L’elezione plebiscitaria di Serdar Berdimuhamedov alla carica di terzo presidente del Turkmenistan con il 72,97% dei voti è una notizia che tutti gli osservatori si aspettavano. Le sfide che attendono il nuovo leader del Paese centro-asiatico, tuttavia, sono molte e insidiose.
Repubblica fortemente chiusa su sé stessa, il Turkmenistan rappresenta il cuore energetico dell’Asia centrale. Gigante regionale se si guarda alle sue riserve di gas naturale, il Paese sconta, tuttavia, i limiti di un territorio esteso, desertico e poco popolato. La scarsità di fondi pubblici per sostenere il bilancio dello Stato, sotto pressione durante la fase più acuta della pandemia da Covid-19, che ha compresso la domanda globale di gas, dovrebbe vedere un progressivo aumento delle entrate grazie all’aumento del costo dell’energia. Gli effetti della ripresa economica globale, tuttavia, non stanno avendo sul Turkmenistan un impatto immediato, e questo è dimostrato dalla persistenza di fenomeni di razionamento dei generi alimentari nel Paese.
Il presidio del territorio rappresenta una delle sfide maggiormente pressanti che il nuovo presidente è chiamata a fronteggiare. L’ascesa dei Talebani in Afghanistan lo scorso anno ha posto una serie di rischi alla stabilità del Turkmenistan, sia sul piano nazionale sia su quello regionale. Le forze armate turkmene, non adeguatamente preparate a sostenere il peso della minaccia talebana, scontano decenni di isolazionismo, che ha tagliato fuori il Paese dalle principali alleanze regionali, e scarso coordinamento con il maggiore garante della sicurezza nell’area, la Russia. Ašgabat ha schierato parte delle proprie forze armate lungo il confine con l’Afghanistan a partire dallo scorso luglio per evitare sconfinamenti, ma la necessità di tutelare i rispettivi interessi ha portato il governo turkmeno e quello talebano a dialogare molto presto. In seguito alle proteste che hanno colpito il Kazakistan nello scorso gennaio, inoltre, il pericolo di una diffusione a macchia d’olio nella regione ha spinto il Turkmenistan a rafforzare ulteriormente il proprio controllo sulla società. Il pericolo dell’esplosione di una rivoluzione nel Paese, uscito decisamente provato dalla crisi pandemica, ha fornito alla classe dirigente turkmena il destro per limitare l’accesso a Internet e introdurre una serie di controlli sulla popolazione.
Una repubblica fondata sul gas
Il settore energetico riveste per il Turkmenistan la principale fonte di ricchezza nazionale, rientrando tra i primi dieci Paesi al mondo per riserve di gas naturale. Le esportazioni, tuttavia, non hanno generato un flusso di risorse in entrata paragonabile a quello che ha investito le repubbliche del Golfo. Questo è dovuto alla posizione geografica del Paese, fortemente incassato nel cuore dell’Eurasia e senza sbocco sul mare aperto, potendo contare solo su un accesso al Mar Caspio. La difficoltà che eredita il neo-presidente Serdar Berdimuhamedov nel raggiungere i mercati energetici più redditizi, quello europeo innanzitutto, ha dato alle esportazioni turkmene un’impronta maggiormente asiatica, con la Cina che acquista la quasi totalità del gas del Paese: 40 miliardi di metri cubi, a fronte di un’importazione russa dalla repubblica centro-asiatica di 10 miliardi di metri cubi. Tale squilibrio, con il rischio di appiattire eccessivamente il settore energetico turkmeno sulla volatilità della domanda cinese, come evidenziatosi nel corso della pandemia, ha portato Mosca ad aumentare la quota di importazioni di gas dal Turkmenistan, allettata dal costo basso delle fonti energetiche turkmene e dalla possibilità di poter pompare il gas turkmeno in Europa ad un prezzo maggiorato. Con le vicende russo-ucraine dell’ultimo mese, tuttavia, quest’opzione appare abbastanza rischiosa per Ašgabat.
I ritardi nella realizzazione del gasdotto TAPI, che dallo Stato centro-asiatico dovrebbe portare gas in India, passando per l’Afghanistan e il Pakistan, hanno spinto il Turkmenistan a cercare un riavvicinamento con l’Azerbaigian, dirimpettaio nel Mar Caspio da cui era diviso da questioni legate allo sfruttamento di risorse energetiche in alto mare, nel gennaio 2021. L’intesa sullo sfruttamento congiunto del giacimento Dostlug tra Baku e Ašgabat, che dovrebbe condurre alla stesura di un accordo tra i due governi, rappresenta un passo avanti verso il progetto della realizzazione di un gasdotto Transcaspico, che permetterebbe al gas turkmeno di raggiungere l’Azerbaigian e, da lì, collegarsi al gasdotto Transanatolico che, attraverso la Georgia e la Turchia, consentirebbe l’accesso del Turkmenistan al mercato dell’energia europeo. La distensione nelle relazioni tra gli Stati centro-asiatici, in corso a partire dal cambio di leadership nel vicino Uzbekistan nel 2016, infine, ha aumentato per il Turkmenistan la cooperazione in ambito regionale.
