Il lungo percorso di riforme avviato da Gorbačëv scatenò giocoforza la reazione di coloro che avrebbero preferito mantenere lo status quo. In discesa libera verso la dissoluzione del Paese, alcuni uomini tentarono il tutto per tutto con un colpo di Stato che, fallendo, accelerò i cambiamenti in corso.
Alle ore 16.32 del 18 agosto del 1991, la dacia nella quale l’allora Presidente dell’URSS Mikhail Gorbačëv si trovava in villeggiatura fu completamente isolata, rendendo impossibile ogni comunicazione al leader dello Stato sovietico. Egli si rese ben presto conto che quanto stava accadendo era un tentativo di putsch attraverso il quale alcuni dei suoi più stretti collaboratori miravano ad esautorarlo. D’altronde, quello che fu a tutti gli effetti un colpo di Stato fu organizzato da otto membri dell’élite al governo, timorosi che il testo del nuovo Trattato sull’Unione, presentato soltanto pochi giorni prima e che avrebbe regolamentato i rapporti tra le diverse repubbliche che componevano l’URSS, avrebbe posto fine, in maniera definitiva, allo Stato sovietico.
A dirigere le fila della delicata operazione vi erano, come detto, otto uomini: Genndij Janaev, Vicepresidente dell’URSS, Valentin Pavlov, Primo Ministro, Vladimir Kriučkhov, direttore del KGB, Dmitrij Jazov, Ministro della Difesa, Boris Pugo, Ministro dell’Interno, Oleg Baklanov, membro del Consiglio della Difesa, Vasilij Starodubtsev, Presidente dell’Unione dei Contadini ed Aleksandr Tizjakov, Presidente dell’Associazione delle Imprese di Stato, dell’Industria, dei Trasporti e delle Comunicazioni. Nonostante Janaev avesse firmato il decreto che assegnava alla sua persona i poteri del Presidente dell’URSS, affermando che Gorbačëv fosse ammalato e pertanto impedito nello svolgere le proprie funzioni, apparve chiaro dalle indagini svolte successivamente che il principale stratega alla base del putsch fosse in realtà Kriučkhov. Ad ogni modo, tra i nomi di coloro che tentarono di forzare la mano a Gorbačëv, poi membri dell’autoproclamato Comitato Statale per lo Stato di Emergenza (SCSE), ve n’erano alcuni davvero sorprendenti.
Kriučkhov, ad esempio, era stato nominato direttore del KGB proprio dal Presidente dell’URSS nell’ottobre del 1988. La notizia era stata accolta piuttosto tiepidamente dai sostenitori del corso riformista intrapreso dal Cremlino, in quanto egli aveva lavorato all’interno della famigerata organizzazione per oltre vent’anni e la scelta di Gorbačëv non aveva rispettato le aspettative di coloro che avrebbero preferito un outsider. In realtà, tale decisione non fu che una dimostrazione dell’intenzione del governo russo di cambiare rotta rispetto al passato, considerato che Kriučkhov si era occupato dello spionaggio esterno, non avendo mai preso parte alle campagne di repressione del dissenso entro i confini dell’URSS. All’epoca si poteva cominciare ad immaginare una ristrutturazione dell’intero KGB che lo rendesse un organo per la raccolta di informazioni sensibili all’estero piuttosto che per il controllo del popolo sovietico. Janaev, dal canto suo, era considerato un uomo di Gorbačëv. Al momento della sua nomina alla Vicepresidenza, il Congresso dei Deputati del Popolo non aveva mostrato particolare simpatia per il candidato, richiedendo persino al Cremlino di rivedere la propria decisione. Questo perché Janaev non era considerato l’uomo giusto per proseguire sulla strada delle riforme ma Gorbačëv, che aveva messo sul piatto tutto il proprio peso politico per ottenerne la nomina, affermò che in un momento così delicato, quale quello che stava attraversando il Paese, egli avrebbe avuto estremo bisogno di uomini dei quali potersi fidare ciecamente.
