Negli ultimi mesi la crisi migratoria tra Bielorussia e i propri vicini europei si è accentuata al punto da sfociare in un disastro umanitario, oltre che in scontri a fuoco al confine. A fronte del quarto pacchetto di sanzioni europee approvato a giugno, Lukašenko ha scelto di sfoderare una delle armi più temute dall’intera Unione Europea: i migranti. Il braccio di ferro tra Minsk e Bruxelles continua.
Alle porte d’Europa si sta consumando una delle peggiori crisi migratorie degli ultimi anni. Ammassati al confine tra Bielorussia, Polonia, Lituania e Lettonia, i migranti che tentano la fortuna attraverso la rotta bielorussa si ritrovano doppiamente oppressi. Spesso, infatti, scappano da una guerra civile solo per raggiungere il prossimo girone dell’inferno. Lì, nella terra di nessuno, con l’irrigidimento delle temperature, si muore di ipotermia. Sette i decessi accertati finora. L’ultimo è di un giovane siriano di soli ventiquattro anni. Ma non è tutto. Diverse testimonianze riportano maltrattamenti, abusi di potere e furti. “I bielorussi ci picchiano e poi ci mandano al confine con la Polonia; poi ci prendono i polacchi, ci picchiano nuovamente e ci rimandano in Bielorussia”. Un ping pong spaventoso che sembra non avere fine.
I flussi sono in aumento ormai dallo scorso maggio. Se negli anni precedenti si contavano decine di intenzionati ad oltrepassare il confine lituano-bielorusso, dall’inizio del 2021 si registrano più di 4.200 arrivi in Lituania. Nel Paese, così come in Polonia e Lettonia, già da luglio è stato dichiarato lo stato di emergenza. Le strutture di accoglienza sono ormai sature, tanto che si è dovuto ricorrere all’utilizzo della prigione di Kybartai. In Polonia sono quasi 16.000 i tentativi di attraversamento illegale del confine da agosto ad oggi, a fronte dei 120 totali dell’anno precedente.
Ad inizio ottobre, la situazione al confine si è scaldata al punto da culminare in uno scontro a fuoco tra le guardie di frontiera bielorusse e polacche. Mentre Varsavia e Minsk si accusano a vicenda di aver scatenato una guerra ibrida, entrambi i Paesi hanno adottato nuove leggi che legittimano l’espulsione dei migranti. La Bielorussia ha addirittura vietato il rimpatrio degli stessi. Il comportamento polacco, tuttavia, non è passato inosservato. A detta di Ylva Johansson, il Commissario europeo per gli affari interni della Commissione von der Leyen, la Polonia starebbe violando sia leggi europee che internazionali. Rimane inoltre tutto da valutare il peso che avrà sulla crisi migratoria l’attuale braccio di ferro tra Polonia ed Unione Europea.
Se è vero che Varsavia e Vilnius sono le prime vittime della crisi, è altrettanto vero che si sono verificati episodi spiacevoli anche da parte loro. La Polonia ha vietato l’accesso a giornalisti ed ONG nelle proprie zone di confine, proprio mentre Frontex sta vagliando le espulsioni collettive in Lituania. Nel frattempo, entrambi i Paesi costruiscono barriere al proprio confine. La Polonia prevede di allocare circa 110 milioni di euro per la costruzione di un muro alla frontiera, mentre il budget per il 2022 della piccola repubblica baltica prevede almeno 100 milioni di euro da destinare allo stesso scopo. La stessa Lituania che aveva storto il naso a seguito della proposta di Trump di costruire un muro al confine con il Messico adesso sembra aver cambiato opinione.
È così che migliaia di migranti diventano vittime inermi di un gioco geopolitico che non è il loro o che, almeno, non dovrebbe esserlo. La stragrande maggioranza di essi, infatti, proviene da Iraq, Siria e Yemen. Il ponte aereo costruito ad hoc dal regime bielorusso ha un duplice scopo. Da una parte, si rivela un’effettiva fonte di reddito per un’economia comunque sottoposta a sanzioni. Dall’altra, Lukašenko schiera il proprio esercito non convenzionale, inondando l’Europa con una marea di individui.
