Gli ultimi vent’anni hanno marcato una rapida accelerazione nei rapporti tra Mosca e Pechino in ambito militare. Oggi i due Paesi hanno raggiunto vette di cooperazione mai toccate. Il collante che tiene insieme i due pezzi è inevitabilmente la minaccia rappresentata da Washington.
Ricca di modi di dire e termini caratteristici, la lingua russa ha riportato ai nostri giorni l’espressione “Generale Inverno”, arma a doppio taglio nei momenti più bui della storia. D’altronde è risaputo: il gelo russo ha fatto più danni della grandine. Lo sanno bene Napoleone con la sua Campagna di Russia, l’esercito di Carlo XII di Svezia con la Campagna di Poltava o i finlandesi con la Guerra d’Inverno.
Il gelo e le montagne siberiane hanno fatto da sfondo persino agli ultimi Giochi militari internazionali nella Federazione. Ospite d’eccezione la Cina. Un test importante per l’Esercito Popolare di Liberazione cinese, soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo delle proprie capacità in regioni montane e caratterizzate da temperature molto rigide. Basti pensare a quanto ciò potrebbe favorire l’impegno cinese sia nell’Artico che sull’Himalaya, al confine con l’India. La presenza di un contingente cinese nell’esercitazione non è in realtà una novità. La sua partecipazione ad alcune fasi preliminari dei Giochi invece lo è ed è sinonimo di un legame più profondo nell’ambito militare.
Come tutto è (ri)cominciato
Nonostante la crisi sino-sovietica avesse posto fine a quell’idillio iniziale all’interno del mondo comunista, l’idea di una cooperazione in ambito militare rinacque già dalla fine della Guerra Fredda. Le discussioni sulla questione territoriale dei primi anni ’90 mostravano i primi segni di apertura e di misure di confidence building dopo la normalizzazione dell’89.
La storia aveva, ancora una volta, fatto incontrare i due vicini per una serie di motivi. L’embargo sugli armamenti decretato a seguito dei fatti di Piazza Tienanmen aveva infatti lasciato la Cina senza troppo margine di manovra. Due erano gli obiettivi all’epoca: da una parte si mirava ad una crescita economica esponenziale, dall’altra ad un ammodernamento delle forze armate. Quest’ultimo poteva avere luogo solo invocando l’aiuto di Mosca. D’altra parte, la Russia aveva perso quel ruolo di polo politico e militare in contrapposizione agli Stati Uniti e si trovava in una situazione economica catastrofica.
Le esportazioni di armamenti, in particolare dei sottomarini Kilo o dei Sukhoi Su-27, negli anni ’90 si rivelavano dunque vitali per l’industria bellica russa. Erano anche gli anni dei primi colloqui tra i rispettivi ministri della Difesa, l’accordo sul no first use di armi nucleari e la fondazione del gruppo degli Shanghai Five. Con l’avvento di Vladimir Putin al Cremlino si entrò nel vivo della cooperazione. Già l’Articolo 7 del Trattato di buon vicinato e cooperazione amichevole del 2001 gettava le basi per una coordinazione delle politiche in ambito militare.
Nel 2004 prendeva forma, nella penisola dello Shandong, la prima vera esercitazione militare congiunta: la Peace Mission, che sarebbe diventata un format fisso per l’addestramento e il coordinamento delle forze aeree e di terra. Tuttavia, il periodo tra il 2005 e il 2008 segnò uno spartiacque con il quindicennio precedente. Una serie di screzi iniziò a turbare l’armonia tra i due Paesi. Pechino non era del tutto soddisfatta del trattamento riservato dal proprio partner. Mosca, invece, intendeva sia diversificare i propri acquirenti nel settore degli armamenti che tutelarsi da possibili fenomeni di reverse engineering e dall’avanzamento militare incontrollato del vicino asiatico.
La svolta del 2011-12
Il 2011 e il 2012 mostrano un secondo punto di svolta. L’intervento occidentale in Libia, l’instabilità politica interna alla Federazione e l’intensificarsi del pivot to Asia statunitense fanno riallineare i due pianeti. Complice anche l’ascesa al potere del principe Xi Jinping.
