È il 24 febbraio 2022, quando Putin decide di attaccare l’Ucraina. Il 3 marzo sette Stati membri del Consiglio Artico decidono di sospendere momentaneamente la loro partecipazione ai lavori: si tratta di un gesto di protesta verso le gravi violazioni del diritto internazionale commesse dalla Federazione Russa, che occupa l’ottavo seggio del Consiglio e ne è attualmente presidente. Questa decisione ha riaperto una serie di interrogativi riguardo gli equilibri di potere e le infrastrutture per la salvaguardia della sicurezza e per la cooperazione regionale nell’Artico. Mentre Svezia e Finlandia accarezzano la possibilità di entrare nella NATO, la Russia è isolata anche a Nord. L’attuale situazione, però, mina gli interessi di tutti gli Stati artici.
Giorno 1 dell’invasione: il Primo Ministro norvegese Jonas Gahr Støre tiene una conferenza stampa in cui comunica che la Norvegia non ha rilevato un maggiore movimento delle truppe della Federazione Russa nell’Artico. Questa dichiarazione sottolinea l’implicito timore di Oslo di una potenziale escalation anche sul fronte Artico – preoccupazione tra l’altro già manifestata a inizio febbraio, quando la Norvegia temeva un effetto spill-over a causa delle crescenti tensioni in Ucraina.
Nei fatti, però, la possibilità di estensione del fronte anche all’Artico si è rivelata inconsistente. Questo perché, come riporta Ulf Sverdrup, direttore dell’Istituto Norvegese di Affari Internazionali, parte delle truppe russe stanziate nella penisola di Kola sono state ricollocate in Ucraina. La Russia, quindi, non disporrebbe della capacità effettiva di aprire un secondo fronte e, nonostante l’irrequietezza di Oslo, è difficile individuare quale potrebbe essere l’interesse di Mosca dietro a una scelta di questo tipo. Da una parte, attaccare in maniera convenzionale la Norvegia coinvolgerebbe inevitabilmente la NATO nel conflitto; dall’altra, violare la neutralità dell’altro Stato artico confinante, la Finlandia, invierebbe un messaggio controproducente ai fini dei negoziati proprio all’Ucraina, a cui Mosca ha richiesto la neutralità come condizione per la cessazione delle ostilità e garanzia di reciproca sicurezza. Sul fronte della deterrenza militare, poi, si sta svolgendo proprio in questi giorni l’esercitazione NATO Cold Response 2022, “la più grande esercitazione guidata dalla Norvegia in territorio norvegese dagli anni Ottanta”, che vede la partecipazione anche di Finlandia e Svezia. Cold Response si concluderà il primo di aprile; quest’anno la Russia ha rifiutato lo status di osservatore, pur essendo stata invitata dalle autorità norvegesi, in linea con quanto previsto dal documento di Vienna.
Tuttavia, al di là dello spettro di un possibile conflitto (che per ora costituisce una possibilità remota), bisogna valutare anche quali sono stati i risvolti politici e strategici dell’invasione dell’Ucraina che hanno coinvolto l’Artico. Sicuramente un primo dato che salta agli occhi è quello di una perdita strategica per Mosca: la guerra in Ucraina ha riportato a galla nel dibattito politico svedese e finlandese la possibilità di accedere all’Alleanza Atlantica. L’acquisizione della membership da parte della Finlandia estenderebbe i confini NATO fino a toccare quelli della Federazione Russa, alimentando il senso di accerchiamento di Mosca. E, in effetti, non sono tardate le minacce da parte della Russia di “serie conseguenze militari e politiche”.
È interessante osservare che, qualora Svezia e Finlandia diventassero parte della NATO, questa decisione si ripercuoterebbe anche sulla composizione Consiglio Artico. Su otto membri, infatti, sette sarebbero rappresentati da membri NATO. Il tema della sovrapposizione con la membership all’Alleanza Atlantica è noto – ricordiamo infatti che oltre a Svezia, Finlandia e Russia, il Consiglio è composto da USA, Canada, Norvegia, Danimarca e Islanda. Tuttavia, da trattato il Consiglio Artico non si occupa di hard security. E questo, in passato, costituiva uno dei suoi punti di forza principali: quella di coinvolgere la Russia e alcuni membri dell’Alleanza Atlantica, tra cui gli Stati Uniti, in un forum terzo, dove potessero collaborare e accordarsi su forme di tutela di quella che è spesso definita soft security(come, ad esempio, quella ambientale, una delle priorità dell’attuale presidenza russa).
