La storia del terrorismo in Russia è inevitabilmente collegata al destino di una delle regioni più turbolente della Federazione: il Caucaso. Da Cecenia, Daghestan e Inguscezia provenivano o si addestravano i militanti, terroristi o separatisti che hanno sparso il terrore nelle città e nei villaggi della Nazione. Dalla strage nella scuola di Beslan (3 settembre 2004) all’attentato suicida del 24 gennaio 2011 all’aeroporto Domedeovo di Mosca gli esecutori e gli organizzatori delle stragi hanno manifestato collegamenti con l’islamismo radicale caucasico e tutt’ora talune repubbliche della regione restano sotto l’occhio vigile del Governo russo pronto a collaborare con personalità dal discusso passato e scarsa attenzione per i diritti umani (Ramzan Kadyrov fra gli altri) con il fine di garantire la sicurezza delle regioni prese in attenzione.
L’attacco alla metropolitana di San Pietroburgo dell’aprile scorso ha invece inaugurato una nuova fase di terrorismo, fortemente dipendente dalle congiunture internazionali (ascesa dello Stato Islamico, della sua postura internazionalista e della strategia del terrore interno nonché la fioritura nel caos siriano di diverse milizie e gruppi di matrice jihadista) e correlata alla figura di una classe sociale in prepotente crescita demografica ma costantemente ai margini sociali, mediatici e politici: l’immigrato centroasiatico. Si stima che siano oltre sette milioni i cittadini delle ex repubbliche sovietiche centroasiatiche che vivono e lavorano attualmente in Russia. Nonostante l’attuale congiuntura negativa dell’economia russa,il Paese continua a rappresentare un approdo fondamentale per uominie donne che rispondono al richiamo di unasocietà in forte decrescita demografica e bisognosa di manodopera a basso costo.
La disoccupazione, l’esplosione demografica dei Paesi di provenienza e la presenza di reti culturali locali hanno facilitato l’arrivo e lo stanziamento di una comunità eterogenea, multinazionale, giovane (l’età media si aggira intorno i 30 anni) che si ritrova ad avere nell’Islam sunnita l’unico possibile collante sociale. La stragrande maggioranza di questi immigrati andrà ad occupare posizioni lavorative ai margini (edilizia e lavori agricoli per lo più), affronterà la marginalizzazione, lo sradicamento, l’ostilità delle forze di polizia, la xenofobia dei fanatici legati alla galassia neonazista oltre alla ghettizzazione nelle periferie anonime delle grandi città, finendo spesso preda di reti criminali o in condizione di profonda disparità. Il Governo della Federazione, in contrasto all’immagine di inclusione e apertura verso il ruolo dell’Islam nella società russa, continua ad attuare una politica di forte repressione dei bisogni religiosi e delle libertà personali e civili dei lavoratori immigrati.
Mosca con la nutrita presenza di due milioni di musulmani dispone solamente di quattro moschee in contrasto alla politica di rifacimento e costruzione ex novo di monasteri e cattedrali ortodosse. La mancanza di un numero opportuno di moschee porta ovviamente alla nascita di strutture semiufficiali non adeguatamente sorvegliate dallo stato oltre che rappresentare una sentina di possibili infiltrazioni e proselitismo jihadista; la moschea, infatti, come centro di aggregazione coranica rappresenta difatti uno dei pochi microcosmi in cui questa comunità, paradossalmente invisibile, può ritrovare un’identità e un’istruzione coranica (spesso repressa nei Paesi di origine) in grado di forgiare ponti fra le differenti nazionalità presenti nel nome di un Umma transnazionale.
La riscoperta di un’identità religiosa e il susseguente attivismo possono essere strumentalizzati da soggetti radicalizzati, reclutatori o agenti dell’estremismo islamico con il fine di rinfoltire le file già numerose dei foreign fighters in Medio Oriente. Importante nell’analizzare le cause è comprendere iI ruolo di internet e delle reti sociali in luce della pervasiva strategia mediatica dello Stato Islamico, della presenza online di forum e materiale legato al terrorismo transazionale e alla difficoltà di supervisione e scarsa trasparenza del mezzo da parte delle forze governative. L’emarginazione economica può essere la risposta al perché la maggior parte dei 5000 centroasiatici che ha scelto di combattere la jihad si è radicalizzato o ha vissuto una parte della propria vita in Russia? In parte, anche se non esiste un modello univoco che porta alla costruzione di una figura tipo di jihadista in grado di offrire risposte e attuare efficaci strumenti di contrasto.
Non si tratta di un percorso univoco ma di un viaggio complesso, che unisce fattori ideologici e socioeconomici a cui bisogna aggiungere la situazione socioculturale nei Paesi d’origine. Dal punto di vista economico c’è la povertà, la disoccupazione e l’incapacità di migliorare il proprio status. I fattori ideologici si basano quindi sulla diffusione di idee radicali da parte di gruppi estremisti in Russia e Asia centrale, nonché sull’assenza di possibilità di sviluppo religioso negli Stati secolari. Gli studi hanno dimostrato che esiste un nesso incontrovertibile tra la mancanza di conoscenza della lingua e della cultura del Paese di destinazione e la rapida crescita di sentimenti di alienazione, maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine e potenziale radicalizzazione. Tipicamente, la radicalizzazione avviene in Russia e i gruppi vulnerabili includono giovani alienati, che non hanno alcun sostegno sociale o di comunità, quelli con bassi livelli di educazione religiosa e poche prospettive di avanzamento e giovani che vengono coinvolti in attività criminali.
Se il fenomeno appare in crescita e preoccupa la leadership russa, le strategie messe in atto per contrastarlo appaiono inadeguate se non controproducenti: la profilazione discriminatoria, la soppressione pregiudiziale di associazioni islamiche moderate nonché la mancanza di coordinamento con le agenzie di sicurezza dei Paesi di origine, il sussistere di un potente sottobosco criminale spesso lambito dall’estremismo e la continuazione di politiche di esclusione rischiano di esacerbare la già precaria situazione dei soggetti presi in esame. La prevenzione attiva, la sorveglianza dei confini, le misure che permettano l’integrazione dei migranti, l’ampliamento dei diritti civili oltre che una revisione delle politiche discriminatorie che sussistono in molte frange delle forze di sicurezza dovrebbero essere gli imperativi futuri della governance della Federazione ma un Paese in profonda crisi di identità, declino economico e ricalcolo delle priorità geopolitiche non sembra comprendere la necessità di patrocinare queste necessarie priorità.