Il 28 maggio 1905, la battaglia navale con i giapponesi nello stretto di Tsushima si concluse con la completa sconfitta della flotta russa del Pacifico. La maggior parte delle navi russe venne distrutta dall’artiglieria nemica o si arrese. Con questa vittoria, il Giappone si affermò come nazione egemone dell’Asia Orientale e si impose all’attenzione mondiale come grande potenza militare. E la sua rivalità con la Russia non smetterà (quasi) mai di portare i suoi frutti avvelenati.
Al principio del Novecento sulle fredde acque del Mar del Giappone si affacciavano due potenze apparentemente agli antipodi ma destinate a confliggere. Da un lato il Giappone, uscito forzosamente dall’isolamento autoimposto durante lo shogunato Tokugawa e avviato già da metà Ottocento verso un repentino processo di modernizzazione – coinciso con la sua riaffermazione imperiale. Dall’altro la Russia, potenza mondiale retta dalla dinastia Romanov: un impero secolare retto dalla dicotomia fra trono e altare, ma reso fragile dalla vecchiaia dei suoi apparati e dal crescere dei nazionalismi e dei movimenti di massa. Due imperi per due sfere di influenza destinate a contendersi le spoglie della Cina Qing.
L’impero degli zar bramava il possesso di un porto sui mari caldi, vista l’impossibilità di servirsi a pieno regime di Vladivostok. Preda ideale dunque la strategica Port Arthur, possedimento cinese. Parimenti agli espansionismi russi, anche Tokyo vedeva nel “malato d’Oriente” cinese un’ottima occasione imperialista. Già nel trattato di Shimonoseki del 1895 aveva ottenuto Taiwan, la penisola del Liaodong e il trasferimento della Corea nella sfera di influenza giapponese. La Russia, convinta di avere la superiorità navale sull’ancora inesperta marina giapponese (Tokyo non disponeva ancora di corazzate mentre i russi ne possedevano sette), e spalleggiata da Francia e Germania, riuscì a strappare ai nipponici il possesso di Port Arthur ottenendo un contratto di locazione venticinquennale dalla Cina.
Umiliato e desideroso di riscatto, nel 1904 il trono del Crisantemo pretese da Mosca la smilitarizzazione della Manciuria, ottenendo un netto rifiuto e di conseguenza l’interruzione delle relazioni diplomatiche. Il casus belli era servito. L’8 febbraio dello stesso anno, senza una formale dichiarazione di guerra, la flotta del Sol Levante attaccò e annientò le navi russe nella rada di Port Arthur. Era l’inizio della guerra russo-giapponese. I nipponici sfruttarono questo successo occupando le alture attorno alla città e bombardando di là le navi all’ancora. L’attacco a sorpresa venne accolto con forte indignazione sia dalle autorità zariste che dall’opinione pubblica russa. In breve tempo, per rinforzare il contingente nel Pacifico, venne organizzata una squadra navale. Composta da 42 navi, fra cui 11 corazzate, il suo comando venne affidato all’ammiraglio Zinovij Rozhestvenskij. La flotta salpò dal Mar Baltico il 15 ottobre 1904.
La distruzione dei cacciatorpediniere russi da parte dei cacciatorpediniere giapponesi a Port Arthur
La caduta di Port Arthur, sottoposta al blocco navale dal principio della guerra, nonché la scomparsa della marina russa nel Pacifico, sottolinearono la necessità che la flotta dal Baltico raggiungesse il prima possibile il teatro dello scontro al fine di infliggere una severa sconfitta al baldanzoso Giappone. Lo smaccato senso di superiorità dei russi, colmi di orientalismo e hybris, non si confaceva al derelitto stato della flotta imperiale indebolita dalla vetustà dei mezzi navali, dall’impreparazione dei muzhiki (gli indisciplinati e maltrattati costretti di marina) pari soltanto a quella dei superiori. Dopo otto mesi di navigazione, fiaccati dall’estenuante traversata e dalle avversità diplomatiche, gli squadroni russi raggiunsero il Mar del Giappone in direzione Vladivostok, intenzionati a passare per lo stretto di Tsushima. Caduta Port Arthur, la flotta russa doveva radunarsi e far valere il maggiore tonnellaggio.
