Il discorso alla nazione tenuto stasera dal presidente russo chiude ogni spiraglio a una conclusione positiva dei negoziati, ma taglia anche ogni ponte col remoto passato del pietroburghese e occidentalista Vladimir. Le parole sull’Ucraina peseranno ancor di più del già radicale riconoscimento di Donetsk e Lugansk. Cosa (non) aspettarci dal futuro.
Sarà questione dibattuta tra i cremlinologi, gli studiosi delle ramificazioni del potere presidenziale russo. E probabilmente lo sarà per anni. Ma è difficile non vedere, nel discorso alla nazione tenuto stasera da Vladimir Putin, l’impronta personale del presidente. Al di là delle pressioni che ha indubbiamente subìto nelle ultime ore (ma anche giorni e settimane) dal suo entourage.
Lo avevamo già anticipato che questa crisi si preannunciava diversa dalle altre. Non tanto per lo spropositato allarmismo sui giornali – che non prevedevano un simile esito politico ma sapevano già come e quando le truppe russe avrebbero occupato Kiev – quanto per i toni inquietanti che certe mosse avevano assunto fin dai primi giorni. Le strambe altalene delle trattative, le riunioni d’urgenza intergovernative e la frenetica attenzione dei leader europei (finalmente interessati alla “questione orientale”, dopo anni di ignavia) non lasciavano presagire nulla di buono. E infatti, sempre qui, ci eravamo spinti ad ammettere pure l’ipotesi più estrema: quella di una guerra già decisa e (quasi) impossibile da fermare.
Ancora non sappiamo se “guerra” sarà. Ovvero se arriveremo a un conflitto aperto tra Russia e Ucraina (supportata più o meno direttamente da buona parte dell’Occidente), non più mediato dal cuscinetto del Donbass. Oppure se si arriverà “soltanto” a un inasprimento di sanzioni e a un ulteriore distanziamento emotivo tra Mosca e l’Europa, forse insanabile per le attuali generazioni. Ma sappiamo che il riconoscimento delle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk è una scelta senza precedenti. Che annulla con un colpo di spugna gli accordi di Minsk e più in generale anni di trattative più o meno (in)fruttuose con Kiev. Non era infatti un caso, né certamente il frutto di un’amnesia, se il Cremlino in questi otto anni di guerra a bassa intensità nel Donbass non aveva mai voluto spingersi a riconoscere l’indipendenza delle due entità “sorelle”. Putin e i suoi sapevano che sarebbe stato un passo estremo, che avrebbe chiuso ogni negoziato.
Se dunque tale passo oggi è compiuto, può significare soltanto due cose: o che il negoziato in corso con gli Stati Uniti – “l’unico interlocutore con cui avrebbe senso trattare”, si sono fatte scappare questo pomeriggio le autorità russe – fosse già miseramente fallito, magari per l’indisponibilità di Washington a far concessioni su alcuni punti; oppure che la Russia ha voluto deliberatamente farlo cadere nel vuoto. In ogni caso, sarà difficilissimo ricucire lo strappo. Anche perché nel suo discorso, intriso di riferimenti storici – e qui si riconosce, come dicevamo all’inizio, il suo inconfondibile marchio – Vladimir Putin non ha risparmiato nulla all’Ucraina, in una serie di stoccate volte a delegittimarne forse la stessa esistenza: dai fondamenti della sua indipendenza al suo governo di “marionette” comandate dall’Occidente. Un completo disastro per chi, a Kiev, stava timidamente provando a tendere la mano a Mosca – o almeno ad arginare il ritorno al potere dei nazionalisti à la Porošenko.
Il sipario sembra chiudersi, a meno di ulteriori colpi di teatro. Una cosa è chiara: Putin ha deciso di rivolgersi alla Russia e al mondo ex sovietico, rinunciando – probabilmente in via definitiva – a farsi ascoltare da un uditorio occidentale. E quindi dando per scontato che tale accortezza sarebbe stata inutile. Stanchezza o paranoia, fatalismo o disperazione: non sta a noi stabilire cosa ne ha mosso le parole. Ma di certo queste tagliano ogni residuo ponte con gli esordi del suo ormai ultraventennale potere: quelli in cui il pietroburghese Vladimir credeva ancora in un’integrazione tra Europa e Russia.