Evidentemente, il Cremlino aveva commesso qualche errore di valutazione. Lo scopo del Comitato Statale per lo Stato d’Emergenza, infatti, era precisamente quello di porre un freno al corso riformista intrapreso dal governo. Gli uomini che ne facevano parte erano ben consapevoli dell’impossibilità di tornare indietro rispetto a quello che era già stato fatto, ma paventavano il pericolo della dissoluzione dello Stato, qualora Gorbačëv avesse proseguito con decisione lungo la strada che aveva intrapreso. Eppure, grazie all’intervento dei democratici guidati dal Presidente della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa (RSFSR), Boris El’tsin, che scesero nelle piazze nonostante i pattugliamenti dei militari delle divisioni Tamanskaja e Kantemirovskaja, giunte a Mosca per ordine dell’SCSE, il colpo di Stato fallì. Esistono differenti interpretazioni in grado di fornire una spiegazione di tale insuccesso, ma ciò che appare evidente sono gli errori grossolani commessi dal Comitato in fase preparatoria.
Se la reazione della popolazione russa fu del tutto inattesa, a causa dell’immobilismo sociale determinato dai lunghi anni di repressione, fu decisamente avventato non tenere conto degli umori dell’opinione pubblica, ormai ansiosa di proseguire sulla strada della democratizzazione. In realtà, però, il quadro era maggiormente complesso, a giudicare dai risultati dei sondaggi condotti all’epoca. In base a quanto riporta Richard Sakwa, infatti, furono 150.000 i civili che si schierarono a difesa della Casa Bianca, ovvero la sede del Soviet Supremo dell’URSS, mentre altre 200.000 persone scesero nelle strade di San Pietroburgo. Secondo i sondaggi, una quota pari a circa la metà della popolazione riteneva il colpo di Stato illegale, mentre il 25% di essa sosteneva l’operato dell’SCSE. Del resto, all’epoca, sebbene l’85% degli intervistati si fosse detto favorevole all’economia di mercato, soltanto una quota pari ad un terzo dell’opinione pubblica preferiva la democrazia rispetto all’ordine. Inoltre vi erano importanti differenze regionali rispetto al putsch. Se a Mosca esso era inviso al 73% degli abitati ed a Erevan al 94%, a Voronezh soltanto il 49% della popolazione si opponeva al colpo di Stato. Era dunque evidente che il Comitato non godesse di un appoggio diffuso a livello popolare.
A ciò bisogna aggiungere il mancato arresto di El’tsin, che sarebbe stato fondamentale per aumentare le possibilità di successo dell’intera operazione. Ciò fu probabilmente determinato dalla paradossale ossessione del Comitato Statale per lo Stato d’Emergenza per la legalità. Si tratta di un paradosso in quanto l’SCSE si appellò costantemente alla Costituzione ed ai codici sovietici per giustificare le proprie azioni eppure, trattandosi di un colpo di Stato, esso venne portato avanti tramite il sovvertimento delle regole, non certo grazie al loro rispetto. E fu proprio El’tsin, una volta compreso come volgere la situazione a proprio vantaggio, ad agire con grande risolutezza, senza badare al dettato costituzionale ed all’impianto normativo in vigore (che visto quanto stava avvenendo a Mosca non possedeva più grande significato).
Inoltre, la scarsa determinazione dei golpisti è dimostrata anche dal mancato ricorso alla forza, visto che nonostante l’appoggio di alcuni generali, tra i quali spiccava il nome di Valentin Varennikov, e del direttore del KGB, gli organi per la sicurezza dello Stato non intervennero tempestivamente consentendo ai democratici di El’tsin di porre fine al putsch. D’altronde, non era chiara la posizione dei militari, considerando che alcune delle unità della divisione Tamanskaja passarono dalla parte degli oppositori (è famosa l’immagine di El’tsin che arringa la folla issandosi su un mezzo corazzato). Visto però il ridimensionamento delle forze armate voluto da Gorbačëv, che non si limitò a ridurre il numero degli effettivi e quello delle testate nucleari ma anche le risorse destinate al comparto della Difesa, sembrava logico immaginare ampio supporto da parte dell’Armata Rossa ma tale eventualità non si concretizzò.