Quindi, la decisione di sospendere i lavori del Consiglio, seppur figlia di una necessità politica ben precisa, sicuramente andrà a corrodere gli strumenti di cooperazione regionale. Ironicamente, una prima spallata all’architettura istituzionale che sosteneva l’impianto della sicurezza artica venne dalla precedente crisi ucraina, occasione in cui furono sospesi gli incontri del Arctic Chiefs of Defense Staff a causa dell’annessione della Crimea da parte della Russia. Ed era stata proprio Mosca che, nell’assumere la presidenza del Consiglio lo scorso maggio, aveva espresso il desiderio di riprendere questi incontri. Questo va a segnalare un dato fondamentale: vista la sua superiorità territoriale, tecnologica e militare nell’Artico, la Russia è incentivata a conservare un margine di prevedibilità, essendo interessata al mantenimento di una certa stabilità regionale che gioca solo a suo favore. Attitudine che, considerate le recenti preoccupazioni riguardo al livello di militarizzazione dell’Artico russo, viene incontro anche alle necessità dell’Occidente.
Tuttavia, alla luce della situazione attuale, di questa premessa resta ben poco. La scelta di Putin di invadere l’Ucraina ha minato il senso di fiducia che stava alla base della cooperazione nell’Artico. Come si legge nella Dichiarazione Congiunta sulla Cooperazione nel Consiglio Artico a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina, datata 3 marzo: “I principi fondanti della sovranità e dell’integrità territoriale, che nascono dal diritto internazionale, sono stati per lungo tempo alla base del lavoro del Consiglio Artico, un forum di cui attualmente la Russia è presidente”; ed è proprio “vista l’evidente violazione di questi principi da parte della Russia” che i lavori del Consiglio Artico risultano, di fatto, momentaneamente sospesi.
E, pur godendo di una posizione privilegiata nella regione, molto probabilmente Mosca avvertirà il peso di questa mancanza di fiducia. Il “risvolto artico” della crisi in Ucraina potrebbe colpire uno dei grandi progetti del Cremlino, quello del Passaggio a Nord-Est o Northern Sea Route. Già in precedenza lo sviluppo della rotta artica era stato osteggiato da un ambiente poco favorevole agli investimenti (neanche da parte della Cina, che mantiene requisiti piuttosto severi riguardo il proprio coinvolgimento) e dalla mancanza di infrastrutture in grado di supportare grandi flussi commerciali. L’attuale isolamento diplomatico della Russia, così come l’imposizione di sanzioni ancora più severe, potrebbero rappresentare un ostacolo ancora più grande all’apertura della NSR al traffico internazionale. Ma il caso del Passaggio a Nord-Est è solo uno degli esempi dei vari progetti – tra cui, per esempio, le attività di ricerca e soccorso – che di base costituirebbero un incentivo alla cooperazione tra gli Stati artici, ma che nei fatti, visto l’attuale clima, potrebbero risultare difficili da rendere operativi, come osservato da Lawson Brigham, Global Fellow del Polar Institute. La Russia, quindi, non beneficia sicuramente delle circostanze, che vanno ad impattare lo sviluppo di tutti quei dossier “civili” che costituiscono il fiore all’occhiello della strategia russa per lo sfruttamento dell’Artico.
D’altro canto, gli altri sette Stati del Consiglio Artico, seppur in maggioranza numerica, non traggono a loro volta alcun beneficio dall’isolamento della Russia. La decisione di interrompere momentaneamente la partecipazione ai lavori del Consiglio ha una giustificazione politica evidente, quella di condannare le azioni di Mosca in Ucraina e prendere le distanze del Cremlino. E, sul breve termine, svolge il suo compito: dà infatti agli “Arctic 7” un margine per cercare di capire quale direzione stia prendendo una situazione che al momento è molto fluida. Tuttavia, non si tratta di una posizione sostenibile. Nonostante lo status attuale di Mosca sia quello di pariah, non si può sfuggire a un dato geografico evidente: la Federazione Russa continuerà ad occupare circa metà del territorio artico. Sul lungo termine, quindi, risulterà imperativo coinvolgere il Cremlino in una modalità che, seppur da definirsi, sia in grado di assicurare un’efficace tutela di una delle aree più vulnerabili del nostro pianeta.