Il report di fine anno del nostro progetto. Dalla politica all’economia, dallo sport alla geopolitica, ripercorriamo i principali eventi dell’anno appena trascorso e proviamo a tracciare un quadro delle prospettive future.
Indice
Introduzione
1) Putin sulle montagne russe
2) It’s the Putinomics, stupid!
3) Lo sport e il soft power russo
4) La crisi dell’Ortodossia
5) Russia e Occidente ai ferri corti
6) Le tensioni con l’Ucraina
7) Medio Oriente: la pax russa?
Introduzione
Descrivere un anno, di per sé, non è impresa facile. Non lo è perché gli eventi si intrecciano con i trend di lungo periodo, e spesso non riescono a tracciare un senso compiuto, adatto ad una narrazione giornalistica.
Ma se è possibile è ancor meno facile per noi, che abbiamo vissuto il 2018 come la cornice di questo progetto, vivendone con intensità tutte le fasi. Il calendario degli eventi russi ha scandito i nostri programmi, scadenze e obiettivi. Come avevamo annunciato fin dall’inizio, abbiamo dedicato una particolare attenzione alle Presidenziali di marzo e ai Mondiali di giugno e luglio, convinti (come tutti gli analisti, del resto) che sarebbero stati i momenti dirimenti del 2018 russo.
Ma come era prevedibile, il 2018 è stato molto di più dalle parti di Mosca. È stato l’anno della dolorosa riforma pensionistica ma anche della più grande esercitazione militare della storia della Federazione; l’anno dell’inaugurazione del ponte sullo Stretto di Kerč’ ma anche quello del caso Skripal’ e delle maggiori polemiche sui “troll russi”; l’anno dei record di consenso per Putin ma anche quello in cui, specie nelle regioni orientali, si sono manifestati i più sensibili segnali di disaffezione verso il presidente e il suo partito.
Insomma, il 2018 non è stato un anno univoco per la Russia. E nel tracciarne un bilancio, proveremo ad agganciare gli argomenti trattati nei mesi scorsi con le nostre osservazioni finali, rielaborate con l’inevitabile “senno del poi”, per tentare di prevedere gli sviluppi futuri.
Con questa analisi ci congediamo e chiudiamo questa avventura. Un esperimento in buona parte riuscito, dei cui risultati vi riferiremo più specificatamente nella prossima e ultima newsletter. Come sapete già, non è un addio ma un arrivederci. Dopo una breve pausa, necessaria per le vacanze natalizie e per ripartire col piede giusto, torneremo a sentirci con un nuovo sito e nuovi formati di approfondimento sulla Russia.
A presto dunque, buona lettura e buon 2019!
Il Team di Russia 2018
1) Putin sulle montagne russe
Non si può non cominciare questa rassegna dall’eterno presidente russo. E non per una sterile esaltazione del personaggio, alla quale già molti (anche in Europa) partecipano già attivamente. Ma perché, nel bene e nel male, ha segnato ancora una volta l’anno appena trascorso più di ogni altra persona in Russia.
Che fosse il vincitore designato delle Presidenziali del 18 marzo, era un dato certo. Nessun analista aveva previsto una sua sconfitta, ma nemmeno un passaggio dagli eventuali (e scomodi) ballottaggi. Eppure, allo stesso tempo, in pochi avevano immaginato che la quarta riconferma di Vladimir Putin avrebbe avuto contorni così netti e insindacabili. Tanto più che alcuni passaggi (come la scelta di candidarsi al di fuori del proprio partito, Russia Unita, o la deflagrazione del caso Skripal’ a pochi giorni dal voto) avevano destato tra gli osservatori qualche perplessità sulle dimensioni del successo previsto.
A torto, perché la logica degli eventi non segue sempre un percorso lineare. E così, mentre l’indipendenza politica (formale) di Putin ha rappresentato un’abile lettura dei tempi (il vento anti-establishment soffia anche a Mosca), gli attacchi esterni si sono rivelati addirittura un boomerang, portando il popolo russo a compattarsi attorno al proprio leader di fronte a qualsiasi ipotesi di un suo coinvolgimento nell’avvelenamento dell’ex spia russa Skripal’.
Certo, l’assenza di Naval’nyj dalla competizione avrà pesato. Non sapremo mai quanto, probabilmente comunque più dei brogli (tutto sommato risibili in termini complessivi). Ma è valsa anche la strategia del dividi et impera: le opposizioni, divise, hanno presentato ben sette diversi candidati, e non hanno mai costituito un pericolo per il Cremlino.
