Il disimpegno USA dal teatro afgano potrebbe destabilizzare l’intera Asia Centrale. Ciò non può che preoccupare Mosca, vista la prossimità geografica ed i rapporti che la legano ai Paesi della regione. Soltanto grazie ad un maggiore controllo dei confini e ad uno sforzo diplomatico volto a porre fine alle questioni interne all’Afghanistan sarà possibile, per il Cremlino, ridimensionare la minaccia incombente.
A quasi vent’anni esatti dagli attentati dell’11 settembre 2001, e contestualmente all’inizio delle operazioni militari statunitensi in Afghanistan, il governo di Washington sta per concludere definitivamente il ritiro del proprio contingente armato dal Paese. Tale dinamica si inserisce perfettamente nel solco tracciato dalle amministrazioni USA precedenti a quella di Joe Biden, attualmente nel primo anno della propria presidenza, ed in generale è assolutamente coerente con la tendenza che ormai da diversi anni può essere riscontrata nella politica estera americana. Si tratta del disimpegno dagli scenari mediorientali, avviato già da Barak Obama, che si trovò alle prese con un conflitto impopolare quale quello iracheno (e, per l’appunto, con la guerra afghana) nel periodo in cui la finanza mondiale attraversava il momento più buio nella sua storia recente. Obama, dopotutto, aveva fatto dell’opposizione alla guerra contro Saddam Hussein e della necessità di disimpegnarsi da Baghdad e Kabul uno dei suoi cavalli di battaglia per vincere le elezioni del 2008, in cui era considerato, almeno inizialmente, un outsider. Egli tracciò il sentiero, ma il suo successore, Donald Trump, seppur politicamente agli antipodi, non mancò di seguirlo con passo deciso, ponendo al centro della propria agenda il ritiro dei militari americani dall’Afghanistan. Negoziato durante gli estenuanti colloqui di Doha con i leader Talebani, suddetto ritiro potrebbe creare non pochi grattacapi al governo di Mosca, che osserva con molta attenzione gli sviluppi in corso nel Paese.
D’altronde, il territorio sotto la giurisdizione di Kabul confina con diversi Stati che rientrano appieno nell’orbita del Cremlino, e che con la Russia hanno diversi accordi volti a facilitare il transito di merci e, soprattutto persone. Si parla, in questo caso, delle nazioni dell’Asia Centrale, ed in particolare di Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan. Il rapido, seppur graduale, ritiro delle forze armate statunitensi ha dato nuovo vigore ai guerriglieri Talebani, che non hanno tardato ad insidiare il governo internazionalmente riconosciuto di Kabul. Se i primi sono riusciti ad ottenere in breve tempo il controllo di oltre un terzo del Paese, le autorità appoggiate dalla comunità internazionale non sono sembrate in grado di contrastare efficacemente l’avanzata dei ribelli.
Questo non può che creare diversi problemi per quanto concerne la stabilità della regione centroasiatica, la quale occupa una posizione strategicamente rilevante per la sicurezza nazionale della Federazione Russa ed anche per il mantenimento dell’agognato status di grande potenza mondiale. Il prevedibile flusso di rifugiati che cercheranno di entrare nei Paesi che confinano con l’Afghanistan potrebbe rappresentare una minaccia di non poco conto, non soltanto in termini di accoglienza e destabilizzazione demografica di coloro che dovrebbero ospitarli. Da più parti si è paventata la possibilità che tra i profughi in questione potrebbero facilmente infiltrarsi i fondamentalisti islamici dell’ ISIS, che seppur sconfitto in Siria ed in Iraq, non ha interrotto le proprie criminose attività in Afghanistan. Chiaramente non si tratta dell’unica organizzazione terroristica presente nel Paese, considerando il radicalismo religioso ivi piuttosto diffuso.
