Schiacciata fra due potenze visceralmente ostili (Turchia e Azerbaijan), benedetta da un territorio talmente bello da sembrare dipinto, e oppressa dal peso della tragica storia, l’Armenia è uno dei Paesi più affascinanti nel contesto euroasiatico. Piccola nazione di poco più di 3 milioni di abitanti, etnicamente e culturalmente omogenea, è la più povera della regione caucasica, ma la sua posizione strategica la rende ostaggio del fuoco incrociato nella disputa per l’egemonia regionale fra Russia e Unione Europea. Il 9 dicembre il Paese andrà alle urne dopo gli sconvolgimenti politici di questa primavera, la cosiddetta “rivoluzione di velluto”, che ha deposto il presidente Serž Sargsyan e il partito repubblicano al potere ininterrottamente dal 2007.
La rivoluzione di velluto
Le dimostrazioni del 17 aprile scorso hanno assunto il volto dell’attuale primo ministro Nikol Pashinyan, il carismatico ex giornalista il quale, precedentemente in esilio, ha saputo opporsi alla partitocrazia al potere coinvolgendo le masse. La non violenza, la repressione delle forze di polizia nonché una capacità diplomatica di mediazione all’interno del variegato panorama politico hanno conquistato il supporto e l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, che ha immediatamente etichettato la protesta all’interno del contesto delle “rivoluzioni colorate”: quei movimenti di resistenza civile che hanno scosso l’Est Europa e il Centro Asia nei primi anni 2000. Dal 2013, anno dell’inaugurazione del secondo mandato del presidente Sargsyan, l’opinione pubblica armena ha conosciuto una sempre maggiore politicizzazione e coinvolgimento attivo, facendo arrivare la propria voce nelle aule del potere tramite la mobilitazione, la protesta pacifica e lo sdoganamento di un linguaggio post ideologico che vede proprio in personalità outsider come l’attuale primo ministro esponenti di spicco mentre la vivacità culturale (ampia la partecipazione di artisti e dei media) ha aiutato il coordinamento di disordinati ed embrionali atti di protesta.
Al successo delle dieci giornate di protesta ha sicuramente contribuito l’incapacità di mediazione, gli errori di calcoli e il drammatico calo di popolarità di Sargsyan, colpevole di aver osato troppo emendando la costituzione nel 2015 con l’eliminazione del limite di due mandati consecutivi; di fronte alle proteste il presidente si era comunque ripromesso di non voler ambire per la terza volta alla carica ma di garantire, invece, al Paese una maggiore democratizzazione. Tuttavia la notizia del 17 aprile che il partito repubblicano (partito conservatore e nazionalista descritto dall’Economist come “tipico partito del potere post-sovietico” composto principalmente da alti funzionari governativi, funzionari pubblici e facoltosi uomini d’affari dipendenti dai legami del governo”) lo avrebbe ulteriormente candidato per la carica di primo ministro ha acceso gli animi della rivolta.
Poco più di un mese di occupazioni di edifici pubblici, raduni e marce oceaniche nelle principali città del Paese, ed un coinvolgimento trasversale: dagli studenti agli operai passando per le associazioni di pensionati e militari che hanno sfidato le minacce, gli arresti e la repressione governativa costringendo il presidente Sargsyan e i fedelissimi a dietrofront improvviso. Se la scintilla che ha convinto il dimissionario presidente a un precipitoso ritiro è stata la notizia che alcuni settori delle forze armate e diversi battaglioni armeni di peacekeeping si erano unite alla marcia degli scontenti, una fronda all’interno del partito al potere ha facilitato l’uscita di scena del gerarca consegnando il potere alle forze rivoluzionarie e sventando possibili ricorsi alla repressione poliziesca.
Il governo Pashinyan
L’ondata rivoluzionaria e il fervore della piazza ha portato alla nomina di Pashinyan come primo ministro l’8 maggio scorso, ma già lo scarso margine ottenuto al momento del voto di fiducia (52 voti a 49) aveva sottolineato il residuo potere del partito repubblicano all’interno del parlamento. Necessario dunque un ulteriore passaggio: il 16 ottobre Pashinyan ha rimesso i suoi poteri al parlamento convocando nuove elezioni, fissate per il 9 dicembre.
Questa mossa appare scontata in quanto permetterà al primo ministro dimissionario di sfruttare gli altissimi tassi di popolarità (9 armeni su 10 hanno espresso il proprio supporto e simpatia per la figura e le istanze del primo ministro), l’onda lunga del fervore rivoluzionario e capitalizzare il recente successo ottenuto nelle amministrative della capitale Yerevan (81% per l’Alleanza il Mio Passo) per conquistare una maggioranza decisiva. Se dunque appare quasi scontata la vittoria elettorale, quali sono invece le possibili sfide e peculiarità che attendono l’Armenia e la sua classe dirigente nel prossimo futuro?
