Sciogliendosi così rapidamente, la calotta artica non solo sta aprendo nuove rotte tra i ghiacci, ma sta anche portando alla luce tantissime risorse, come petrolio, gas naturale e minerali. Risultato: una nuova competizione tra grandi potenze, in quello che viene definito lo “scramble for Arctic”.
Il ruolo geopolitico dell’Artico è cambiato irreversibilmente a causa del riscaldamento globale, diventando potenzialmente la sede di un conflitto “a bassa intensità” tra i principali attori che aspirano a un maggior controllo della regione, come la Russia, gli Stati Uniti e la Norvegia. Prima di analizzare le dinamiche odierne che caratterizzano l’Artico, è necessario, però, accennare alcuni punti fondamentali riguardo la giurisdizione dell’area, in modo tale da capirne le regole e, di conseguenza, comprendere le strategie dei diversi giocatori, i quali fanno della calotta uno scacchiere sul quale muovere le proprie pedine (e mezzi militari).
Contrariamente all’Antartide, regolata dal 1959 dal Trattato Antartico (o accordo di Washington) che ne ha demilitarizzato la regione e consentito la penetrazione solo per “scopi pacifici” come la ricerca scientifica, l’Artico non è oggetto di alcun trattato internazionale che ne regoli l’attività, la navigazione e l’utilizzo delle risorse, diventando così una potenziale “terra di tutti”. In mancanza di una convenzione a riguardo vengono applicate le regole dell’UNCLOS, ovvero il diritto del mare, secondo cui quelle dell’Artico rientrano nella categoria delle acque internazionali. Allo stesso tempo, le risorse ivi contenute sarebbero, formalmente, parte dell’UNESCO. Nel maggio del 2008 gli Stati che ne costeggiano il litorale (Canada, Danimarca, Norvegia, Federazione Russa e Stati Uniti), firmarono la Dichiarazione di Ilulissat, che enfatizzava non solo il ruolo del diritto del mare nel risolvere eventuali controversie internazionali[1], ma soprattutto la necessità di cooperazione tra gli Stati firmatari. A distanza di quattordici anni, però, suddetta cooperazione sembra cosa tutt’altro che scontata. L’Artico, infatti, non è più un punto di convergenza nel nome della ricerca e della lotta al riscaldamento globale ma un nuovo teatro di contrasti, nonché l’obiettivo di quello che viene chiamato il nuovo “scramble for Arctic”.
Specialmente durante l’ultima decade, i ghiacci settentrionali sono diventati un polo d’attrazione globale, fulcro di tensioni e attriti soprattutto tra i membri del Consiglio Artico – un forum internazionale fondato nel 1996 e composto da otto Stati, Canada, Danimarca, Russia, Stati Uniti, Finlandia, Islanda, Norvegia, e Svezia. Il Consiglio si pone l’obiettivo di ristabilire le relazioni tra l’Occidente e la Russia post sovietica in riferimento alla regione polare, trattando di tematiche come il futuro delle popolazioni indigene, l’uso delle risorse e la lotta al riscaldamento globale in un contesto differente dall’ONU. Il fatto che ben cinque membri del Consiglio Artico siano contestualmente parte della NATO contribuisce ad alzare nuove barriere soprattutto con la Federazione Russa. Dopotutto, Mosca ha incrementato notevolmente le sue forze nella regione, dimostrando di possedere la supremazia militare in loco e destabilizzando, conseguentemente, gli equilibri. Tali divergenze hanno contribuito ad innalzare quella che viene chiamata la nuova “cortina di ghiaccio” tra i due schieramenti.
L’interesse di Mosca per l’area, infatti, è tutt’altro che recente. I поморы (Pomory), coloni russi, si spinsero all’inizio del XVI secolo sulla costa del Mar Bianco fino a raggiungere, con le loro imbarcazioni, il cosiddetto “Passaggio a Nord-Est”, toccando le varie isole del Mar Glaciale Artico. Nei secoli successivi, sia l’Impero Russo che l’Unione Sovietica furono fondamentali nello sviluppo e nell’esplorazione della regione, con la prima rompighiaccio polare e la prima stazione di ricerca su ghiaccio al mondo – per citare solo due primati. Durante la Guerra fredda, l’Artico fu teatro di incontri ravvicinati tra flotte rompighiaccio (anche a propulsione nucleare) sovietiche e sottomarini americani. Dopo il crollo dell’URSS, Mosca abbandonò quasi completeamente la regione, anche a causa dei problemi economici del Paese. Soltanto a partire dal 2003 l’area riprese ad essere considerata parte degli interessi nazionali russi. Da allora, di conseguenza, il Cremlino ha puntato sulla costruzione di infrastrutture e basi militari nelle zone più remote del Paese, come ad esempio l’isola di Wrangel, la Terra di Francesco Giuseppe (in russo Земля Франца Иосифа) e la Novaja Zemlja, ospitante la base aerea di Rogachevo.
