Attacco alla Casa Bianca
É possibile inquadrare la crisi costituzionale del 1993 nel turbinoso processo di dissoluzione dell’Unione Sovietica. Uno stallo armato durato una settimana fra i sostenitori del Presidente russo Boris El’cin, principale timoniere del processo di transizione russo dal comunismo, e il parlamento del Congresso dei Deputati del popolo con l’appoggio di fazioni radicali, comunisti massimalisti e avversari della linea economica del presidente. A differenze del Putsch di Agosto 1991 (il tentato colpo di Stato organizzato da parte di alcuni membri del governo sovieticoper deporre Michail Gorbačëve prendere il potere) questa crisi portò ad aspri scontri armati fra l’esercito e le forze speciali nonché a disordini in tutto il Paese che provocarono più di 200 morti (alcune fonti non governative innalzerebbero la cifra a quasi un migliaio).
La vittoria delle forze leali al presidente consolidò il potere di quest’ultimo e mise un’ipoteca sulle speranze di restaurazione del dominio sovietico portando allo scioglimento del Soviet Supremo e del Congresso del popolo. Iconica l’immagine della Casa Bianca (la sede del Governo russo) in fiamme, la quale esplicita lo stato di disordine della politica e della società russa in via di radicale trasformazione oltre che il consolidamento dello Stato nazione schiacciato fra sovietica memoria e inquieto futuro nel sistema internazionale. Il ricordo di tali giorni continua a dividere l’opinione pubblica russa spesso poco interessata al suo passato. Se una maggioranza si dimostrò (e continua tutt’oggi) favorevole all’atto di forza del Presidente con il fine di eliminare gli ultimi baluardi di resistenza ancorati al passato, pur condannandone l’estrema violenza, una minoranza (anziani nostalgici dei soviet e giovani esponenti del dinamico partito comunista) si scaglia contro l’incostituzionalità dell’atto antidemocratico arrivando talvolta a indovinare la longa manus delle potenze capitaliste interessate alla rovina economica e al disordine politico russo per dovere geopolitico.
Ma quali furono i motivi di tale aspro confronto e cosa contribuì a radicalizzare la tensione (invero già abbastanza alta) fra le frange opposte delle élites politiche russe e perché il 1993 è stato un anno importante per la storia russa? Motivazioni di carattere economico e ideologico in primis, ma non devono essere sottovalutate le tensioni presenti nel giovane Governo e all’interno della società russa in ricomposizione.
Boris El’cin, seppur biasimato per alcuni suoi comportamenti sui generis, in patria è tuttora conosciuto per il suo carisma e coraggio politico. Fu lui che si incaricò, all’indomani della drammatica fine dell’esperimento sovietico, di trasformare l’economia russa virando verso un tiepido capitalismo. Decenni di immobilismo e malversazioni avevano gravemente colpito la struttura statale e la popolazione stessa. Il Paese viveva i drammi di un’angosciosa e irreversibile recessione: aspettative di vita ridotte, depressione demografica, incontrollato aumento del crimine e del consumo di alcolici e droghe, penuria di generi alimentari sommati a disordini etnici e tentativi di secessione di repubbliche e oblast erano alcuni dei segnali del malessere della società, frastornata da uno shock profondo e in crisi di identità. Le manovre economiche promosse dal Presidente e dai suoi fedelissimi, inoltre, si caratterizzarono per un’ulteriore stretta sugli stipendi e l’erogazione di servizi sociali, con conseguenti richieste pressanti di sacrifici intollerabili quando già si palesava l’emergere progressivo delle spoliazioni oligarchiche dei complessi statali industriali, unici proprietari delle enormi risorse naturali. L’economia di mercato, nuovo vangelo viepiù sconosciuto alle masse popolari, doveva procedere inesorabilmente anche a costo di indebolire il tessuto connettivo di solidarietà nazionali e arricchendo i fedelissimi della nomenclatura al potere.
Resistenze profonde, dissensi sociali e intellettuali infiammarono la situazione ma fu dal Parlamento che sopraggiunse la più fiera e battagliera delle opposizioni. Di fronte alla richiesta di un referendum sul percorso economico della Nazione, la concessione di maggiori poteri alla figura presidenziale e la promulgazione di una nuova costituzione, la contrapposizione si radicalizzò e si formarono due correnti distinte e diametralmente opposte: i fautori della terapia shock propugnata da El’cin e chi proponeva una transizione morbida e indolore (o persino una retromarcia verso il passato) fra cui emerse la leadership di Aleksandr Vladimirovič Ruckoj, ex alleato del vulcanico El’cin nei burrascosi periodi della presidenza Gorbačëv. Il Parlamento, sempre più polarizzato, e il Presidente si scontrarono nel corso di varie sedute congressuali con boicottaggi, decreti e colpi bassi ma non lesinando gli atti di violenza partigiani all’interno e all’esterno dell’edifico. Boris El’cin, di fronte a un evidente boicottaggio politico, iniziò a far leva sul sostegno attivo della popolazione chiedendo a gran voce al popolo russo manifestazioni di supporto contro “i metodi mafiosi di esponenti politici del defunto sistema comunista che sfruttavano le aule del potere al fine di indebolire la nazione”.
