Il 24 aprile l’Armenia, e la nutrita diaspora distribuita nei cinque continenti, ricordano il “Medz yeghern” (il grande crimine), il genocidio armeno. Questa commemorazione ricorda il periodo tra il 1914 e il 1921, quando l’Impero ottomano portò a termine una vasta serie di operazione atte a espellere, deportare e massacrare quegli armeni che per secoli avevano vissuto nei territori dell’allora multietnico impero e nelle regioni di confine. Le deportazioni di civili, le fucilazioni, la volontà di estirpare e deportare milioni di individui concepiti come alieni, ostili al progetto di nascita della nazione turca, nonché la precisa volontà di annichilire il maggior numero possibile di individui costò la vita ad oltre un milione e mezzo di armeni, quasi il 70 percento di quelli presenti nell’Impero ottomano.
Tralasciando il trauma psicologico, spesso trascurato è l’aspetto culturale del genocidio: oltre 450 monasteri, 1.900 scuole e 2.400 chiese andarono perdute, così come innumerevoli opere d’arte, cimeli e manufatti religiosi. Il lascito maggiore del genocidio è tutt’ora vivo non solo nella memoria e nell’ethos nazionalista patrio, ma nell’eredità genetica dei centinaia di migliaia di armeni rifugiatisi in Libano, Siria e in madrepatria per scappare al massacro. L’attuale comunità armeno-libanese (tra gli 80.000 e 120.000 individui) è infatti lascito diretto di quella tragica esperienza. Una collettività un tempo fiorente, che attualmente lotta per sopravvivere all’incedere negativo dell’economia libanese e che sta interiorizzando l’aumento delle tensioni confessionali in uno Stato in cui il precario contratto sociale post-guerra civile pare un lontano ricordo.
La data è stata scelta in funzione di quello che gli storici riconoscono come l’inaugurazione di un processo di genocidio programmato e messo in atto scientificamente, quando il 24 aprile 1915 il governo ottomano arrestò e successivamente eliminò centinaia di intellettuali armeni, membri del clero, influenti uomini d’affari e esponenti di spicco di quell’intellighenzia borghese nell’allora multietnica Costantinopoli, l’odierna Istanbul. Da lì in poi un susseguirsi di massacri di civili armeni attraverso le terre ottomane, la deportazione di donne, bambini e anziani verso campi di concentramento nel deserto siriano, campi che la maggioranza dei deportati non vide mai finendo per morire di fame e stenti lungo il percorso.
Tale orrore fu giustificato (e ancora oggi ampiamente negato) dalle allora autorità ottomane in guerra come una rappresaglia, una soluzione finale ante litteram contro gli armeni accusati di simpatizzare con i Russi, una pericolosa quinta colonna come insopportabile minaccia allo Stato nel bel mezzo del primo conflitto mondiale. La volontà di eliminare il popolo armeno giunse in continuità con i contemporanei (e altrettanto negati) etnocidi perpetrati contro greci ortodossi e assiri, minoranze cristiane colpevoli di alterare e indebolire i progetti panturchi, l’identità di una nazione da creare sulle ceneri di un impero oramai al “canto del cigno”. Un processo di pulizia etnica, quello compiuto sistematicamente contro gli armeni, che gli storici individuano come la naturale evoluzione di una spirale di violenza che tra il 1894 e il 1869 colpì indiscriminatamente le comunità armene, i cosiddetti massacri hamidiani (dal nome del sultano ottomano Abdülhamid II) compiuti dalle forze ottomane e irregolari curdi.
Dal 1923, la Turchia continua vigorosamente a negare di aver perpetrato il genocidio. Esercita pressioni sui suoi alleati affinché si astengano dal dichiarare ufficialmente gli eventi un “genocidio”, sponsorizza attivamente (e lautamente) narrazioni e un lobbismo revisionista. La posizione ufficiale di Ankara respinge l’esistenza di un piano orchestrato del governo dei Giovani Turchi e considera la carneficina una triste conseguenza della guerra. Altre argomentazioni considerano sia la minaccia filorussa costituita dagli armeni sia, sul piano semantico, l’anacronismo della stessa parola “genocidio”, che non sussisterebbe prima del 1943. A partire dal 2020, i governi di 32 paesi, tra cui Stati Uniti, Germania, Francia, Italia, Canada, Russia e Brasile, hanno formalmente riconosciuto il genocidio armeno.