Tale minaccia diviene ancor più temibile se si considerano due fattori rilevanti. Da un lato, nella regione centroasiatica i confini risultano decisamente porosi ed il loro attraversamento clandestino non è una missione impossibile. Dall’altro, le popolazioni dei diversi Stati territorialmente prossimi all’Afghanistan si sono dimostrate permeabili al radicalismo islamico, così come lo è la stessa Russia. L’arrivo di fondamentalisti religiosi potrebbe aumentare sensibilmente i pericoli per la sicurezza nazionale dei Paesi coinvolti. In aggiunta, l’Afghanistan risulta il primo produttore di oppiacei a livello globale, i quali poi vengono esportati in tutto il mondo proprio attraverso gli Stati dell’Asia Centrale, trovando nella Federazione Russa il primo mercato veramente importante. Senza soffermarci sui gravissimi danni sociali provocati dagli stupefacenti, è utile ricordare come le stesse organizzazioni terroristiche riescano a finanziare le proprie attività proprio grazie ai proventi del narcotraffico internazionale, rendendo maggiormente urgente e imperativo un miglior controllo dei confini con l’Afghanistan. È bene notare come i Talebani abbiano fornito rassicurazioni in merito all’intenzione di non procedere con l’esportazione della propria ideologia “rivoluzionaria” all’esterno del Paese ed è assai probabile che, qualora riuscissero a prendere il potere a Kabul, potrebbero avviare una politica di contrasto alla produzione di oppiacei, ma ciò rimane, al momento, soltanto un’ipotesi.
Ecco che allora, per la Federazione Russa, esistono diverse strade da percorrere per poter ridimensionare le sfide che la completa destabilizzazione dell’Afghanistan dovuta al graduale ritiro del contingente militare statunitense ha generato. Da un lato, Mosca dovrebbe lavorare, insieme agli altri attori rilevanti nel contesto regionale dell’Asia Centrale, per aumentare la sicurezza dei confini dei Paesi che condividono una frontiera con l’Afghanistan. Dall’altro, il Cremlino dovrebbe fare affidamento sugli strumenti diplomatici a propria disposizione.
Per quanto concerne il primo punto, è piuttosto evidente come assuma una certa rilevanza la Collective Security Treaty Organization (CSTO). L’alleanza di stampo prettamente militare comprende numerosi Paesi dello spazio post-sovietico, ma al momento attuale non ha avuto un ruolo particolarmente rilevante nel garantire la sicurezza regionale. La CSTO si è infatti occupata essenzialmente dell’organizzazione di esercitazioni militari e di summit ai quali partecipavano le autorità dei diversi membri. Persino nel corso del recente conflitto tra Armenia ed Azerbaijan per il controllo sul territorio conteso del Nagorno-Karabakh, nonostante Erevan avesse pensato di invocare l’articolo 4 che prevede l’intervento dei Paesi membri dell’organizzazione dalla parte dello Stato che ha subito un attacco militare, la CSTO è rimasta una mera spettatrice. Ciò ha portato la stessa Armenia, uno dei principali e più entusiasti sostenitori di tale consesso internazionale, a dubitare della sua reale utilità.
Gli avvenimenti in corso in Afghanistan potrebbero senza dubbio rivitalizzare l’organizzazione, consentendole di occupare un ruolo fondamentale nel garantire la sicurezza dei confini dei Paesi territorialmente adiacenti al calderone afgano. Obiettivamente, la coordinazione che potrebbe scaturire dalla condivisione delle informazioni facilitata dai meccanismi della CSTO potrebbe risultare inestimabile. A livello militare, è piuttosto difficile immaginare che la Russia oppure il Tagikistan, l’Uzbekistan e il Turkmenistan decidano di intervenire in Afghanistan, ma è certo che aumenterà ulteriormente l’ammontare di forze dislocate nei pressi delle frontiere. Per quanto riguarda Dushanbe, la mobilitazione è già cominciata e non bisogna dimenticare che nel Paese è presente anche un contingente russo pronto a coadiuvare le forze armate tagiche. A tal proposito è decisamente interessante osservare le dinamiche legate alla possibilità che gli Stati Uniti aprano una base militare in Asia Centrale al fine di continuare a monitorare gli sviluppi in corso a Kabul, contribuendo alla sicurezza regionale.