La rappresaglia di Lukašenko era, tuttavia, preannunciata. Lo scorso maggio, l’uomo forte di Minsk aveva infatti dichiarato senza mezzi termini che la Bielorussia non avrebbe più fatto da scudo all’Europa. “Ci avete mosso una guerra ibrida, state portando avanti una guerra sanzionatoria e vi aspettate che vi proteggiamo?”, queste le sue parole. Se in principio, dunque, era stato lo stesso presidente bielorusso a minacciare l’Europa con un’orda di migranti, oggi la narrativa bielorussa è ben diversa. E punta sull’idea che l’intrusione dell’Occidente (gli Stati Uniti in particolare) negli affari interni di certi Paesi sia la causa della loro devastazione. “Siete voi la principale causa per la quale queste persone scappano dalle guerre verso l’Occidente”. Il transito dei migranti attraverso il territorio bielorusso viene invece giustificato tramite l’uso di fantomatiche organizzazioni criminali. “Qui [questi gruppi criminali] li prelevano e li trasportano fino al confine, ma anche lì, in Polonia e in Lituania, esistono gli stessi criminali”.
Mentre Lukašenko mostra i muscoli, l’Unione Europea pensa a come aumentare le pressioni su Minsk. Una proposta mai avanzata fino allo scorso 7 ottobre è quella di portare “l’ultimo dittatore d’Europa” davanti alla Corte internazionale di giustizia. Nel frattempo, l’Unione Europea accentua la stretta sui visti per i membri del regime bielorusso. Proseguono inoltre i lavori per il quinto pacchetto di sanzioni. Queste ultime dovrebbero essere estese a nuovi settori come quello metallurgico, chimico e per la lavorazione del legno, oltre che a tutte le banche ed imprese statali quali Belaruskali e Beltelecom.
Il tema “sanzioni” divide gli esperti del settore e non solo. Misure restrittive di questo genere rappresentano infatti un’arma a doppio taglio. Come già successe negli anni ’90 ai tempi dell’embargo imposto dall’ONU nei confronti dell’Iraq di Saddam, è la popolazione stessa a subirne gli effetti, prima ancora dell’establishment bielorusso. Altri enfatizzano quanto le sanzioni spingano la Bielorussia ancora di più nell’orbita russa. Altri ancora, invece, si domandano quale potrebbe essere la reazione bielorussa nel caso in cui le sanzioni venissero revocate. Lukašenko potrebbe effettivamente adottare politiche meno ostili?
Dunque, quale via d’uscita dal pantano bielorusso? Giunti a questo punto, verrebbe da chiedersi se ha ancora senso per l’Occidente sperare in un dialogo costruttivo con il regime di Lukašenko. D’altronde, a nessuno piace giocare con chi prova a imporre le proprie regole. Eppure, Minsk non è sola in questa partita. È Stanislav Zaryn, un alto ufficiale polacco, a rompere il ghiaccio e puntare il dito contro la vicina Federazione Russa. Mosca, infatti, sarebbe uno degli hub aerei adibiti al trasporto dei migranti prima del loro arrivo al confine tra Bielorussia ed Unione Europea. Un argomento sul quale l’Unione Europea non ha mai posto troppo l’accento finora è proprio il ruolo della Russia, ma adesso qualcosa pare muoversi in questo senso. Nell’ultima risoluzione adottata dal Parlamento Europeo si condanna fortemente la Federazione Russa e si chiede al Cremlino di rispondere del proprio sostegno alla brutale repressione di Lukašenko.
Oltre a colpire Mosca, l’Unione Europea dovrebbe poi aumentare la pressione nei confronti di quei Paesi che contribuiscono a sostenere l’esercito di migranti messo in piedi da Minsk. Tra i principali fiancheggiatori vi sarebbero Iraq, Turchia, Libano ed Emirati Arabi Uniti. L’insistenza europea ha già dato i suoi frutti in questo senso. A inizio agosto, a seguito delle sollecitazioni europee nei confronti di Baghdad, un volo di Iraqi Airways da Basra a Minsk è stato cancellato. Sarebbe, inoltre, necessario riaprire un dialogo tra Bruxelles ed Ankara, già reduci da innumerevoli trattative sul fronte dei migranti.
È il caso di dirlo: Lukašenko si trova in una posizione di netto vantaggio nell’attuale crisi migratoria. Minsk continuerà inevitabilmente ad alzare la posta in gioco fino a quando non otterrà ciò che desidera. Un fronte europeo unito, sanzioni ancora più stringenti ed efficaci insieme ad un’azione preventiva volta a punire anche i Paesi che sostengono le politiche del regime bielorusso potrebbero essere misure molto più efficaci di qualsiasi muro al confine.