La relazione indispensabile con la Russia
L’andamento delle relazioni con la Russia appare il dossier più scottante nell’immediato futuro. Se l’ascesa al potere di Pashinyan ha creato delle aspettative per un cambio di passo dell’Armenia e un maggiore avvicinamento nei confronti dell’Unione Europea, alcuni fattori potrebbero far svanire o apparire premature queste ipotesi. La Russia, oltre che costituire il primo Paese partner commerciale dell’Armenia, è da anni impegnata in un’offensiva diplomatica e pragmatica nel modellare i fragili equilibri del Caucaso. Il Cremlino può contare su 5000 uomini dispiegati in due installazioni militari le quali, oltre che garantirgli una proiezione geopolitica (fondamentale per proseguire un politica assertiva in Medio Oriente), rappresentano per Yerevan un’importante e irrinunciabile forza di dissuasione nei confronti di una possibile offensiva azera.
Ed è proprio nei rapporti con l’Azerbaijan che Putin dimostra la sua abilità politica di mediatore garantendo un supporto alternato ai due Paesi in conflitto latente per il territorio conteso del Nagorno Karabakh. Yerevan teme una nuova guerra ed è fortemente consapevole di non poter rinunciare o rischiare di interrompere la relazione speciale con la Russia, pena l’isolamento diplomatico e l’assenza di deterrenza, dato l’ampio squilibrio di forze in campo e l’aggressività delle élite azere fortemente nazionaliste. Altre pressanti questioni lasciate in sospeso: il ricatto che la Russia esercita tramite la cessione a prezzi di favore di grossi quantitativi di gas naturale (uno strumento rodato di potere coercitivo del Cremlino di grande efficacia in quanto già sperimentato in Asia Centrale); l’importanza per la fragile economia di Yerevan delle rimesse che la nutrita comunità armena in Russia invia in patria (il 13% dell’economia secondo i recenti rilevamenti), nonché della liberalizzazione dei visti, ulteriore strumento di ricatto del Cremlino. In ultimo, la questione del CSTO (l’Organizzazione sul Trattato di Sicurezza Collettiva), fiore all’occhiello della postura militare e diplomatica di Mosca, rispetto alla quale alcuni segnali controversi (l’adesione armena al Partenariato Euro Atlantico) e dichiarazioni sembravano intravedere un progressivo affrancamento di Yerevan.
Pashinyan, giunto al potere, non solo ha dimostrato l’importanza dell’istituzione nei processi di politica estera della nazione, ma non ha nemmeno esitato a volare a Mosca per coordinare con il Cremlino una serie di iniziative commerciali che dovrebbero garantire a Yerevan possibili vantaggi nel processo di costruzione della Siria post-bellica.
Mosca appare rassicurata, consapevole della forte influenza politica, e si dimostra attore pragmatico in grado di lavorare con il nuovo premier sacrificando allo stesso tempo lo storico alleato e i legami economici con gli oligarchi e le fondazioni, ormai prive di ogni valore in quanto colluse con il vecchio regime. Elemento importante di questa continuità politica è sicuramente la scarsa esperienza politica e diplomatica di Pashinyan. Ma anche in caso di schiacciante (e prevedibile) vittoria, difficilmente assisteremo a un repentino cambio di passo nei confronti delle relazioni bilaterali sbilanciate tra Russia e Armenia, anche in luce di una disordinata reazione dell’Europa che, complici le sue lungaggini burocratiche e lentezze decisionali (ampiamente conosciute a Yerevan), non è stata in grado di opporsi alla politica attiva di bilanciamento del Cremlino. Secondo l’analista Claudia Ditel: “Le istituzioni dell’UE hanno chiaramente fallito nei loro tentativi di coinvolgere e attrarre l’Armenia. Ciò che c’è di sbagliato nelle politiche dell’UE è un approccio dall’alto verso il basso, che non ha preso sufficientemente in considerazione le dinamiche endemiche del Paese (The weaknesses of European Neighbouring Policy -The case of Armenia).
“Le istituzioni dell’UE hanno chiaramente fallito nei loro tentativi di coinvolgere e attrarre l’Armenia. Ciò che c’è sbagliato nelle politiche dell’UE è un approccio dall’alto verso il basso, che non è ha preso sufficientemente in considerazione le dinamiche endemiche del Paese.”
Claudia Ditel
Prospettive e sfide future
A dispetto di chi prova spesso a indovinare forzati collegamenti con le rivoluzioni colorate o con l’attualità politica della vicina Georgia (o con l’Ucraina), è innegabile che la responsabilità del cambio di governo sia in questo caso ampiamente nelle mani di un’opinione pubblica fortemente politicizzata e coinvolta nelle dinamiche decisionali del proprio Paese. Se le riforme economiche e strutturali dovranno essere la priorità della prossima classe dirigente (nonostante una promettente crescita economica del PIL del 7,5%, nel 2017 permane un tasso di povertà del 30% mentre si amplia la forbice nella distribuzione della ricchezza), il Paese non può prescindere dalla riapertura di un dialogo costruttivo e fondamentale con la Turchia e l’Azerbaijan che riapra le frontiere militarizzate con essi e riesca a colmare il reciproco solco di diffidenza scavato in anni di odio e sospetto. Il risveglio e la partecipazione degli armeni devono continuare a impegnare la società con lo stesso coraggio e determinazione con cui quest’ultima ha saputo liberarsi da un’ingombrante figura troppo legata a logiche di potere superate.