Gli incontri tra Xi e Putin diventano abituali grazie anche a una particolare correità personale. La frequenza delle consultazioni militari tra i due Paesi raggiunge la trentina di incontri di alto livello annui. L’ultimo di questi meccanismi di consultazione riguarda la sicurezza nella regione dell’Asia nord-orientale. Tanti i temi esplorati nei vari incontri: dalla minaccia nucleare nordcoreana a quella del sistema antimissilistico statunitense THAAD dislocato in Corea del Sud.
Il 2012 è anche l’anno del lancio di un nuovo genere di esercitazione militare congiunta. Joint Sea rappresenta ad oggi un’occasione annuale unica per testare le capacità di anti-submarine warfare, antipirateria e rescue. Uno dei game changer della storia tra Russia e Cina è infatti rappresentato dall’edizione del 2016, quando sottomarini e combattenti di superficie russi e cinesi iniziano a scaldare le già calde acque del Mar Cinese Meridionale. Oggetto anche di un pattugliamento aereo congiunto tra i due Paesi proprio lo scorso dicembre.
Un’ulteriore conferma della volontà di interagire sempre più nel settore della difesa è rappresentata da Aerospace security, simulazione antibalistica computerizzata in cui Mosca e Pechino si impegnano dal 2017. In totale oggi si parla di una media di tre-quattro esercitazioni congiunte all’anno. Tale costanza permette inevitabilmente di raggiungere altissimi livelli di interoperabilità tra le varie forze in gioco.
In un incontro al Valdai Club nel 2019, Putin ha proposto al mondo lo sviluppo di un sistema di difesa missilistico congiunto con la Repubblica Popolare. Un enorme passo in avanti in quanto ad interdipendenza e fiducia reciproca. La creazione di tale sistema permette infatti alla Russia un vantaggio strategico dato dalla condivisione di informazioni e dati provenienti dai radar cinesi.
L’unione fa la forza, soprattutto se l’egemone è Washington
“Non possiamo entrare in un’alleanza con i principi vicini fino a che non conosciamo i loro piani.” Così scriveva il generale e filosofo cinese Sun Tzu nel suo “L’arte della guerra” intorno al VI secolo a.C.. I piani dietro questa (non) alleanza appaiono evidenti. È la minaccia esistenziale dettata dagli Stati Uniti il leitmotiv che accompagna un tale riavvicinamento. La pressione sistemica sembra essere amplificata, in particolare, con il riemergere di complessi di sicurezza regionale. Due esempi pratici ci vengono forniti dal Mar Cinese Meridionale e dall’Europa orientale. Non è un caso che due dei maggiori accordi sulla compravendita di armamenti tra Russia e Cina siano stati siglati proprio a seguito degli eventi in Ucraina del 2014.
Da qui la necessità di coordinamento a livello globale, pur mantenendo ampia libertà di azione. Ciò si riflette nella mancanza di scambi di basi militari e di una politica di difesa comune. Né Mosca né, tantomeno, Pechino sono disposte a privarsi di quell’autonomia strategica necessaria a perseguire i propri obiettivi sulla scena internazionale. La partnership in materia di difesa rappresenta, tuttavia, una delle poche leve da parte della Federazione nei confronti della Repubblica Popolare. Le esercitazioni sono infatti spesso tenute in lingua russa e Mosca gode ancora di vantaggi strategici, soprattutto riguardo alle capacità operative e all’export di tecnologie ad altissimo livello.
Tuttavia, se l’idea di un’alleanza militare a tutto tondo può risultare illusoria, credere che un maggiore grado di istituzionalizzazione di certi meccanismi non sia possibile lo è ancora di più. La questione della militarizzazione del dominio spaziale, ad esempio, pone l’accento su una possibile cooperazione di più ampio respiro. La logica russa punta ancora sul pragmatismo. Gli Stati Uniti sono una minaccia reale oggi, la Cina potrebbe esserlo solo domani. L’asse di convenienza continuerà dunque ad essere tale anche in settori strategici. Almeno fino a quando le fondamenta di tale partnership non inizieranno a tremare.
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