Nell’ottobre del 2002 il terrorismo ceceno arrivò a colpire la Russia nel suo cuore profondo. Le illusioni e l’indifferenza di milioni di russi verso il conflitto ceceno, percepito come estraneo e indifferente nel contesto di costante turbolenza del Caucaso russo, si infransero ancora una volta tragicamente nei tre giorni di stallo in cui un’intera Nazione (e il mondo di rimando) condivise speranze e dolori con le centinaia di ostaggi nelle mani di un pugno di audaci e spietati terroristi.
Il blitz terroristico, la risposta delle forze armate russe e il tragico epilogo sottolinearono la debolezza e l’impreparazione delle unità antiterrorismo di Mosca nonché il grido di dolore e fanatismo mediatico del riottoso popolo ceceno. La crisi degli ostaggi costituisce tutt’ora argomento di aspro dibattito nell’opinione pubblica russa e internazionale: la determinazione inflessibile, l’eccesso di forza spregiudicata e la cattiva gestione logistica dello stallo terrorista; l’utilizzo di un potente gas (di provenienza e genere sconosciuto) per facilitare le operazioni delle forze speciali costò la vita a 130 ostaggi in aggiunta ai 40 sequestratori. Il Governo russo ha ufficialmente aperto un’inchiesta ma continua a rifiutarsi di condannare l’utilizzo disinvolto dell’agente tossico imputando l’elevata mortalità del blitz risolutivo a problemi congeniti e cardiaci delle vittime, effetto collaterale del gas in contesti di antiterrorismo. Le famiglie delle vittime e dei feriti (tra i quali molti invalidi permanenti) continuano a perorare la causa di fronte alle istituzioni, ma poche sono state le azioni intraprese a loro favore.
La crisi costituì una delle vicende maggiormente controverse della presidenza Putin e un’arma efficace nelle mani di critici e dissidenti. Se lo stesso presidente si riferisce alla vicenda di Mosca e alla strage nella scuola di Beslan (avvenuta in Ossezia settentrionale due anni dopo, 335 vittime civili fra cui molti bambini) come “i momenti più difficili della sua presidenza”, i suoi portavoce e fedelissimi ne difendono la leadership e l’operato in un contesto di tensione e imprevedibilità. Pilastro della dottrina Putin, mai smentito nel corso dei mandati presidenziali: con il terrorismo internazionale non si tratta, neanche a costo di amare conseguenze.
I sequestratori
Separatisti, fondamentalisti, improvvisati emulatori, agenti stranieri; la stampa russa e internazionale non ha lesinato giudizi e ritratti degli artefici dell’azione armata. L’uso del terrore come strumento di proiezione mediatica di un conflitto, quello fra Russia e la ribelle entità caucasica, che soffriva di sotto esposizione mediatica è fragile preda di uno schematismo semplicista che ne misconosce le cause di azione. Se il terrorismo non ha rappresentato una novità nel contesto russo (le bombe negli edifici residenziali del 1999, gli attentati nelle metropolitane e negli aeroporti al di fuori del Caucaso) la spettacolarità dell’azione dello sparuto drappello jihadista riuscì a focalizzare l’azione del mondo in un frangente geopolitico turbolento pur con ambigui risultati. Spargere il terrore in tutto il territorio della Federazione, fra la montagne del Caucaso e il fragore delle scintillanti città della Russia europea, per rivendicare un obiettivo e coltivare un irredentismo; trattare la ritirata dell’onnipotente macchina da guerra russa scatenata da Putin sulla Cecenia dopo i fallimenti e le incongruenze di una precedente e clamorosa sconfitta patita da Boris El’cin (1994-1996). Un’interpretazione deviata della jihad islamica come utile carburante per richiamare la solidarietà dell’Umma Islamica e l’indipendenza della Cecenia come primo e indispensabile tassello per la creazione di un Emirato Islamico nel Caucaso.
Gli eventi
Il 23 ottobre nel teatro dell’area residenziale di Dubrovka una cinquantina di terroristi ceceni del Reggimento islamico di scopo speciale “al-Jihad-Fi-Sabililah”, armati di cinture esplosive, fucili d’assalto e granate, fecero irruzione nella sala gremita di spettatori di differenti nazionalità e contesti sociali. Nel corso dei tre giorni dello stallo fra le diverse forze armate russe circondanti l’edificio e gli assediati si alternarono momenti di tensione, trattative e sporadiche azione di forza. Alla scarsa capacità di negoziazione dei terroristi si contrappose una disordinata gestione della vicenda da parte dei media e del Governo.