Discorso simile anche per quanto riguarda la nomenklatura sovietica. La perestrojka aveva contribuito a portare alla luce le divisioni interne all’apparato burocratico dell’URSS e non tutti i suoi membri erano contrari al corso riformista intrapreso da Gorbačëv. Per questo il golpe fu appoggiato dalle organizzazioni che si sentivano maggiormente minacciate dal cambiamento. Eppure divenne immediatamente evidente che la sfiducia nei confronti dei leader di tali istituzioni era ormai talmente radicata che nemmeno i membri del loro stesso entourage parevano disposti a seguirli. Ciò non poteva che complicare seriamente l’operato dell’SCSE. Del resto, sebbene i golpisti non avessero fatto i soliti riferimenti all’impianto ideologico marxista-leninista, concentrandosi piuttosto sul mantenimento dell’unità dello Stato che sul ruolo del PCUS, fu proprio quest’ultimo a fornire ampio supporto, almeno a livello di élite, al putsch. Il 70,5% dei dirigenti di tutte e 73 le entità territoriali sovietiche si disse favorevole a quanto stava accadendo a Mosca, schierandosi contro Gorbačëv. Gli altri assunsero un atteggiamento attendista, oppure dichiararono tiepidamente la propria lealtà nei confronti del Cremlino.
Infine, è interessante notare come gli eventi dell’agosto 1991 siano stati visti anche sotto una luce leggermente diversa. Secondo alcuni analisti, infatti, in quell’anno Gorbačëv era intenzionato a dichiarare lo stato di emergenza e potrebbe aver avviato lui stesso, seppur involontariamente, il complesso susseguirsi di eventi che portarono al tentativo di esautorarlo. Preoccupato per le insofferenze delle repubbliche che componevano l’URSS e per la crescente popolarità di Boris El’tsin, egli parve inizialmente intenzionato a valutare la possibilità di dichiarare lo stato di emergenza, come proposto da alcuni membri del Governo a loro volta ansiosi di porre un freno alle riforme. D’altronde, secondo alcuni esponenti della nomenklatura, nella primavera del 1991 si parlò spesso della questione. Dopotutto, Gorbačëv aveva fortemente ampliato le attribuzione del KGB allo scopo di mantenere un controllo maggiore sul Paese, che certamente stava mutando rapidamente. E non bisogna dimenticare che fu lo stesso Gorbačëv, nel 1990, a spingere per l’approvazione della nuova legge sullo stato d’emergenza, che avrebbe garantito al Presidente la possibilità di richiedere poteri più ampi. La sua titubanza potrebbe aver innescato la decisione dei golpisti di procedere alla sua esautorazione.
Gli avvenimenti dell’agosto del 1991 furono decisamente importanti per la storia della Russia. Il tentato putsch dell’SCSE raggiunse un risultato davvero rilevante. Paradossalmente, però, si trattò esattamente dell’opposto rispetto a quello che i membri del Comitato, ed i loro sostenitori, volevano ottenere. La reazione popolare al tentato colpo di Stato dimostrò al mondo intero, ed al PCUS soprattutto, che l’opinione pubblica sovietica non era più inerme. Il corso riformista avviato da Gorbačëv era ormai irreversibile ed il cambiamento era alle porte. Il Partito Comunista ebbe una dimostrazione tangibile di quanto fosse ormai inviso alla popolazione che, a propria volta, si accorse di poter essere artefice del proprio destino. Nato con l’intento di rallentare le riforme e mantenere unita l’URSS, il colpo di Stato dell’agosto 1991 non fece che accelerare il processo dissolutivo, che si concluse in capo a pochi mesi con l’implosione del Paese, la nascita di 15 nuove nazioni e la fine dell’esperienza marxista-leninista in Russia.
BIBLIOGRAFIA
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