Le crepe nella stabilità turkmena
La crisi della domanda internazionale di gas naturale ha portato il Turkmenistan a vedere ridotta la sua principale fonte di entrate, con un peggioramento progressivo della qualità della vita della popolazione. Nonostante la ripresa globale del 2021 abbia portato i prezzi delle materie prime e dell’energia a crescere significativamente, l’economia turkmena sembra essere ancora in panne, con ritardi nei pagamenti del personale pubblico e con un incremento del rischio di proteste legate al carovita. I recenti eventi di gennaio nel confinante Kazakistan, poi, hanno ulteriormente accentuato la preoccupazione di Ašgabat sulla proliferazione di cellule di oppositori al governo autoritario che il neo-eletto presidente Serdar Berdimuhamedov si appresta a dirigere. La caduta del prezzo delle materie prime e la crescente oppressione del governo sulla società rischiano, infatti, di costituire una miscela esplosiva che potrebbe portare tensioni sociali.
L’assenza di una vera rete di opposizione nel Paese, come dimostrato durante le proteste a carattere spontaneo che si sono avute finora in Turkmenistan, unita all’estrema lentezza della rete Internet nazionale, che isola ulteriormente la società turkmena, insieme alla persecuzione degli oppositori all’estero che il governo turkmeno opera grazie ai suoi principali alleati, la Russia e la Turchia, lasciano intendere che la situazione turkmena differisca notevolmente da quella kazaka quanto a radicamento del malcontento e a capacità organizzativa degli oppositori. Nel mese di gennaio, mentre il governo del Kazakistan stava riprendendo il controllo delle piazze, l’ex presidente Gurbanguly Berdimuhamedov ha annunciato una serie di misure restrittive che dovrebbero prevenire l’insorgenza di fenomeni simili nel Paese: controlli sugli spostamenti interni, che si sommano ai già presenti controlli sugli spostamenti in entrata e in uscita dei lavoratori turkmeni emigrati all’estero; lotta ai canali di informazione online che potrebbero danneggiare l’ordine costituzionale dello Stato; difesa dall’influenza di gruppi estremisti stranieri. Si tratta di una rete di protezione che il padre ha voluto in qualche modo lasciare al figlio per consentirgli di operare senza il rischio di trovarsi tra le mani una rivoluzione colorata, rischio sempre presente nelle traballanti realtà statali dell’Asia centrale.
Nuovi equilibri regionali e rischi per la sicurezza
Il Turkmenistan è uno Stato riconosciuto ufficialmente dalla comunità internazionale come permanentemente neutrale. Questa condizione gli ha permesso di chiamarsi fuori dalle principali dinamiche regionali e di ridurre le influenze esterne sulla propria politica. La scelta di non allinearsi a nessuna delle alleanze attive nella regione, tuttavia, ha come corollario la necessità turkmena di potersi tutelare da solo. L’ascesa dei Talebani in Afghanistan ha destabilizzato l’assetto regionale ed ha esposto il Turkmenistan ad una serie di rischi interni ed esterni che potrebbero minarne la sicurezza e, in prospettiva, la stabilità in una situazione di vulnerabilità come quella del passaggio di consegne tra Berdimuhamedov padre, con quasi venti anni di esperienza da presidente alle spalle, e suo figlio, sulla cui reale capacità amministrativa aleggiano ancora molti dubbi. L’aumento della pressione sulle frontiere del Paese a causa del flusso di migranti ha portato Ašgabat nell’estate scorsa a dispiegare l’esercito per impedire gli ingressi illegali.
Ciò non ha impedito al governo turkmeno e a quello talebano di instaurare un dialogo per assicurare la prosecuzione dei lavori del TAPI, infrastruttura chiave per l’economia turkmena intorno alla quale si incardina la politica estera del Paese verso Kabul. Il governo talebano ha ribadito più volte di non essere interessato a condurre operazioni al di fuori delle proprie frontiere, in questo rassicurando il Turkmenistan dal rischio di un conflitto. Tuttavia, persiste il pericolo legato al contrabbando di sostanze stupefacenti dall’Afghanistan verso l’Asia centrale e la Russia.
Un’altra preoccupazione che si troverà ad affrontare il nuovo presidente e che vede Ašgabat in prima linea è il contrasto all’estremismo, potenzialmente in grado di arrivare nel Paese dall’immigrazione afghana. Meno rilevante sembra essere la minaccia posta dai Talebani sulla minoranza turkmena in Afghanistan, che ammonta al 3% circa della popolazione totale e che non gode di un legame altrettanto stretto con la madrepatria come avviene, per esempio, tra il Tagikistan e i tagichi dell’Afghanistan.
Se il neo-eletto presidente del Turkmenistan sarà in grado di fronteggiare le sfide che attendono il suo Paese nei prossimi mesi verrà chiarito solo con il tempo. Nonostante sia ipotizzabile una progressiva apertura dello Stato, non è ancora possibile immaginare di quanto e in che verso. Così come non è ancora evidente se Ašgabat si avvicinerà alla Turchia e inizierà ad esportare gas verso l’Europa o se si lascerà irretire del tutto dall’ormai preponderante mercato energetico cinese, posto che il progetto del TAPI rappresenta per il governo turkmeno la punta di diamante dei propri piani geo-economici di diversificazione delle esportazioni. Sono tutte questioni che verranno chiarite nei prossimi mesi, o forse anni.