Una cappa di oppressivo e assordante silenzio negazionista ha soffocato (anche nel sangue) ogni possibile dibattito in seno alla comunità accademica turca, pena l’ostracismo e l’isolamento professionale. Gli accademici qualificati in studi turcologici devono evitare l’argomento o seguire la linea ufficiale turca se sperano di fare ricerca nel paese. La linea ufficialmente propagandata da Ankara è quella secondo cui i Giovani Turchi si sarebbero trovati costretti a deportare gli armeni dal teatro di guerra a causa o per paura della loro ribellione. Decina di migliaia di armeni sarebbero morti nel processo, indipendentemente dai tentativi turchi di proteggerli e prendersi cura di loro; altri sarebbero periti in seguito a scontri intestini tra armeni e musulmani autoctoni.
Il numero tristemente ridotto di paesi che riconoscono il genocidio è spiegabile con l’approccio aggressivo che Ankara riversa verso governi, regioni o associazioni che intendono riconoscere la realtà dei fatti. Già nel 1995 la Russia o recentemente diversi stati come la Siria o l’Uruguay, hanno ufficialmente riconosciuto il genocidio. Soprattutto alla fine del 2019, sia la Camera degli Stati Uniti che il Senato hanno approvato un disegno di legge che dichiara che l’uccisione di 1,5 milioni di armeni da parte dei turchi ottomani è stata, in effetti, un genocidio. Nota dolente il mancato riconoscimento di Israele, Stato nazione di quel popolo ebraico sopravvissuto alla più grande tragedia dell’umanità.
Situazione internazionale che potrebbe rovesciarsi se l’indiscrezione del New York Times, secondo cui il presidente americano Biden si starebbe preparando a riconoscere il genocidio, trovasse fondamento. Il fatto che Biden si dichiari disposto a rischiare di logorare le relazioni con i turchi è funzionale al nuovo paradigma americano atto a patrocinare il rispetto dei diritti umani in politica estera, ma non è certo da sottovalutare il ruolo di legislatori, attivisti e lobbisti armeno-americani impegnati in un processo di pressing costante che ha già ottenuto importanti risultati locali. Un gruppo bipartisan di oltre cento membri della Camera, inoltre, ha firmato una lettera a Biden chiedendogli di diventare il primo presidente a riconoscere formalmente le atrocità come genocidio. Capo delegazione il rappresentante democratico della California Adam Schiff, eletto nel 28esimo distretto dove non trascurabile demograficamente è la comunità armena.
Ogni anno è tradizione che il primo ministro, le autorità ecclesiali e l’intellighenzia, così come la comunità armena in patria e nella diaspora, depongano dei fiori nei pressi della fiamma eterna, una consuetudine che si ripete ciclicamente in una cerimonia presso il complesso commemorativo sulla collina di Tsitsernakaberd a Yerevan. Questo aprile, stante l’emergenza pandemica, la cerimonia di commemorazione sarà vietata al pubblico e presenziata solamente dal primo ministro Pashinyan, il catholicos Karekin II e diversi esponenti del parlamento, all’interno delle differenti sigle politiche. Numerosissime però le iniziative online, le raccolte fondi e gli eventi culturali sia in Armenia che in quelle nazioni dove vive una nutrita diaspora.
Quest’anno la cerimonia di commemorazione del genocidio armeno si svolge però in un contesto particolarmente doloroso per la piccola repubblica caucasica, reduce dalla bruciante sconfitta subita dal rivale Azerbaijan nell’autunno del 2020 per il possesso dei territori contesi del Nagorno Karabakh. Solo l’intervento della Russia, intenzionata a preservare la propria influenza in un Caucaso in cui è sempre piu assertiva la presenza turca, ha sventato il peggio, permettendo così una accomodata divisione del territorio conteso tra i due competitors. Ancor piu della sconfitta militare, delle migliaia di morti, esuli e del trauma psicologico profondo di dover rinunciare a quei territori, a pesare sull’intero ecumene armeno è l’onta del sopruso manu militari perpetuata in un contesto in cui gli armeni si sono ritrovati, ancora una volta come nel 1915, isolati e ignorati dal mondo.
Bibliografia
Marcello Flores, Il genocidio degli Armeni, Il Mulino, 2017
Guenter Lewy, Il massacro degli Armeni. Un genocidio controverso, Einaudi, 2015
Ronald Grigor Suny, “They Can Live in the Desert but Nowhere Else”: A History of the Armenian Genocide, Princeton University Press, 2017
Benny Morris, Il genocidio dei cristiani. 1894-1924. La guerra dei turchi per creare uno stato islamico puro, Rizzoli, 2019