Più che l’Ucraina, la Russia vuole attaccare il sistema di difesa imbastito dagli Usa in Europa orientale. Obiettivo dichiarato: far indietreggiare la NATO dall’est. Per raggiungerlo, Mosca non potrà chiedere ai suoi rivali molto altro. E non potrà permettersi una vera guerra contro Kiev, che la porterebbe definitivamente nelle braccia del nemico. Intanto da Washington va in scena l’armiamoci e partite.
Cos’hanno in comune l’invasione della Crimea del 2014 e il blitz in Georgia del 2008 con l’escalation militare ucraina delle ultime settimane?
Nulla. Le prime due furono guerre-lampo che misero la comunità internazionale (o, per meglio dire, occidentale) davanti al fatto compiuto. Quello che sta accadendo al confine orientale ucraino è invece sulla bocca di tutti da almeno due mesi, con avvertimenti provenienti da Kiev, e soprattutto Washington, su un’imminente invasione russa del suo vicino occidentale.
Ci sarà guerra? Per capirlo bisogna riavvolgere il nastro: alla fine dello scorso anno (come già la scorsa primavera) la Russia schiera al suo estremo confine occidentale un massiccio contingente bellico di uomini – li si quantifica in circa 100.000 – e sistemi di arma capaci di superare agevolmente qualsiasi eventuale resistenza delle truppe di Kiev. I governi di Ucraina e Stati Uniti definiscono lestamente l’ammassamento di truppe come il prologo di una futura invasione: c’è chi ne ipotizza l’inizio nel Donbass delle repubbliche separatiste filo-russe di Luhans’k e Doneck; chi nella città portuale di Mariupol’; chi a Odessa.
Il 17 dicembre la Russia, che mantiene un alone di mistero sulle sue intenzioni, pubblica una lista di richieste per “smorzare” l’escalation: innanzitutto il divieto formale di ingresso nella NATO per gli Stati dello spazio post sovietico (soprattutto Ucraina e Georgia). Quindi, l’indietreggiamento delle forze dell’Alleanza Atlantica ai confini pre-1997. In sostanza, via contingenti e sistemi NATO da Baltici, Polonia, Romania, Bulgaria, Repubblica Ceca e il resto dell’ex Patto di Varsavia.
Il Dipartimento di Stato non deve averla presa benissimo, interpretando quello della Russia, a parole non intenzionata ad invadere, come un ultimatum di fatto (altrimenti non si capisce perché NATO e Washington avrebbero dovuto soddisfare i desiderata russi).
Il Cremlino continua a derubricare la sua presenza militare a pochi km dalla linea di confine a questione interna ai propri confini sovrani. C’è un fondo di verità, a dire il vero: è pressoché evidente il ricollocamento strategico di truppe dall’estremo oriente al fronte occidentale, deciso dalle autorità federali. Una decisione che risponde a evidenti ragioni tattiche: se guerra dovesse esserci in futuro, è assai più probabile che scoppi nel Caucaso o nell’Est Europa, piuttosto che con Giappone o Cina – con cui la liaison, quantomeno nel breve periodo, è destinata a reggere (tutt’altra cosa è lo scenario a medio-lungo termine, ma questa è un’altra storia).
Nell’epoca della (vera) Blitzkrieg, in cui l’invasione della Crimea avviene in meno di una settimana, quello tra Russia e Ucraina è un raro esempio di conflitto non ancora combattuto di cui non solo si conoscerebbe la data di inizio (prime settimane del 2022, ma adesso si parla di febbraio), ma punti di sfondamento, numero di truppe e sistemi di arma usati, tempi approssimativi di capitolazione delle truppe avversarie, reazione occidentale e controreazione russa.