Il leader del commando terroristico Movsar Barayev (strumento armato dell’inafferrabile generale della Jihad Shamil Basaev) si mostrò compiacente nei confronti degli ostaggi stranieri: chiunque possedesse un passaporto straniero sarebbe stato liberato in quanto la rivoluzione cecena non voleva macchiarsi di “sangue innocente”, accostando di conseguenza ogni civile russo alla forza di occupazione militare. Mentre il primo giorno i terroristi non perpetuarono violenze nei confronti degli ostaggi e arrivarono a rilasciarne, invece, un centinaio, il secondo la tensione e il nervosismo iniziarono a prendere il sopravvento.
La mediazione di importanti figure del giornalismo indipendente e della politica cecena e russa (Boris Nemcov, Anna Politkovskaja, Evgenij Primakov fra gli altri) permise la liberazione di altri ostaggi fra stranieri, donne e bambini senza però smorzare le tensioni o risolvere la crisi: i terroristi, raggiunti anche da una stazione televisiva, esigevano la fine dell’ingerenza russa nel Caucaso respingendo i compromessi e le poco credibili amnistie. Il 26 ottobre le forze speciali Spetsnaz, dell’ FSB (Alpha Group e Vympel), con l’assistenza dell’unità SOBR del Ministero degli Interni russo (MVD), iniziarono a stringere il cordone sanitario intorno al teatro, sintomo evidente di un’imminente azione armata. L’irruzione nel teatro, giustificata dall’esecuzione brutale di due ostaggi particolarmente riottosi, costituisce l’inizio dell’epilogo della tragica vicenda.
Epilogo
Alle 05.00 del mattino gli agenti della sicurezza e le forze speciali pomparono un agente chimico nel sistema di ventilazione con l’obiettivo di stordire i terroristi, impedirne l’ultima resistenza e soprattutto la detonazione delle cariche esplosive. Tutt’ora da parte del Governo si mantiene uno stretto riserbo sulla precisa identità del gas utilizzato (secondo autorevoli fonti si tratterebbe di una versione modificata del fentanyl) e le autopsie secretate non aiutano a far luce sulla vicenda. Dopo un intervallo di trenta minuti, in cui gli occupanti della sala iniziarono a soccombere alla potenza del gas, l’irruzione delle forze speciali dall’ingresso principale e dalle condotte fognarie permise di neutralizzare gli assalitori. Il resto della mattinata manifestò una situazione di confusione, panico e impreparazione: poche e mal coordinate le ambulanze e le unità di soccorso, scarse o nulle le informazioni verso i parenti in ansia delle vittime del sequestro, mentre l’ipocrisia e la trascuratezza delle autorità sulla sorte degli ostaggi provocarono tensioni e sdegno nell’opinione pubblica. Può il sacrificio di un tal numero di vite umane rappresentare un’alternativa a una possibile e dolorosa strage di massa?
L’azione dimostrativa del commando ceceno non ottenne i risultati sperati, pur diffondendo il terrore e la disillusione nei confronti del conflitto in Cecenia. La Duma di Stato approvò e applicò nuove leggi inerenti al contrasto del terrorismo, del radicalismo e del finanziamento delle cellule jihadiste. Se esagerate appaiono le speculazioni che incolperebbero il Cremlino come regista dell’azione e i terroristi come agenti dell’FSB, pochi dubbi invece sussistono sull’impennata di consenso nei confronti del Presidente, strenuo avversario del radicalismo islamico e del separatismo violento a scapito dei metodi brutali condannati dalle organizzazioni internazionali e dai dissidenti.
La Russia (ad eccezione della tragedia nella scuola di Beslan) non sarebbe stata più testimone di vicende simili nel corso degli anni, complice l’aumento dei palpabili controlli di sicurezza, l’efficienza delle forze armate e il contrasto all’insoddisfazione economica e sociale nelle Repubbliche musulmane del Sud, affascinate dal sogno di una jihad rivoluzionaria. La Cecenia odierna, feudo del controverso e fedelissimo alleato di Putin Ramzan Khadirov, è profondamente cambiata nel corso degli anni: ricostruita, abbellita e oppressa dal pugno di ferro del giovane gerarca, milionario e star dei social, resta comunque un focolaio di insoddisfazione e tensione etnica e religiosa, che rischia di tracimare nelle fragili Repubbliche confinanti. La minaccia terroristica per il Cremlino non è solamente una lacerante ferita del passato, ma rischia di trasformarsi in un futuro incerto e sanguinoso.