La vittoria presidenziale del referendum legittimò la sua azione politica aumentando il suo raggio di azione e i suoi poteri ma l’indisponibilità a cedere dell’opposizione (un Governo semiparallelo era stato intanto formato e aveva intrapreso un’irreversibile parabola legiferando, nominando funzionari e privando del potere personalità avverse) nonché le pressanti richieste di esponenti delle forze armate e della società civile di porre fine al pericoloso stallo, radicalizzarono le parti fino a un fatale scontro armato.
L’infiammato discorso di El’cin, in cui annunciò (travalicando la costituzione) la fine del Soviet supremo, licenziò i deputati e ne dichiarò decaduti i ruoli convocando al contempo le elezioni per la Duma (il nuovo Parlamento), spinse i dissidenti a una scelta radicale: asserragliarsi nel palazzo votando la fine del mandato presidenziale (sperando che un atto di forza imprevisto spaventasse l’entourage presidenziale forzandolo a una trattativa) e chiedendo a gran voce sostegno popolare fra oppositori delle riforme neoliberali del Presidente, paramilitari, nostalgici e settori deviati dei servizi segreti e dell’esercito. Mosca ripiombò nuovamente nell’anarchia e nel disordine evocando le nefaste giornate dell’ invasione nazista quando nelle strade comparvero le prime barricate e posti di blocco, formazioni militari spontanee si posero a sostegno di questa o quella parte (svariate centinaia di individui armati presero posizione in postazioni strategiche nelle stanze parlamentari) e divisioni corazzate dell’esercito marciarono sui vialoni della capitale russa diretti verso il bianco edificio simbolo della controversia: la Casa Bianca. Gli spettri di una guerra civile con conseguente resa dei conti fra le due anime della nazione sembrava allora non molto lontana.Gli sporadici e disordinati tentativi dei filo-parlamentaristi di prendere il controllo di tv e mezzi di formazione, si infransero con la reazione delle forze armate governative (Divisione Tamar, Vymper, gruppo Alpha) e a nulla valsero i cruenti scontri in quanto la morsa dei presidenzialisti si strinse intorno all’edificio isolandolo completamente da ogni contatto o servizio esterno.
Il 4 ottobre 1993, preludio finale, carri armati e pezzi di artiglieria fecero fuoco sui piani sopraelevati dell’edificio mentre truppe scelte penetrarono all’interno di esso neutralizzando e arrestando i dissidenti. Boris El’cin ancora una volta come nel 1991 pronunciò un discorso di fuoco contro i congiurati accusandoli di pesanti crimini contro la Nazione e giustificando il drastico provvedimento: una decisione obbligata per stroncare alla radice una pericolosa deriva di anarchia e caos. Ancora una volta la Russia sprofondava nella violenza fra fazioni e le immagini degli scontri che provocarono decine di morti comparvero sui media internazionali voraci di notizie e reportage dal misconosciuto pianeta post sovietico. Se molto si è discusso sull’appoggio in extremis delle forze armate (in cui non pochi erano i sostenitori parlamentaristi) non vi sono dubbi sulle conseguenze e sulle variazioni dei rapporti di forza in seguito alla crisi costituzionale. Boris El’cin eliminò la residua e variegata opposizione alle sue politiche economiche e di rafforzamento del potere presidenziale riuscendo a trasformare, seppur al prezzo di enormi sacrifici, la Russia in un’economia di mercato senza riuscire però a combattere lo strapotere degli oligarchi, la corruzione, la disparità sociale e le istanze separatiste e autonomiste di regioni periferiche (la prima guerra di Cecenia sarebbe scoppiata l’anno successivo).
La crisi e la spirale di violenza spaccarono l’opinione pubblica e le elezioni si risolsero con una sorprendente sconfitta del presidente e dei suoi seguaci. Il partito comunista e i liberali nazionalisti di Vladimir Žirinovskij (figura tutt’ora al centro della scena politica russa e sfidante di Putin alle ultime elezioni) emersero come seria alternativa alla spregiudicata e unidirezionale dottrina El’cin, attirando i voti di sempre più ampie fasce di popolazione lasciate ai margine dell’incompleto miracolo economico come di chi non riuscì mai ad abituarsi ad una Russia in così rapida e traumatica trasformazione. Boris El’cin rimase al timone dello Stato fino al 1999 quando, prostrato nella salute e dai tanti fallimenti, nonché dalle speranze illuse, dovette cedere il timone a un fino ad allora misconosciuto Vladimir Putin.