L’aggressione russa ha immediatamente ricompattato una classe politica ucraina lacerata da lotte interne. Non a lungo però. Riemergono ora rivalità e conflitti che il team presidenziale sta cercando di domare. La guerra giustifica tutto. Ma per quanto ancora?
“All’inizio della guerra, il primo giorno, ho incontrato tutti (i politici dei diversi schieramenti, NdA) e ho detto loro: ‘se nessuno di voi scappa, (…) dimenticheremo (…) tutte le incomprensioni. E l’ho offerto a tutti (…). E tutti l’hanno accolto positivamente. Poi è iniziato (…) ‘il conflitto di Zelens’kyj con qualcuno’. Cioè, sono tornati alle loro armi, alle armi pre-belliche”[1]
Così il presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj descrive il rapido evolversi dei rapporti tra i diversi schieramenti politici nel corso di questi tre mesi di guerra. In effetti, l’invasione russa aveva immediatamente ricompattato le forze politiche ucraine attorno al presidente. I confini tra i partiti erano sfumati, non c’erano più “servitori del popolo” e “regionali”. Sostenere il Paese o lasciarlo. E persino molti rappresentanti dell’opposizione filorussa si sono uniti al presidente nella difesa della patria. Orest Vilkul, ad esempio, capo dell’amministrazione militare di Kryvyj Rih (città natale di Zelens’kyj) e membro di Piattaforma di Opposizione – Per la Vita, principale partito filorusso ucraino, ha guidato la difesa della città contro i russi dichiarando: “La regione di Kryvyj Rih è unita attorno al suo presidente”[2].
Oggi il suo partito, arrivato secondo alle parlamentari del 2019, è stato messo al bando insieme ad altre 10 realtà politiche considerate “pro-russe” e dunque “una minaccia per la sicurezza nazionale ucraina”.
Il tramonto dell’opposizione filorussa?
L’etichetta di “pro-russo” sull’onda della polarizzazione politica seguita alla rivoluzione di Euromaidan si è estesa nei suoi significati, raccogliendo tutte quelle forze in contrasto con la leadership pro-occidentale, neoliberale e nazionalista affermatasi in Ucraina dopo i fatti del 2014[3]. In effetti la lista dei partiti messi al bando per decreto presidenziale, oltre alle forze effettivamente percepite come filorusse, come Piattaforma di Opposizione – Per la Vita, i “Naši” di Murayev o il partito del blogger Anatolij Šarij, include altri gruppi minori i cui effettivi legami con Mosca sono dubbi. E ancora più dubbia la loro capacità di utilizzarli contro Kiev, soprattutto in considerazione della storica debolezza e limitata capacità di mobilizzazione dei partiti politici in Ucraina. Nel mirino anche le forze di sinistra, significative negli anni Novanta, ma poi gradualmente marginalizzate, fino a quando la Legge sulla Decomunistizzazione del 2015 aveva sancito la cessazione delle attività dello storico Partito Comunista.
Nulla di nuovo quindi sotto i cieli ucraini: la messa al bando di partiti d’opposizione, oggi giustificata dall’aggressione russa, non è certo prerogativa dell’attuale leadership governativa. Conta invece più di un precedente nella storia ucraina, quasi un elemento sistematico nella ciclicità che si può ormai intravedere nella politica ucraina post-sovietica: una fase di riformismo democratico seguito da una democrazia puramente formale si evolve presto in autoritarismo, che a sua volta scatena proteste e rivoluzioni. Il reset che ne deriva dà inizio ad un nuovo ciclo[4].
Euromaidan mise, infatti, fuori gioco non solo il Partito Comunista, ma anche e soprattutto il Partito delle Regioni di Viktor Janukovyč: radicato nell’Ucraina sud-orientale e sostenuto dai clan industriali locali, filorusso e regionalista, tra il 1994 e il 2004 aveva appoggiato il presidente Kučma, protagonista indiscusso della politica ucraina di quegli anni. Successivamente si è poi affermato come partito quasi egemonico tra il 2010 e il 2014 dopo aver sconfitto le forze della Rivoluzione Arancione, che nel 2006 avevano rovesciato il “sistema Kučma”: il partito “Nostra Ucraina” di Viktor Juščenko (presidente tra il 2006 e il 2010) e “Patria” di Julia Tymošenko (primo ministro tra il 2007 e il 2010). Giunto al potere, Janukovyč si era preoccupato di soffocare ogni minaccia proveniente dall’opposizione arrivando a sanzionare o imprigionare leader della Rivoluzione Arancione come Tymoshenko e Jurij Lutsenko (ex Ministro degli interni).
