Il nuovo scontro di frontiera kirghizo-tagico ha riportato a galla due questioni che ormai da decenni costituiscono una minaccia concreta per le relazioni fra gli Stati centroasiatici: l’ambiguità dei loro confini nazionali e la gestione delle risorse idriche contese. Quanto avvenuto poche settimane fa sulle sponde del fiume Isfara è una dimostrazione del fatto che, laddove queste due problematiche tendono ad intrecciarsi, la portata dei conflitti che ne possano scaturire può assumere connotati drammatici.
Il quadro etnico delle popolazioni centroasiatiche ha storicamente avuto un carattere disomogeneo. Le origini di questi fragili equilibri di coesistenza tra diverse nazionalità sono tuttavia da ricercare nella gestione amministrativo-territoriale dell’ex URSS. Con la costituzione staliniana del 1936, l’Asia Centrale fu spartita in cinque entità politiche che acquisirono ufficialmente lo status di Repubbliche Socialiste Sovietiche. Sebbene l’intenzione di Mosca fosse quella di creare uno stato ad hoc per ogni gruppo etnico maggioritario, le linee di demarcazione non tennero deliberatamente conto della realtà di alcune aree etnicamente molto controverse. Se diamo uno sguardo alle mappe di oggi, osserviamo come i confini di Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan presentino diverse irregolarità, tra cui varie enclave, exclave e bruschi ingarbugliamenti, dove talvolta è difficile capire quando inizi una giurisdizione e quando finisca un’altra.
Un tale impianto ha, da un lato, sedimentato l’odio e la diffidenza fra le varie etnie che si sono rese protagoniste, a partire dagli anni Novanta, di diverse violenze reciproche, e dall’altro ha reso particolarmente complicata la gestione delle risorse transfrontaliere, prevalentemente idriche. Le recenti tensioni esplose tra Tagikistan e Kirghizistan lo scorso 29 aprile si inseriscono pertanto in un contesto in costante peggioramento, dove l’instabilità di confine fa pari e patta con il nazionalismo e la pessima governance operata su entrambi i lati.
Le cause: rivendicazioni territoriali e lotta per le risorse
Ad accendere la miccia del conflitto sembra essere stata una controversia riguardo l’installazione di alcune telecamere di sorveglianza in un punto strategico per l’approvvigionamento dell’acqua verso il villaggio di Kok-Tash, nei pressi di Vorukh. Quest’ultima è un’enclave kirghiza in territorio tagico, già al centro, negli ultimi anni, di diversi episodi violenti che hanno posto le basi per l’escalation di poche settimane fa. Alcuni civili sarebbero stati arrestati dalle guardie di confine per aver attraversato illegalmente il fiume Isfara, separatore naturale dei due territori. La reazione dei civili si è rapidamente estesa a tutti i punti caldi sul confine kirghizo-tagico, e ben preso alle sassaiole e alle scazzottate delle prime giornate sono seguiti colpi di mitragliatrice e mortaio da parte dei corpi militari. Il bilancio degli scontri, secondo quanto riportato dalle autorità dei due Paesi, ammonterebbe a circa 36 morti e 189 feriti nel lato kirghiso, e 19 morti e 87 feriti da quello tagico.
Osservando quanto è accaduto capiamo che la causa scatenante del conflitto non sia prescindibile dalla problematica della distribuzione delle risorse idriche. Nella fattispecie, le nuove telecamere poste dal Tagikistan sorvegliavano il bacino di Golovnoy, uno dei tanti bacini la cui paternità non è mai stata attribuita. Ai due governi si può pertanto imputare l’incapacità di stabilire un accordo necessario per la demarcazione netta delle risorse lungo il corso dell’Isfara, complice la riluttanza nel privarsi ognuno della propria parte del bacino. Dal punto di vista unicamente territoriale invece abbiamo sullo sfondo una definizione delle frontiere in costante “manutenzione”. Il settore di confine in questione è da anni oggetto di estenuanti e sconclusionate negoziazioni, il cui culmine è stato raggiunto proprio alla vigilia degli scontri. Si vociferava infatti di un presunto baratto di territori tra Kirghizistan e Tagikistan in cui l’enclave di Vorukh sarebbe stata la principale moneta di scambio. In quell’occasione Emomali Rahmon, presidente tagico, è intervenuto pubblicamente a placare le ambizioni del capo del Comitato di Sicurezza Nazionale kirghiso Tashiev, ritenendole un passo falso nonché poco conformi a quanto discusso fino a quel momento. Considerate simili premesse, non è difficile immaginare come i residenti di questi settori abbiano vissuto per anni una situazione in cui malcontento e disorientamento si sono accavallati a tal punto da cementare il rischio di continue escalation involontarie.
La risoluzione del conflitto e le reazioni dei governi
Nelle ore immediatamente successive all’incidente i governi dei due paesi sono dunque corsi ai ripari per mettere una pezza sulla questione. La dichiarazione congiunta è arrivata subito dopo l’incontro fra i due presidenti Rahmon e Japarov in occasione del vertice dell’UEE (Unione Economica Eurasiatica) di Kazan, a conflitto ancora in corso. Ma al cessate il fuoco vero e proprio si è giunti solo al termine di un colloquio privato tra i due uomini, al quale hanno preso parte anche i ministri degli Esteri e i rappresentati delle forze armate. L’accordo non si è limitato a sancire il ritiro del personale militare verso le proprie basi permanenti, ma ha voluto includere anche un’azione più lungimirante. L’obiettivo è quello di adottare misure per evitare un’ulteriore escalation delle tensioni grazie a un gruppo di lavoro che coinvolga funzionari militari e membri dei rami esecutivi dei due Paesi, con il fine ultimo di creare le condizioni per un proficuo processo di negoziazione, come appare scritto nel documento. L’iniziativa dei governi è perfettamente in linea con il desiderio dei due piccoli Paesi centrasiatici di mantenere una relazione pacifica che possa, in ultima istanza, conciliarsi con quelli che sono obiettivi prioritari comuni. Alle due economie più fragili della regione infatti conviene, piuttosto che farsi la guerra per pochi kilometri di terra, allinearsi in una prospettiva di cooperazione regionale.
Un equilibrio instabile
Nonostante il cessate il fuoco abbia calmato le acque e ristabilito lo status quo, rimane il fatto che la zona teatro degli scontri presenta alcune evidenti criticità. Le problematiche che derivano da questa situazione sono molteplici. Cambiare i confini comporterebbe uno spostamento di popolazioni da una parte all’altra, con conseguente sradicamento generazionale. Inoltre, si verrebbero a creare dispute per il possedimento dei terreni da coltivazione, estremamente rari e limitati alle vallate dove le risorse idriche arrivano. La mancanza di un’equa distribuzione delle suddette risorse è, a questo proposito, un punto fondamentale. Ad oggi la probabilità di futuri scontri rimane quindi molto alta, data non solo la conformazione frontaliera delle repubbliche, ma anche le rimostranze di lunga data tra i due vicini in una costante competizione per l’accesso a risorse limitate come quelle idriche, le quali sono estremamente necessarie per il funzionamento della principale attività economica dell’area: l’agricoltura.
Lorenzo Travelli