La Terra di Francesco Giuseppe, un arcipelago situato a nord della Russia è, infatti, la sede di una delle basi aree militari più a nord al mondo, chiamata Nagurskoye, la cui struttura ricorda un trifoglio e presenta i colori della bandiera della Federazione. Il complesso possiede una propria centrale termica, depositi di carburante e lubrificanti, ma anche di cibo e vestiti, impianti di depurazione e garage per la manutenzione delle attrezzature: tutte strutture in grado di funzionare autonomamente nonostante le estreme temperature. L’avamposto è dotato, inoltre, di sistemi missilistici all’avanguardia, considerati i migliori sistemi di difesa aerea al mondo, e la sua posizione risulta piuttosto strategica, essendo l’arcipelago localizzato nel Mare di Barents orientale. Ciò lo rende la base perfetta per proiettare la potenza del Cremlino nel Nord Atlantico, in particolare tra l’Islanda, la Groenlandia, le isole britanniche e la Norvegia. Nel caso di un conflitto armato, infatti, questo avamposto garantirebbe accesso alla base aerea statunitense di Thule in Groenlandia, rappresentando un potenziale punto di attrito militare tra la NATO e la Russia stessa.
Riassumendo, è possibile affermare che la presenza militare russa nell’Artico abbia tre obiettivi principali: stabilire una linea di difesa avanzata contro le incursioni straniere, assicurare il futuro economico della Russia e creare una base per estendere la propria potenza, principalmente nel Nord Atlantico. Di fronte a questo programma, però, gli altri Stati al di là della “cortina di ghiaccio” sono pronti a reagire. La Norvegia, ad esempio, ha deciso di basare la sua sicurezza sulla deterrenza della NATO, rendendosi promotrice di una possibile difesa congiunta del fronte nordico con il supporto di Londra e Washington in primo luogo. Il Canada, invece, cerca di sfruttare le opportunità economiche offerte dallo scioglimento dei ghiacci senza dare priorità a un approccio militare, ma focalizzandosi sul cosiddetto “passaggio a Nord-ovest”. Anche la Danimarca, per proteggere la sua Groenlandia, poggia la sua politica di difesa sulla NATO, e teme il possibile sfruttamento altrui delle proprie risorse: uranio, gas naturale e metalli rari usati nella costruzione di smartphone e di veicoli militari. Finlandia, Islanda e Svezia puntano anch’esse sulla cooperazione soprattutto in materia di cambiamento climatico, promozione del benessere delle popolazioni del Nord, ricerca ed infrastrutture. Lo stesso, però non vale per gli Stati Uniti, che hanno più volte affermato di essere di fronte a una “sfida militare”. Ciò vale a maggior ragione in seguito al dispiegamento di forze russe avvenuto il 26 gennaio 2022 (30 navi da guerra, 20 veivoli e 1200 unità militari), aventi l’obiettivo di proteggere la Rotta artica, la quale dovrebbe essere parzialmente attiva, secondo Putin, già a partire dal 2022/23.
Al momento, la possibilità di un conflitto per l’Artico sembra piuttosto remota e il principale terreno di scontro tra Est ed Ovest rimane l’Ucraina. Considerando, però, la leggera probabilità di risposte irrazionali da parte di entrambi gli schieramenti, l’eventuale scontro armato potrebbe protrarsi fino ai ghiacci del Polo Nord. In quel caso, il confine artico si rileverebbe decisivo, contrariamente alle previsioni. Il Polo settentrionale, infatti, potrebbe diventare sede di esercitazioni militari da parte di Mosca proprio per distogliere l’attenzione della NATO da un attacco russo in Ucraina. Conseguentemente, la NATO sarebbe occupata “su due fronti”, con l’unica differenza che quello meridionale rappresenterebbe una minaccia reale, mentre quello nordico solo un pericolo fittizio, confermando, ancora una volta, l’abilità di Mosca nel cogliere impreparato l’avversario attaccando in forma ibrida.
Mosca da una parte si avvale della diplomazia del Consiglio Artico per collaborare con gli Stati membri della NATO, al fine di preservare la stabilità e avviare una cooperazione efficiente in materia economica e ambientale. Dall’altra, invece, manda chiari segnali militari ai membri del “blocco opposto”, sottolineando la sua volontà di rispondere nel caso in cui i propri interessi venissero minacciati. Nonostante questa chiara distinzione, è necessario tenere in considerazione le variabili derivate dal contrasto in Ucraina, il quale ha confermato ancora il modus operandi russo nel raggiungere i suoi scopi, ovvero spingere al limite i sistemi di sicurezza occidentali per guadagnare sia terreno che potere negoziale, correndo anche il rischio di spaccare, definitivamente, quella che può essere chiamata la “nuova cortina di ghiaccio”.
Vanessa Canola
[1] Donald R. Rothwell. “The Law of the Sea and Arctic Governance.” Proceedings of the Annual Meeting (American Society of International Law) 107 (2013): 272–75. https://doi.org/10.5305/procannmeetasil.107.0272.