La notte del 26 maggio 1905 la flotta russa (11 corazzate, 9 incrociatori, 10 cacciatorpediniere) tentò di passare lo stretto di Tsushima in una fitta nebbia, ma venne rilevata dai rivali giapponesi. In tutto l’ammiraglio Togo poteva contare su 4 corazzate, 26 incrociatori, 21 cacciatorpediniere e 43 torpediniere. L’ammiraglio aveva come obiettivo quello di sfilare davanti alle file russe facendo quello che nella tattica navale del tempo era definito il taglio della T: l’inserimento della propria formazione, in linea, perpendicolarmente alla flotta nemica, concentrando il fuoco di bordata delle navi su poche unità avversarie, costrette a rispondere al fuoco con un numero limitato di cannoni. Ciò venne reso possibile grazie alla velocità delle navi giapponesi. Dopo tre ore di pesante battaglia la linea della flotta russa venne spezzata, e le sue navi pesantemente danneggiate. La flotta giapponese, manovrando parallelamente ai russi, riuscì ad attraversare nuovamente la T russa, affondando le corazzate Aleksandr III e Borodino.
La flotta russa a Tsushima era in agonia: carcasse di navi in fiamme, animali morenti, malinconico presagio per la sorda ostinazione del porfirogenito zar, ma l’ammiraglio Togo mirava all’annientamento del nemico in fuga per la salvezza. Nikolaj Nebogatov, succeduto al comando al ferito Rozhestvenskij, aveva adesso la responsabilità di tutta la flotta. Nella notte giunsero gli attacchi delle torpediniere giapponesi, che silurarono altre sei unità, colandole a picco. Al mattino seguente Nebogatov contava intorno a sé soltanto sette navi russe, ridotte in pessime condizioni.
La mattina del 28 maggio il contrammiraglio ordinò alle navi rimaste sotto il suo comando di arrendersi. Delle trentasette navi russe ventidue erano state affondate, dodici si erano arrese e soltanto tre avevano raggiunto Vladivostok. I morti furono 4.505. I giapponesi persero tre torpediniere accusando solo un centinaio di caduti. Il Sol Levante, sotto gli occhi attoniti del mondo, faceva un ingresso trionfale nel salone delle grandi potenze abbattendo la morente aquila imperiale. La maledizione di Tsushima ammorberà l’animo di Nicola II per il resto della sua vita.
L’incrociatore protetto Aurora nel 1904-1905 prese parte alla guerra russo-giapponese. Dopo la battaglia di Tsushima, fu una delle poche navi russe superstiti. Dopo la guerra venne usata come unità di addestramento e attualmente funge da museo galleggiante alla rada nelle acque pietroburghesi della Neva.
Nonostante la flotta russa disponesse di un vantaggio nel tonnellaggio delle imbarcazioni da guerra, diversi fattori emergono nell’analisi teorica come cause della sconfitta. La velocità e il miglior addestramento dell’equipaggio permisero alle imbarcazioni giapponesi di sfruttare la potenza di fuoco delle loro navi, e contemporaneamente ridurre quella dei nemici con la famigerata manovra a T. La tecnologia del radar giocò un ruolo di fondamentale importanza nella battaglia di Tsushima. Tuttavia, il fattore decisivo nella guerra russo-giapponese fu probabilmente la natura burocratica dello zarato e degli ufficiali della Marina russa. Uno stato gerontocratico e conservativo che ignorava le moderne conquiste tecnologiche a favore di pratiche obsolete.
