La crisi afghana è stata rapida e, per certi versi, dirimente. In pochissimi mesi sono stati spazzati via vent’anni di occupazione occidentale e le lancette sono tornate come per magia ai primi anni Duemila. Ad oggi le maggiori potenze asiatiche hanno preso contatto con i Talebani per assicurare gli interessi nella regione, e così hanno fatto i Paesi confinanti con la “tomba degli imperi”. Permane, tuttavia, una resistenza alla normalizzazione delle relazioni con il neonato Stato afghano da parte di un piccolo quanto importante vicino: il Tagikistan.
Nuovo Afghanistan, vecchie divisioni
L’Afghanistan è uno Stato plurietnico. Questa sua condizione peculiare ne influenza la geopolitica e lo rende particolarmente permeabile alle dinamiche esterne ai suoi confini, riverberandosi al proprio interno grazie al continuum etnico. L’elemento pashtun, leggermente dominante, per molti versi è servito ad avvicinare Kabul al Pakistan, sebbene a differenza del Pakistan, dove il controllo è saldamente nelle mani di Islamabad, in Afghanistan la situazione sia molto più frammentata.
Il secondo gruppo etnico del Paese è quello dei tagiki, che secondo alcune stime potrebbe addirittura superare il 30% della popolazione totale, portandosi vicino ai 10 milioni di persone. La particolarità sta nel fatto che il Tagikistan è un’entità nata già in seno all’Unione Sovietica per tutelare la popolazione di etnia tagica, a differenza del Pakistan, dove l’elemento pashtun è minoritario. Sebbene inizialmente aggregato all’Uzbekistan, infatti, il Tagikistan è stato creato nella prima metà del Novecento per dare voce alle tribù persiane che non si sentivano rappresentate da una repubblica turcofona. È evidente, dunque, che Dušanbe si senta investita da un ruolo di tutela delle popolazioni tagike anche e soprattutto nei confronti del vicino Afghanistan.
Dušanbe non ci sta
Dopo aver preso il potere, i Talebani si sono mossi su due direttrici: l’invasione del Panjshir per assoggettarlo al nuovo potere e la formazione di un governo per dare una parvenza di istituzionalità al nuovo regime imposto. Sebbene possano apparire due questioni scollegate, hanno entrambe una grande rilevanza per comprendere gli sviluppi della vita politica afghana dell’ultimo mese. Nel Panjshir la resistenza è stata guidata da popolazioni etnicamente tagike, che già durante il primo governo dei Talebani, a cavallo del nuovo millennio, avevano dato del filo da torcere a Kabul e oggi sono state definitivamente sconfitte sul campo. L’odio etnico tra le popolazioni afghane è una caratteristica che ne connota la storia, ma questa volta è servito per estromettere completamente le minoranze dal potere e concentrare la gestione del Paese nelle mani di una sola etnia: quella pashtun, appunto.
Il Tagikistan non è rimasto a guardare di fronte al corso degli eventi nel vicino meridionale. Se nelle prime settimane ha offerto rifugio ai militari regolari afghani in fuga dai Talebani, nella seconda fase della crisi ha fornito supporto diretto e indiretto ai ribelli tagiki del Panjshir. Il presidente del Tagikistan, Emomali Rahmon, a differenza di tutti i suoi omologhi nella regione era in carica già durante il primo regime dei Talebani. Ciò gli ha consentito di leggere gli eventi con maggiore attenzione rispetto agli altri leader regionali, giocando sapientemente le proprie carte. Secondo il presidente tagiko la regione risentirà negativamente del caos che avviene nella sua periferia meridionale, lanciando un messaggio indiretto a tutte le potenze con interessi nell’area.
Cosa preoccupa il Tagikistan
Innanzitutto, Dušanbe ha assunto una postura rigida nei confronti dell’ascesa del fondamentalismo islamico in uno Stato confinante. Un atteggiamento derivante dalla fragilità relativa del Tagikistan, che contro gli islamisti ha dovuto combattere cinque anni di guerra civile e solo negli ultimi anni ha dovuto fare i conti con l’Islamic Renaissance Party. Le divisioni tra nord e sud e tra gruppi etnici differenti, con una significativa presenza di uzbeki, lo hanno reso uno degli Stati più fragili dell’Asia centrale ex sovietica. Pertanto, la presa di Rahmon sulla società serve a impedire spinte centrifughe e infiltrazioni terroristiche dall’Afghanistan.
Altro elemento saliente è il rischio derivante dal traffico di stupefacenti. I Talebani hanno spesso usato quest’ultimo per fare leva su altri Stati, un’evenienza che la regione centro-asiatica vuole evitare. Uzbekistan, Turkmenistan e Tagikistan vogliono impedire ulteriori fuoriuscite dall’Afghanistan verso i rispettivi territori per evitare che con i profughi arrivino anche flussi di stupefacenti. La Russia e la Cina, anch’esse interessate a bloccare il traffico di droga, hanno stanziato truppe nei Paesi a nord dell’Afghanistan. Il Tagikistan riveste in questo senso un ruolo chiave: sul suo territorio, infatti, stazionano forze sia russe che cinesi, garantendogli una relativa sicurezza.
Infine, Rahmon ha duramente criticato l’esclusione delle minoranze, segnatamente quella tagika, dal nuovo governo costituitosi a Kabul. Nel suo discorso in occasione del trentesimo anniversario dell’indipendenza dall’Unione Sovietica, infatti, Rahmon ha parlato con preoccupazione della situazione afghana, evidenziando in particolare quanto la tutela delle minoranze sia un elemento centrale per la stabilizzazione del Paese. In tal senso, ha invocato un intervento della comunità internazionale per proteggerne la popolazione.
Divide et impera
Il Tagikistan ha bisogno di contenere i Talebani nei confini afghani ad ogni costo. Il Paese teme di diventare nuovamente teatro di scontro tra islamisti e governativi, con un pericolo ulteriore derivante dal traffico di stupefacenti. La perdita di controllo del territorio è l’incubo di Dušanbe, e per evitare che si concretizzi Rahmon ha deciso di giocare tutte le sue carte.
La volontà di farsi portavoce delle minoranze di fronte allo strapotere dei pashtun è un Cavallo di Troia per indebolire dall’interno il regime dei Talebani. Con una maggiore partecipazione politica delle minoranze, innanzitutto i tagiki e gli hazara, il tribalismo afghano andrebbe a esacerbare le tensioni interne. E finirebbe dunque per impantanare Kabul, privandola della capacità di incidere sui Paesi confinanti.
Con un Afghanistan ripiegato su se stesso, anche i tagiki del Paese avrebbero voce in capitolo. Dušanbe potrebbe, allora, dialogare dalla posizione di forza che le deriva dalle alleanze nelle quali è inserita e dai suoi protettori, Cina e Russia. Sia il CSTO sia la SCO, infatti, hanno guardato con preoccupazione alla vicenda afghana. Entrambe le organizzazioni hanno paventato una forte ripresa del terrorismo e del traffico di stupefacenti in Eurasia. Dall’Asia centrale la strada per lo Xinjiang e la Russia è breve, da cui deriva un’attenzione sino-russa per la stabilità delle repubbliche centro-asiatiche.
È evidente che il Tagikistan voglia capitalizzare la sua posizione di Paese chiave per influire nelle vicende afghane. Questo seppur non disponga di adeguate risorse per far valere la propria linea su uno Stato molto più grande e popoloso di sé. La leva etnica è uno strumento prezioso nelle mani di Dušanbe. Rahmon non si farà sfuggire un’occasione così ghiotta.