Tornate al potere nel 2014 con la rivoluzione e la fuga di Janukovyč, queste forze misero a loro volta fuori gioco il Partito delle Regioni, giustificate – anche in questo caso – dalla minaccia russa. Dalle ceneri del Partito delle Regioni nacque il Blocco di Opposizione che avrebbe dovuto ereditare l’elettorato del suo predecessore e del Partito Comunista. Ma l’annessione russa della Crimea e i separatismi nel Donbass avevano ormai alterato la geografia elettorale ucraina, privandola di parte importante della componente russofona (e parzialmente filorussa), riducendo il bacino elettorale del Blocco di Opposizione. La dura retorica anti-russa e nazionalista della leadership al potere poi non faceva che marginalizzare ulteriormente le forze filorusse e regionaliste.
Tuttavia, l’insoddisfazione popolare nei confronti della leadership di Porošenko, a maggior ragione per coloro che non potevano sentirsi rappresentati dalla retorica nazionalista del presidente, ha offerto all’opposizione filorussa una nuova chance. Superato il disorientamento post-Euromaidan, queste forze si sono riorganizzate nel partito Piattaforma di Opposizione – Per la Vita, guidato da Jurji Bojko e Viktor Medvedčuk. Complici anche il ruolo di mediatori nel conflitto con la Russia che i due si erano ritagliati, il loro potere mediatico e il sostegno da parte di potentati economici, il partito è arrivato secondo alle parlamentari del 2019, primo nell’Ucraina orientale.
Il consenso per l’opposizione filorussa ha continuato a crescere tanto più diminuiva quello del nuovo presidente Volodymyr Zelens’kyj. Almeno fino a quando il suo principale leader, Viktor Medvedčuk non è finito del mirino della lotta agli oligarchi di Zelens’kyj – ben prima che iniziasse la guerra con Mosca: l’oligarca (notoriamente vicino a Putin) è stato sanzionato, i suoi canali televisivi messi al bando e condannato agli arresti domiciliare per tradimento, accusato di aver fatto affari con i separatisti del Donbass. Fuggito dagli arresti domiciliari agli inizi della guerra (probabilmente sperando in un aiuto russo) è stato catturato e offerto a Mosca per uno scambio di prigionieri, proposta cui la Russia ha risposto con una certa freddezza.
Il futuro dell’opposizione filorussa è quindi oggi quantomeno incerto. Eppure ciò che ne resta ha comunque tentato un timido rebranding: il 21 aprile alcuni deputati guidati da Bojko hanno fondato “Piattaforma per la vita e per la pace”, prendendo le distanze da Mosca. In effetti, la compagine filorussa (o comunque russofona) ha già dimostrato di poter risorgere dalle proprie ceneri in passato, ma il trauma della guerra non potrà che lasciare un’impronta profonda, su un terreno già lacerato. Se nella Kharkiv riconquistata si discute la possibilità di eliminare Puškin dalle vie perché “troppo russo”, difficile immaginare un futuro per quelle forze su cui grava anche solo il ricordo di un legame con Mosca. Molto dipenderà però da come la guerra modificherà la composizione elettorale del Paese e quale sarà il futuro della sua pluralità identitaria e della sua compagine russofona. Nonché dalla capacità delle élite al potere di rappresentarla.
Minacce dal fronte filoccidentale
Se l’aggressione di Mosca ha inevitabilmente compromesso il ruolo dell’opposizione filorussa in Ucraina, allo stesso tempo avrebbe dovuto invece consacrare quello dei leader dell’Euromaidan, come Porošenko o Tymošenko, Jatsenjuk o Grojsman, che con la guerra si sono visti confermare le proprie narrative anti-russe. Eppure in un’Ucraina in guerra in cui tutte le decisioni sono state accentrate nelle mani del presidente e del suo team, anche queste forze filo-occidentali sembrano aver perso significatività.
A dare un ulteriore contributo alla loro marginalizzazione è stata la politica dei media adottata dal presidente nell’ambito della legge marziale introdotta a seguito dell’invasione russa: la nuova “politica informativa unitaria” prevede l’unificazione di tutti i canali nazionali in un’unica piattaforma, formalmente allo scopo di gestire il caos informativo legato alla guerra. L’informazione viene così monopolizzata dal governo, privando i leader delle opposizioni di una fondamentale finestra di espressione.