La ferita inferta nello Stretto di Tsushima non solo mise a tacere le aspirazioni imperiali russe, ma scosse profondamente le sorti dello zarismo. Nel settembre del 1905, la cittadina navale di Portsmouth vide apporre la firma sul trattato che avrebbe posto fine al conflitto russo-giapponese sotto gli occhi dell’allora presidente statunitense Theodore Roosevelt. Portsmouth segnò un ridimensionamento delle ambizioni territoriali russe. Lo zar rinunciava non solo alla penisola del Liaodong, alla sezione meridionale di Sakhalin e a parte della Ferrovia Orientale Cinese, ma anche al proprio status di attore privilegiato nella penisola coreana e in Manciuria.
A dispetto di qualsiasi previsione, tuttavia, i rapporti tra i due imperi erano destinati ad un cambiamento radicale: da nemici ad alleati. Le negoziazioni del New Hampshire spianarono, infatti, la strada per un riavvicinamento negli anni a venire. Già nel 1907 entrambi gli imperi riconoscevano l’integrità territoriale reciproca e sceglievano di preservare lo status quo nella regione dell’Asia orientale. Dietro una simile scelta di facciata, soprattutto in seguito ad alcune manovre statunitensi in Manciuria, ci si spartiva virtualmente quest’ultima e la Corea in sfere di influenza. La ritrovata amicizia fu brevemente interrotta da una parentesi a seguito della Rivoluzione d’Ottobre, con l’intervento giapponese in Siberia.
“Tra Sua Maestà l’Imperatore del Giappone e l’Imperatore di Tutte le Russie, e le loro rispettive nazioni e popoli, vi sarà da questo momento pace e amicizia”. Così per anni risuonò l’eco di Portsmouth, almeno fino allo scoccare della Seconda Guerra Mondiale, quando la natura delle relazioni tra Mosca e Tokyo divenne evidente. Si trattava di un matrimonio di convenienza, più che di un vero innamoramento.
Lo stato di belligeranza tra Russia e Giappone non è mai terminato. Almeno sulla carta. La firma di un trattato di pace tra le due parti ancora oggi è strettamente legata ad una duratura disputa territoriale. Una serie di isole tra il Mar di Ochotsk e il Pacifico, Curili del Sud per i russi e Territori settentrionali per i nipponici, ne costituiscono il fulcro. Gli anni ’50 ebbero un impatto notevole nel delineare le attuali relazioni tra Mosca e Tokyo. Con il Trattato di San Francisco del 1951 il Sol Levante non solo si impegnava in un atto di pace, ma rinunciava formalmente anche alle terre acquisite. Sebbene l’Unione Sovietica non abbia mai firmato tale accordo, il Cremlino sfrutta oggi tale dicitura per rivendicare le isole. Il Giappone, a sua volta, lo fa in mancanza di una specifica previsione sui Territori settentrionali all’interno del sistema di San Francisco.
La possibile estensione delle rispettive Zone economiche esclusive (ZEE) rappresenta un tassello cruciale sia per il sostentamento dell’Estremo Oriente russo che dell’isola giapponese di Hokkaidō. A livello strategico, ciò non solo permetterebbe alla Flotta del Pacifico russa di avere uno sbocco nel Mar di Ochotsk, ma anche di evitare una possibile ingerenza statunitense a livello militare. Non a caso negli ultimi anni le Curili del Nord sono state oggetto di un’intensa opera di militarizzazione da parte di Mosca.
Le prospettive di cooperazione sono potenzialmente innumerevoli: dalle nuove frontiere energetiche dell’idrogeno fino ai format 2+2 per la sicurezza in Asia orientale. Se la parentesi dell’era Abe aveva riaperto uno spiraglio di cooperazione tra i due Paesi, le negoziazioni sembrano essere giunte ad un’impasse. L’intenzione di un riavvicinamento è forte e persiste anche con il nuovo premier Suga. Tuttavia, questa volontà non si è tradotta in niente di concreto. Almeno per il momento. Rimane dunque aperto questo fronte orientale, e ancora oggi va a minare la quiete delle acque intorno al Giappone e alla Federazione. A Tsushima caddero i russi. Nelle isole della discordia, invece, non vi sono né vinti né vincitori.
Marco Limburgo, Camilla Gironi
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