Una frammentazione politica di cui Putin si gioverà anche in altri frangenti. Durante l’estate, a guidare la protesta contro la riforma delle pensioni c’è il Partito Comunista, ma non vi si coaguleranno attorno tutti gli altri ex sfidanti del presidente. Le opposizioni falliscono nel far fronte comune anche a settembre, quando le elezioni amministrative consegnano per la prima volta alcune regioni ai comunisti e ai liberal-democratici. Quasi un evento, nel ferreo ordine politico di Russia Unita. Ma ancora, nessuno scossone determinante per la leadership di Putin, che a meno di clamorose sorprese durerà fino alla scadenza naturale del 2024.
Sembra passato già tantissimo tempo dal trionfo elettorale del 18 marzo: finito il panem (ovvero allungata l’età pensionabile) e finiti pure i circenses (i Mondiali di calcio estivi, che pure sono stati un successo indiscutibile), i russi appaiono già disaffezionati a Putin. Gli ultimi sondaggi danno il gradimento del presidente addirittura sotto il 40%, un record negativo. Singolarmente, il Levada Centr ha registrato anche un picco senza precedenti di nostalgia verso l’Unione Sovietica.
Ma non c’è alcun golpe rosso all’orizzonte, nessuno scenario paragonabile al 1991. Tra i rimpianti maggiori dei russi, infatti, vi è quel senso di stabilità perduto con la fine del vecchio regime. Una stabilità che, almeno in senso politico, nessun altro al di là di Putin può oggi garantire alla Russia.
2) It’s the Putinomics, stupid!
Si potrebbe rispondere con questa battuta, a chi dovesse stupirsi per l’andamento non proprio esaltante dell’economia russa: secondo i dati illustrati dallo stesso Putin nella conferenza stampa di fine anno, il PIL di Mosca nel 2018 è cresciuto dell’1,7% (poco oltre quindi l’1,4% dell’anno precedente).
Un interessante saggio di Chris Miller, pubblicato all’inizio dell’anno, non si limitava a illustrare gli indicatori macroeconomici di Mosca, ma ne spiegava la quasi totale inevitabilità, legata al sistema di potere e di relazioni industriali stabilito da Putin.
Secondo Miller, infatti, la modernizzazione (intesa anche come diversificazione) dell’economia russa andrebbe a scontrarsi con le esigenze di alcuni gruppi di sostegno chiave, e dunque potrebbe minare la stabilità del potere dello stesso Putin. Si pensi solo all’influenza determinante di Gazprom, o alle pressioni provenienti dagli apparati di produzione degli armamenti militari, chiaramente contrari a qualsiasi riduzione delle spese in favore di altre voci di bilancio. Da questo punto di vista, l’era degli oligarchi in Russia non è mai realmente finita.
Certo, la bassa crescita non dipende solo dai mancati investimenti sulle innovazioni, ma anche da una precisa scelta di campo macroeconomica: il mantenimento della stabilità finanziaria, preservata grazie a bassi deficit di bilancio, un debito pubblico molto ridotto e un’inflazione (4%) ancora sotto controllo. Indicatori importanti da tenere in considerazione, specie dopo la crisi valutaria del 2014/15, durante la quale il rublo aveva perso oltre la metà del suo valore d’acquisto e la stessa inflazione galoppava ad una quota a doppia cifra (15%).
Al di là del successo delle misure di contenimento, attuate sia dal governo che dalla Banca centrale, viene da chiedersi però quanto a lungo l’attuale sistema possa essere sostenibile. Ed in particolare, se la Russia potrà continuare a fregiarsi del titolo di “economia emergente” con una crescita inferiore alla media di Stati Uniti ed eurozona, per tacer del confronto con gli altri Paesi del gruppo BRICS.
Il gap da colmare è elevato, e lo riconoscono tutti. L’ambizione dichiarata da Putin sarebbe quella di far rientrare la Russia tra le prime cinque economie del globo (attualmente è dodicesima), ma una simile impresa è velleitaria e pressoché impossibile con gli attuali ritmi. L’annuncio di 20 miliardi di dollari di investimenti nel settore industriale farà sicuramente contento qualcuno a Mosca, ma non cambierà di certo i rapporti di forza globale.
A proposito di questi ultimi, il primo Paese da citare è sicuramente la Cina. Un partner obbligato di Putin, ma finora più per motivi politici (dato l’isolamento internazionale di Mosca) che economici. Nell’estremo oriente russo Pechino è vista come una minaccia, anche in termini di stabilità sociale e demografica. Ma non vi è dubbio che al contempo la Cina possa rappresentare un’opportunità, specie come importatore energetico, o persino come un’ancora di salvezza qualora le cose, a Mosca, dovessero precipitare.
