedita delle repressioni di Gheddafi – ingigantita, a sua volta, da molti organi di stampa occidentali.
Con la sua breve parentesi presidenziale (2008-12), Medvedev prova a rimodulare la politica estera russa in senso più cooperativo nei confronti dell’Occidente. I tentativi, già frustrati dalle reciproche incomprensioni, naufragheranno definitivamente proprio davanti alle sponde libiche – anzi, nei cieli in cui non avrebbe dovuto volare nessuno secondo la no-fly zone approvata dall’ONU. Medvedev, in realtà, non lo immagina quando ordina ai propri diplomatici di votare l’astensione sulla Risoluzione 1973 al Consiglio di Sicurezza. Crede che un compromesso con gli Usa e i Paesi europei sia ancora possibile, ed è convinto che le repressioni di Gheddafi stiano superando ogni soglia di tollerabilità, almeno stando alle sue dure dichiarazioni precedenti[1].
La posizione, non condivisa all’interno dell’establishment russo, porta a una linea di frattura mai vista prima: da una parte il presidente Medvedev e il suo rappresentante speciale per l’Africa Margelov, fautore di un’uscita di scena del rais libico; dall’altra il premier Putin e il ministro degli Esteri Lavrov, fortemente critici verso qualsiasi concessione alle mosse occidentali. Nel mezzo la Duma, che nel tentativo di mediare tra i poteri vota per una dichiarazione di compromesso.
Di lì a poco i fatti daranno ragione a Putin, che a proposito della Risoluzione aveva causticamente osservato quanto essa consentisse “tutto”, somigliando più a un “appello medievale per le Crociate” che a uno strumento legale e adeguato di pressione contro le azioni del regime libico. La no-fly zone, trasformatasi rapidamente in una campagna militare senza limiti di mandato, andrà ben oltre ogni previsione di Medvedev per concludersi solo con la caduta del regime di Gheddafi. Da quel momento in poi, com’è noto, la Libia sarà sostanzialmente un buco nero, intervallato da brevi parentesi di speranza di un ritorno alla normalità. E la Russia, fatti i conti con le proprie responsabilità, non tornerà per anni su quelle sponde per concentrarsi sul suo unico alleato rimasto nel Mediterraneo, la Siria di Bashar al-Assad.
Quando vi rimetterà piede, a partire dal 2016, non lo farà in veste ufficiale – almeno se si eccettuano le visite e le dichiarazioni di circostanza. Della Jamāhīriyya di gheddafiana memoria non rimane più nulla: lo Stato libico non è più tale, e in un conglomerato mal assortito di milizie (e piccoli leader politici atti a renderle presentabili) muoversi con mercenari anziché con diplomatici è ritenuto più agevole dal Cremlino. Entra così in gioco la famigerata compagnia Wagner, che negli anni successivi si renderà protagonista di incursioni un po’ in tutto il continente africano – oltre che naturalmente in Siria e in Ucraina orientale.
La Russia quindi proverà a parlare lo stesso linguaggio degli attori locali, senza però rinunciare a rivolgersi verso chi promette una stabilizzazione futura del Paese, o quantomeno un controllo ferreo dei territori dominati: l’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar. Con lui il dialogo è su più livelli: diplomatico, militare, energetico e persino finanziario visti i dinari stampati a Mosca. Espressione laica e militarista dell’élite libica, e con l’intento dichiarato di riunificare il Paese, il generale rappresenta un modello politico alternativo rispetto al caos post-Gheddafi. E in ciò sicuramente rispecchia i desideri russi – oltre che quelli del vicino Al-Sisi.
La scelta di Mosca è però, come sempre, più geopolitica che ideologica. I territori orientali dell’ex colonia italiana sono quelli più prossimi agli interessi russi, per vicinanza geografica e disponibilità di risorse. Qui Putin sogna per la sua flotta una base militare, la seconda nel Mediterraneo, che potrebbe dare sostanza alle ambizioni di una presenza stabile – in triangolazione con il porto siriano di Tartus e con ciò che verrà installato nello spicchio sudanese del Mar Rosso. E qui Rosneft ha stretto accordi di fondamentale importanza per due Paesi accomunati dalla forte dipendenza da export di idrocarburi. Senza contare le sponde geopolitiche conl’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti. E soprattutto facendo leva sulle relazioni ambivalenti con una Turchia ancor più interessata al Paese nordafricano, e insediatasi ormai saldamente sulle sue rive occidentali.
Proprio il rapporto con Ankara ha aperto la strada a una nuova fase dell’impegno russo nella Libia post-Gheddafi. Da attore esterno e interessato a una delle due parti in conflitto (sebbene non abbia mai celato i contatti diplomatici con il GNA tripolino), fino al 2019 il Cremlino non poteva che considerarsi uno sponsor dei due contendenti della disputa. Poi, una volta fallita la frettolosa iniziativa bellica di Haftar del 2019 – condotta, tra l’altro, in barba alla volontà di Putin – l’LNA non ha potuto fare altro che accettare un maggior ruolo dei russi. Stessa dinamica oltre “cortina”: sulle sponde della Tripolitania, il debole Serraj è stato costretto a chiedere aiuto ai turchi per sopravvivere, in cambio di (ulteriori) cessioni di sovranità.
Risultato: gli attori esterni sono diventati sempre più interni, organici cioè ai poteri locali che non possono più farne a meno. E se ancora all’inizio del 2020 i russi (come i turchi) non riuscivano a disporre come volevano dei loro protetti – si veda a tal proposito il flop della conferenza di Mosca – soltanto un anno dopo gli equilibri sono cambiati in misura considerevole. Oggi Putin ed Erdoğan sono gli informali garanti del cessate il fuoco siglato ad agosto, base di partenza per ogni trattativa per la stabilizzazione. Ma stabilizzazione non fa rima con unificazione: al consolidamento delle posizioni acquisite sulla linea Sirte-Ğufra ha fatto seguito la costruzione di una vera e propria barriera fisica, preludio al mantenimento di uno status quo militare che vedrà impegnate Mosca e Ankara per lungo tempo.
Poco male per il Cremlino: il suo obiettivo non è mai stato quello di un inverosimile ritorno al passato – nessuno restituirà mai ai russi i contratti siglati prima della morte di Gheddafi – bensì quello di un ritorno in grande stile che riscattasse il disastro del 2011, almeno dal suo punto di vista. E a prescindere da come proseguirà la sua avventura libica, la missione finora può dirsi compiuta.
[1] Se la situazione fosse peggiorata, aveva fatto notare Medvedev, le azioni delle autorità libiche sarebbero state “qualificate come crimini” e come tali avrebbero dovuto assumersi le “conseguenze del diritto internazionale”.