In realtà – a meno che quella della guerra in Ucraina non si trasformi in una profezia che si auto-avvera o Putin abbia manie di restaurazione imperiali (il che non è da escludere a priori) – è molto probabile che l’obiettivo del presidente russo non sia iniziare una guerra enormemente dispendiosa a livello umano e finanziario. Il vero bersaglio delle mosse di Putin non sembra essere Kiev, ma Washington. Lo si può notare dall’interlocutore principale dei russi durante i colloqui: non l’Ucraina del presidente Zelens’kyj, bensì l’amministrazione statunitense di Joe Biden e il suo Dipartimento di Stato.
Sul campo, l’eventuale conflitto russo-ucraino sarebbe combattuto certo da Mosca e Kiev – stante la chiarissima intenzione di Washington di non piantare i boots on the ground dopo l’enorme fatica a toglierli dal pantano afghano. Ma diplomaticamente il confronto è tutto tra gli ex rivali della Guerra Fredda, che infatti si sono incontrati già due volte nel giro di due settimana. Il 10 gennaio è stato il turno di Wendy Scherman e Sergej Rjabkov, rispettivamente vicesegretaria di Stato Usa e viceministro degli Esteri russo, a Ginevra. Poi, sempre nella città lacustre, è stata la volta del segretario di Stato Antony Blinken e del ministro degli Esteri Sergej Lavrov.
I russi hanno pensato di rendere pan per focaccia, per far capire cosa si provi al solo pensiero di avere nel proprio “giardino di casa” armi capaci di colpire la propria capitale in 5 minuti (specialmente quando il Paese in questione ha storicamente sofferto di un’eterna sindrome di accerchiamento). Rjabkov, prima, e Lavrov, poi, non hanno infatti “né confermato né escluso” che in un prossimo futuro Mosca dispieghi missili Iskander e magari perfino testate nucleari in Paesi latinoamericani amici come Venezuela e Cuba. Reminiscenze di Guerra Fredda. E delle guerre per procura.
Ufficialmente si continua a parlare di “crisi ucraina”, ma per ragioni squisitamente geografiche. Di fatto è il futuro della NATO la posta in gioco. Che l’Ucraina sia paradossalmente il “terzo incomodo” nella guerra per procura tra Casa Bianca e Cremlino è dimostrato dalla scarsissima attenzione dedicata al Donbass. Un esempio? La Russia non chiede il ritiro delle truppe regolari ucraine dall’est, ma pretende che non entrino nella NATO. Quindi l’ironia della storia vuole che sia stata proprio Kiev ad aver dovuto mettere un freno all'”armiamoci e partite” partito da Washington, ufficialmente perché “l’invasione non è ancora imminente”. Come a dire: andateci piano, voi due.
L’impressione è che Kiev sia il personalissimo tavolo da poker delle due superpotenze. Quella russa ha puntato per prima presentando il suo ultimatum; quella statunitense – che gioca contemporaneamente al tavolo con la Cina – non si è fatta intimorire e ha rischiato un all-in, nella convinzione che l’altra parte stesse bluffando. Da ricordare che la Casa Bianca è agevolata poiché punta soldi non solo suoi, avendo ripetutamente ribadito che nessun soldato statunitense metterà piede in Ucraina, e che quindi saranno le truppe di Kiev a doversela cavare da sole (al netto degli aiuti finanziari e logistici di Washington e del sovvenzionamento all’eventuale insurrezione anti-russa).
Il prossimo a giocare ora è proprio Putin, che sembra peraltro quello ad averci rimesso di più. Partito con l’intenzione di togliersi la NATO dal giardino di casa, si è ritrovato non solo con molti più soldati armati fino ai denti per difendere i confini orientali dell’Alleanza, ma anche con un dilemma: invadere l’Ucraina significherebbe dover spendere molti (ma molti) soldi in tempi di magre pandemiche.
E, nel medio-lungo periodo, inimicarsi definitivamente la popolazione e la classe politica ucraina – di fatto spianando la strada a un governo che, questa volta per davvero, faccia dell’ingresso nella NATO una condizione di sopravvivenza.