È di qualche giorno fa la notizia della chiusura dei rubinetti per Polonia e Bulgaria. I due Stati europei non avrebbero rispettato le nuove condizioni di pagamento imposte dal Cremlino. Dal 1° aprile, infatti, le forniture di gas naturale russo devono essere pagate attraverso Gazprombank, incaricata della conversione della valuta estera in rubli. Sia Varsavia sia Sofia, però, non avevano intenzione di rinnovare il proprio contratto con Gazprom. Tuttavia, questi avvenimenti si inseriscono in un quadro più ampio, quello della partita del gas tra Europa e Mosca, dove sicurezza energetica e necessità politiche ed economiche si intrecciano.
Sin dalle prime tensioni, il ruolo del gas naturale nel conflitto russo-ucraino è stato a lungo discusso. Il protrarsi dell’invasione ha portato gli Stati europei a manifestare una duplice necessità: diversificare le proprie fonti di approvvigionamento energetico per non essere esposti ad un eventuale ricatto russo e allo stesso tempo cercare di ridurre, anche nel breve termine, le importazioni di gas e petrolio da Mosca. Questo perché il budget statale russo risulta largamente dipendente dagli export del settore energetico; andando a ridurre gli introiti provenienti da queste attività, quindi, si ridurrebbe anche la capacità russa di finanziare il conflitto in Ucraina.
In ultima istanza, però, l’Occidente europeo rimane dipendente dalle forniture energetiche di Mosca, in particolare di gas. A fronte di questa realtà, lo scorso 8 marzo la Commissione Europa ha presentato il piano “REPowerEU”, il cui obiettivo è quello di rendere l’Unione indipendente dalle importazioni di energia fossile russa prima del 2030. In particolare, sarebbe possibile ridurre di due terzi l’acquisto di gas (sia GNL sia da gasdotto) entro la fine del 2022, rispetto ai livelli del 2021.
La strategia proposta da Bruxelles si articola sostanzialmente in due parti. Si dovranno innanzitutto diversificare le fonti di approvvigionamento di gas. Questo comprende un aumento nell’acquisto di GNL e nelle importazioni da gasdotti di fornitori non russi. Contestualmente, il documento prevede un aumento dell’efficienza energetica e l’uso di fonti rinnovabili come l’energia solare per ridurre la domanda europea di gas.
Restano due interrogativi a cui risulta necessario rispondere. Il primo riguarda la fattibilità di questo piano; il secondo la sua sostenibilità. Uno studio condotto dall’Oxford Institute for Energy Studies ha messo in luce alcune criticità da tenere a mente. Sul breve termine, queste comprendono innanzitutto l’evoluzione del mercato del GNL, che potrebbe portare clienti europei e asiatici a contendersi questa commodity (con conseguenze sui prezzi). Segue la limitata capacità della Norvegia di esportare più gas attraverso le infrastrutture esistenti, accompagnata dalle difficoltà a intrattenere rapporti commerciali con partner politicamente instabili, come la Libia. In questo quadro si inserisce poi anche l’Algeria, che farà fatica ad aumentare i propri export di gas, vista la crescente domanda interna. Sul lungo termine, invece, resta l’incognita di un mercato sempre più rigido, a cui l’Unione Europea dovrà in parte partecipare, nonostante la transizione green, per soddisfare il proprio fabbisogno energetico.
Ma non tutti gli Stati membri dell’Unione Europea dipendono dal gas russo allo stesso modo. Questa sembra essere la consapevolezza dietro la scelta di Putin di introdurre un meccanismo speciale per assolvere al pagamento del gas che riguarda tutti i “paesi ostili”. Il Decreto del 31 marzo stabilisce una procedura in più fasi, che richiede l’apertura di due conti di tipo “K” presso Gazprombank. All’acquirente viene richiesto solo di trasferire la propria valuta estera in uno dei due account. Tutte le successive transazioni sono gestite da Gazprombank, che si occupa di convertire la valuta estera in rubli attraverso la Moscow Exchange. L’ammontare in rubli viene poi stanziato nel secondo conto dell’acquirente e da lì direttamente trasferito da Gazprombank all’account di Gazprom.
È chiaro che questo meccanismo, pur riconoscendo la reticenza dei partner a gestire le proprie transazioni direttamente in rubli, presenta una serie di rischi. Il più evidente riguarda sicuramente il fatto che l’acquirente assolve al proprio obbligo di pagamento solamente quando il corrispettivo in rubli raggiunge il conto di Gazprom. Tuttavia, questa transazione risulta essere al di fuori del suo controllo. E il mancato adempimento a questa procedura (supposto o reale), determina uno stop ai flussi di gas dalla Russia, come abbiamo visto nel caso di Polonia e Bulgaria. Si tratta quindi di un test per l’Occidente. Lo scopo ultimo è quello di spezzare il fronte europeo tra coloro che, vista la propria dipendenza energetica da Mosca, accettano le condizioni imposte dal Decreto e coloro che invece scelgono di non farlo.
Mentre l’Unione Europea cerca di elaborare una risposta coerente, che concili la necessità di importare gas senza contravvenire a quanto previsto dalle sanzioni, il mercato del gas continua a essere plagiato da questa incertezza. Dopo lo stop delle forniture a Varsavia e a Sofia, il prezzo del gas è aumentato del 16%. L’instaurazione di un clima fortemente instabile, che sia in grado di mantenere alti i prezzi dei contratti, va sicuramente a vantaggio della Russia. Se l’obiettivo dell’Europa è quello di ridurre i guadagni del Cremlino, l’attuale strategia potrebbe non dare i frutti sperati.
Attualmente, il dibattito si concentra attorno a due possibili alternative. La prima comporta una sostanziale riduzione dell’incertezza sul mercato. Se gli Stati europei rendessero manifesta la loro volontà di continuare ad importare gas dalla Russia attraverso contratti a lungo termine, i prezzi ne beneficerebbero, abbassandosi significativamente e limitando gli introiti di Mosca. Questa strategia, però, pur seguendo una ferrea logica economica, ha dei costi politici. Se è vero che tutte le conseguenze negative di una eventuale chiusura dei rubinetti si sposterebbero sulle spalle di Putin, è anche vero che l’Unione Europea continua ad avere la necessità di distanziarsi da Mosca visto il conflitto in Ucraina.
La seconda, invece, vede lo stop totale delle importazioni dalla Russia. La scelta di sanzionare il gas russo azzererebbe nell’immediato i profitti del Cremlino. Senza un piano di back-up, però, l’embargo avrebbe conseguenze disastrose sull’economia europea e a livello globale sul prezzo del gas.
La partita del gas sembra quindi aver raggiunto una fase di stallo, in cui l’Europa si trova impelagata in una soluzione non completamente funzionale al raggiungimento dei suoi obiettivi. D’altro canto, l’interesse principale del Cremlino è quello di continuare a vendere sul mercato europeo, almeno fino a quando il mercato asiatico non sarà pronto (se sarà pronto) ad assorbire gli export russi. Una cosa però è certa: la crisi in Ucraina, coinvolgendo da subito l’elemento energetico, ci ha imposto di ripensare la globalizzazione come la conosciamo e a pesare le implicazioni politiche dei rapporti economici, e non solo viceversa.