Suddetta evenienza appare abbastanza complicata, considerando che, almeno in linea teorica, né la Russia, né la Cina e nemmeno le nazioni centroasiatiche sembrerebbero interessate a questa eventualità. Per quanto riguarda Tagikistan e Kirghizistan, la dipendenza economica da Mosca e Pechino rende i vantaggi di una presenza militare americana decisamente inferiori rispetto agli svantaggi, mentre il fatto che la popolazione dell’Uzbekistan si sia ribellata all’eventualità dell’apertura di una base russa rende ragionevole pensare che un’installazione USA possa generare proteste ancora più vibranti. La Cina, dal canto suo, è timorosa delle interferenze americane sulla propria politica interna, nel caso in cui Washington fosse militarmente presente in Asia Centrale. Le paure di Pechino sono legate in massima parte alla situazione nel distretto dello Xinjiang, che potrebbe essere destabilizzato, creando non pochi grattacapi per le autorità. Il posizionamento della Federazione Russa in merito all’apertura di un’installazione bellica USA nella regione è invece più complesso di quello che si pensi. Il recente inasprimento delle relazioni con Washington, che ha portato i due Paesi ad assumere una postura apertamente e reciprocamente antagonista, renderebbe logico pensare che il Cremlino sia totalmente contrario ad una presenza militare americana in una regione strategicamente così rilevante. Eppure, secondo le indiscrezioni riportate dal Kommersant, durante l’incontro di Ginevra tra Putin e Biden, il Presidente russo avrebbe proposto alla propria controparte di utilizzare le basi militari delle forze armate della Federazione come appoggio per le attività di intelligence e monitoraggio della situazione afgana. Tale iniziativa sembrerebbe però essere stata accolta tiepidamente alla Casa Bianca.
Per quanto concerne, invece, gli strumenti diplomatici posseduti dal Cremlino, è fondamentale sottolineare il fatto che le autorità russe possano vantare relazioni non ostili con i Talebani, nonostante l’appoggio nominale al legittimo governo di Kabul. Quest’ultimo, però, sembrerebbe aver adottato, ed è logico che sia così, un atteggiamento decisamente filo-americano che negli ultimi anni ha portato ad un leggero raffreddamento delle relazioni con Mosca. A livello diplomatico, però, l’attore veramente fondamentale per il contenimento della minaccia talebana risulta essere il Pakistan. Islamabad ha fornito per lungo tempo rifugio e sostegno ai fondamentalisti islamici attivi in Afghanistan. Considerati gli stretti rapporti con Pechino e l’arsenale nucleare del Paese, Mosca deve muoversi il più cautamente possibile, ma non può assolutamente esimersi dal dialogo con le autorità pakistane per contenere la minaccia afgana. Nel fare ciò, la Shanghai Cooperation Organization, della quale sia la Russia che Islamabad sono parte, viene in aiuto del Cremlino. Proprio in tale consesso, all’interno del quale Kabul riveste il ruolo di osservatore, è stato aperto un tavolo di discussione avente l’obiettivo di raggiungere una soluzione condivisa rispetto alla situazione afgana. Non si tratta, per giunta, di un’iniziativa isolata, considerando che sono diversi i forum promossi dai Paesi dell’Asia Centrale per porre fine alla minaccia proveniente dall’Afghanistan.
Dopo vent’anni, il completo ritiro del contingente militare americano dal territorio sotto la giurisdizione di Kabul potrebbe rappresentare un grave pericolo per la stabilità dell’intera regione. Soltanto tramite la collaborazione da parte di tutti gli attori rilevanti, Stati Uniti, Cina, India e Pakistan compresi, la sfida rappresentata dall’Afghanistan può essere affrontata. Per la Federazione Russa si tratta di un imperativo irrinunciabile, considerando le implicazioni che la destabilizzazione di Kabul potrebbe avere sulla propria sicurezza nazionale. Mosca ne è perfettamente consapevole, ma la strada che deve percorrere è ricca di ostacoli. Per evitare un coinvolgimento militare, al momento attuale assolutamente impensabile, e per raggiungere risultati apprezzabili sarà necessaria tutta l’abilità della diplomazia russa.