La Russia oggi si trova davanti a un bivio. Il 2018 , anno dell’ultima rielezione di Putin, potrà significare due cose. O l’inizio della fine delle promesse elettorali, e dunque di un certo tipo di welfare che aveva portato una relativa stabilità (si veda l’ultima riforma pensionistica “lacrime e sangue”), o l’inizio di un percorso virtuoso che in qualche modo provi ad abbandonare i vecchi dogmi, puntando sull’innovazione e scommettendo sui settori finora meno sviluppati, spesso coincidenti con quelli più appetibili per gli investitori stranieri. A patto che le liberalizzazioni non seguano la scia di quanto avvenuto negli anni Novanta. Altrimenti le proteste – come quelle avvenute nella scorsa estate – saranno sempre più frequenti e inevitabili.
3) I Mondiali di calcio: va in scena la politica del soft power
Ancora una volta è il caso di dire che un grande evento sportivo internazionale è il trait d’union tra politica e soft power. Svoltisi in un clima internazionale teso, che vede la Russia emarginata da alcuni tra i più importanti consessi globali, i Mondiali hanno saputo restituire l’immagine di un Paese sereno e accogliente. Una parentesi positiva in termini di immagine nel mezzo di un anno che è stato caratterizzato per le tensioni della Russia con i Paesi occidentali su molti fronti.
Lo svolgersi dell’evento è stato ampiamente anticipato da tutta una serie di forti critiche che hanno inficiato la credibilità della Russia e la sua legittimità ad ospitare il massimo torneo calcistico. Indagini svolte sulle procedure di assegnazione dei Mondiali hanno scoperto un complesso e sostanzioso giro di interessi e corruzione al fine di influenzare le votazioni per l’assegnazione dell’organizzazione della Coppa del Mondo.
La fase successiva, quella della realizzazione delle infrastrutture, è stata caratterizzata da ritardi e imprevisti. Assegnati gli appalti alle maggiori imprese russe, tra le quali molte possono vantare un filo diretto con il Presidente, i lavori sono proceduti a rilento. Per poi accelerare alla fine, a scapito delle condizioni lavorative degli operai – in maggior parte immigrati dall’Asia Centrale – ed essere terminate a pochi giorni dall’evento.
Il fischio d’inizio ha finalmente messo in primo piano il calcio, con l’eccellente performance della nazionale di casa, arrivata fino ai Quarti, e l’inaspettata e combattuta finale tra una vittoriosa Francia e un’energica Croazia. Al di là delle partite, centinaia di migliaia di spettatori hanno affollato le strade delle principali città russe che per l’occasione sono state rimodernate e ripensate con mezzi dedicati e segnaletica in inglese. I principali eventi si sono svolti in un clima disteso e i non si sono verificati disordini o altri eventi critici dal punto di vista della sicurezza.
Quasi assente dalla manifestazione l’apparato istituzionale russo. Putin ha ridotto al minimo le sue apparizioni pubbliche, presenziando solo agli incontri principali della manifestazione. Da un lato questa strategia è stata dettata dal rischio di brutte figure da parte della propria nazionale, oggettivamente debole. Cosa in realtà mai avvenuta (e anzi, la vittoria della Russia sulla Spagna è stata un’inattesa vetrina per Medvedev, inviato allo stadio al posto del presidente). Dall’altra parte, la scelta di Putin è stata legata alla volontà di non associare la propria immagine agli incontri sportivi, per evitare ogni manifestazione ogni motivo di protesta. Le forze di polizia, ad ogni modo, sono intervenute con modalità meno invasive rispetto a quelle che avevano caratterizzato l’atmosfera dei giochi olimpici di Soči 2014.
È ancora presto per trarre un bilancio dettagliato dal punto di vista economico dei Mondiali di Russia 2018 – e difficilmente le cifre veritiere saranno rese al pubblico.La festosa atmosfera dei Mondiali poggia però su basi instabili. L’evento ha infatti messo in evidenza alcuni limiti strutturali del Paese. Un sistema fortemente centralizzato e dirigista, un modello che si è sviluppato secondo una fitta rete di interessi e rapporti diretti, che presenta numerose inefficienze dal punto di vista economico e, nella maggior parte dei casi, pochi benefici per la maggioranza della popolazione. Infine le infrastrutture, complesse e moderne, sono state realizzate a spese dei lavoratori, una silenziosa minoranza di immigrati centroasiatici fonte di lavoro a basso costo e non tutelata nel sistema di produzione russo.