Tra questi, Porošenko, con le sue ingenti risorse finanziare e i diversi canali televisivi, avrebbe potuto rappresentare una delle ultime minacce al monopolio di Zelens’kyj. Lo scorso 4 aprile però tre dei canali televisivi controllati dall’ex presidente sono stati esclusi dalla trasmissione digitale, ufficialmente per essersi rifiutati di partecipare alla maratona informativa “#UA together” voluta dal governo. La decisione sarebbe seguita alle critiche rivolte dal partito di Porošenko “Solidarietà Europea” in merito alla posizione di Kiev nei negoziati di pace. Sotto attacco dalle istituzioni da prima della guerra, Porošenko, per quanto cerchi di sfidare Zelens’kyj con le sue presenze al fronte in divisa militare, ha perso ormai il proprio monopolio di presidente che ha guidato l’Ucraina in guerra e dovrà pertanto riposizionare la propria retorica politica per tentare di ricavarsi un nuovo spazio.
Per quanto i volti storici della politica ucraina sembrino essere al momento sotto controllo, la guerra potrebbe portare alla ribalta nuovi personaggi in grado di ritagliarsi un ruolo nella politica ucraina post-bellica. A battere ogni record di consensi sono le forze armate: in particolare, agli occhi degli ucraini l’eroica resistenza dell’esercito viene impersonata da Valerij Zalužnyj, comandante in capo delle forze armate ucraine. La minaccia non è sfuggita negli uffici presidenziali di via Bankova, dove alcuni membri della ristretta cerchia di Zelens’kyj starebbero tenendo d’occhio il potenziale rivale, timorosi che il fondo di beneficenza che il generale ha recentemente istituito possa evolversi in un progetto politico[5].
La compattezza con cui le forze politiche ucraine hanno risposto all’invasione non è riuscita a soffocare a lungo le dure lotte interne precedenti al conflitto che stanno tornando in superficie riproponendo la polarizzazione politica dell’Ucraina pre-bellica. Se prima però i contrasti politici si sviluppavano lungo faglie identitarie, linguistiche e regionali (prontamente strumentalizzate a scopo politico), oggi la politica ucraina si è polarizzata attorno al presidente: o si è pro o si è contro Zelens’kyj, il conflitto è di “Zelens’kyj con qualcuno”, nelle già citate parole del presidente ucraino. La politica si identifica con la persona di Zelens’kyj e si concentra nelle sue mani e in quelle della sua squadra, mentre, nella consueta dicotomia ucraina “presidenza-parlamento”, la Verkhovna Rada passa in secondo.
Una tradizione, questa, inaugurata nei (non così lontani) anni Novanta da Leonid Kučma quando una neonata Ucraina post-sovietica stava muovendo i primi passi nel suo difficile processo di state-building. Oggi è la guerra a giustificare il ritorno ad un sistema politico (tipicamente post-sovietico) mai pienamente abbandonato. Una volta terminato il conflitto è però difficile immaginare che la nuova élite sia disposta a rinunciare al proprio potere, al monopolio informativo o a riammettere i partiti di opposizione filorussa. Qualora la minaccia russa dovesse allentarsi, cosa impedirà a chi è stato escluso dai giochi di potere di Kiev di rivolgere il proprio sguardo verso Mosca? E venuto meno l’ombrello giustificativo della guerra, una popolazione, il cui sogno democratico risuona ancora nel Majdan, fino a che punto sarà disposta ad accettare il ritorno ad un passato dal quale ha cercato di liberarsi con ben due rivoluzioni in trent’anni?
La storia – innanzitutto quella ucraina – inviterebbe a qualche cautela.
Riferimenti bibliografici
[1] R. Romanjuk, R. Kravets’, “Politika pid chas vijny: jak Zelens’kyj znyshchuie konkurentiv”, Ukrains’ka Pravda, 22.04.2022.
[2] A. Klitina, “Ukraine’s Domestic Foreign Political Scene During Wartime – A Brief Discussion”, Kyiv Post, 08.05.2022.
[3] V. Ischenko, “Why did Ukraine suspend 11 ‘pro-Russia’ parties”, Aljazeera, 21.03.2022.
[4] M. Minakov, M. Rojansky, “Democracy in Ukraine: Are We There Yet?”, Kennan Cable, No. 30 January 2018.
[5] R. Romanjuk, R. Kravets’, “Politika pid chas vijny: jak Zelens’kyj znyshchuie konkurentiv, ibid.