L’organizzazione dei Mondiali da parte di Mosca corrisponde a una più ampia strategia di promozione dell’immagine del Paese ormai avviata da anni – iniziata con le Olimpiadi di Sochi nel 2014 – che mira a proiettare una Russia aperta, moderna ed efficiente contrapposta alle tensioni degli ultimi anni che hanno caratterizzato i rapporti coi Paesi occidentali in vari teatri della politica internazionale.
4) La crisi dell’Ortodossia. Gli eventi del 2018 e i possibili sviluppi futuri
La vicenda dello scisma ucraino che quest’anno ha sconvolto l’Ortodossia ha sottolineato ulteriormente quanto siano stretti ad Est i legami fra politica e religione, quanto la storia possa influire e avere un peso nei processi decisionali multilaterali e come la costruzione di un’identità nazionale sovente si accompagni a un culto religioso percepito e patrocinato dallo Stato.
L’allontanamento dell’Ucraina dalla Russia conseguente al cambio di regime del 2014, il conflitto semi congelato nel Donbass e il confronto delle rispettive marine lungo lo stretto di Kerč’ hanno reso quasi inevitabile un affrancamento religioso di Kiev dal patriarcato di Mosca, che proietta l’influenza della politica estera russa attraverso una perfetta “sinfonia” tra Stato e Chiesa di bizantina memoria.
Il presidente ucraino Porošenko ha ottenuto per l’Ucraina l’autonomia di una propria Chiesa autocefala, riunendo nel corso di un mediatico convegno il 15 dicembre la precedente Chiesa Ortodossa facente capo a Kiev (con patriarca l’anziano Filarete) e una piccola compagine autocefala e marginale. Il nuovo primate della Chiesa ucraina sarà il giovanissimo Epifanyj, eletto nella Chiesa di Santa Sofia, che dovrà recarsi il 6 gennaio a Istanbul per ricevere dalle mani del patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo il “tomos” dell’autocefalia, ovvero l’atto supremo che sancisce l’indipendenza ecclesiale e anche i termini dei rapporti con la Chiesa madre, che ora per Kiev sarà Costantinopoli e non più Mosca.
Se la creazione e il rafforzamento di una Chiesa ortodossa indipendente dall’influenza moscovita può sembrare una vittoria per Porošenko, in realtà tante sfide sono attese per il futuro prossimo. Mosca, che ha condannato lo scisma come antistorico e deleterio per le future relazioni tra le due nazioni, ha parimenti condannato le alte sfere ecclesiali di Costantinopoli, minacciando battaglia su ogni chiesa in Ucraina quando il nuovo patriarcato di Kiev cercherà di prendere possesso di quante più possibili giurisdizioni e parrocchie ancora referenti al patriarcato di Mosca (ma stabilite in territorio ucraino).
La partita non verrà giocata solo dall’agguerrito patriarca di Mosca Kirill, ampiamente spalleggiato dal Cremlino, che può contare ancora su numerosi fedeli in Ucraina (soprattutto ad est e fra i russofili) e farà sicuramente valere il peso economico e demografico dell’Ortodossia russa nell’intero ecumene ortodosso. Ma rischia di aprire una finestra di opportunità per altre chiese ortodosse soggette al patriarcato di Mosca, che sull’onda lunga dello scisma potrebbero scatenare tensioni con Mosca o nel peggiore dei casi chiedere l’autocefalia, sperando nel sostegno complice di Kiev.
È il caso della Bielorussia e della Moldavia, ma anche del Giappone e dei paesi Baltici dove persistono politiche di esclusione delle minoranze russofone e delle loro prerogative religiose e culturali. Nel caso proseguano le tensioni fra Minsk e Mosca, unite da una ferrea alleanza che per il partner minore Lukašenko inizia a diventare giorno dopo giorno sempre più soffocante, le tensioni fra il metropolita Filarete che rappresenta i fedeli bielorussi e il patriarcato di Mosca potrebbero esplodere in ulteriori confronti religiosi che rischiano di dividere il già frammentato e litigioso fronte ortodosso.
Il futuro dell’ecumene ortodosso si giocherà anche nelle relazioni tra il patriarca di Costantinopoli e il “primus inter pares” Bartolomeo I, da sempre contrario allo strapotere dei russi e fautore della preminenza storico culturale di Costantinopoli. Mosca ha sollevato con veemenza un quesito teologico ed ecclesiologico – quali sono i reali poteri del patriarcato ecumenico nel concedere l’autocefalia e non solo – che non potrà rimanere a lungo senza risposte, e sul quale potrebbe far leva per discutere la legittimità delle scelte ucraine e di future pari manifestazioni di dissenso.
5) Il caso Skripal’, le ingerenze e le sanzioni: Russia ed Europa ai ferri corti
I rapporti tra l’Unione europea e la Russia si erano sicuramente già da tempo deteriorati. La mancata riforma dell’Accordo di partenariato (fulcro normativo delle relazioni tra i due partner), infatti, nel primo decennio degli anni 2000, era già sintomatica di una non volontà di dirigersi nella stessa direzione. Inserendosi all’interno di questo quadro, il 2018 è stato sicuramente l’anno emblema della diversificazione dei due partner, entrambi ben attenti a rivolgersi altrove sia in ambito commerciale che più prettamente politico.
Le sanzioni economiche sono ormai un’arma dell’Unione europea consolidata, essendo in vigore già da quattro anni. Simbolo del netto divorzio tra l’Unione e la Federazione, nel 2018 ne sono stati prorogati i termini fino al 2019 (con date specifiche diverse a seconda del tipo di misure adottate), mantenendo il dialogo tra i due partner congelato. Infatti, nonostante si parli soprattutto delle ripercussioni che le misure restrittive hanno avuto (ed hanno tuttora) sull’economia di questi territori, è necessario invece comprendere che è l’ambito diplomatico quello che è stato maggiormente colpito. L’aspetto più prettamente economico di questo sistema è in fase di correzione, dal momento che sia l’Unione europea che la Russia si stanno rivolgendo verso altri mercati, riducendo (se non addirittura annullando) gli effetti economici delle sanzioni. Al contrario, le sanzioni diplomatiche continuano a sortire il loro effetto e, anzi, sono sicuramente responsabili dell’assenza di volontà e di possibilità di riaprire il dialogo. Tentando una previsione: è quasi impossibile che l’Accordo di partenariato possa essere riformato. L’idea di costruire un’area commerciale comune da Lisbona a Vladivostok è stata definitivamente abbandonata.
L’ingerenza russa nei processi elettorali dei Paesi europei è uno dei temi di discussione cardine del 2018. L’Italia sembrerebbe essere uno dei bersagli nel mirino del Cremlino, anche se, a dire il vero, l’attuale dialogo tra Lega Nord e alcuni esponenti nazionalisti russi ben si inserisce in una tradizione tutta italiana portata avanti dai partiti di estrema destra fin dagli anni ’90. Putin ovviamente respinge ogni accusa di ingerenza, affermando di avere a cuore le relazioni con l’Italia in quanto Stato. Sembra inoltre che la Russia abbia tentato di influenzare le campagne politiche anche di altri Paesi europei (ad esempio, Spagna e Paesi Bassi), oltre che di hackerare i siti istituzionali di Paesi quali la Francia e la Germania.
Il caso Skripal’ è la punta dell’iceberg delle difficili relazioni tra l’Unione europea e la Russia. L’avvelenamento, con gas nervino,di Sergej Viktorovič Skripal’ e della figlia Julia il 4 marzo 2018 rappresenta il definitivo punto di rottura dei rapporti tra Russia e Regno Unito, il quale non ha mai visto la Federazione di buon occhio, antipatia che perdura fin dalla Guerra fredda. Disintegrazione delle relazioni che si è ripercossa, ça va sans dire, sull’Europa intera. È sempre il livello diplomatico quello ad essere maggiormente colpito: le espulsioni di diplomatici russi si sono verificate in molti Paesi occidentali, con un’azione rispondente del Cremlino. Nonostante ancora non siano stati scoperti i colpevoli dell’avvelenamento, diversi Stati dell’occidente affermano che la colpevolezza russa sia “la sola spiegazione plausibile“.
Anche se la Russia ha cercato di (ri)avvicinarsi a singoli Stati membri dell’Unione europea (si prenda ad esempio la posizione di Paesi come l’Italia, l’Ungheria o la Grecia), la verità è che i due partner hanno sempre oscillato tra la creazione di relazioni di comodo e una crescente antipatia a livello culturale e politico. Il problema, comune a tutte le interazione dell’Unione con i Paesi terzi, è quello dell’obbligo per lo Stato estero di avvicinarsi e conformarsi all’acquis europeo. Se il giochino può ben funzionare con alcuni Paesi (si pensi ai numerosi Accordi di associazione conclusi, di cui il più importante è sicuramente quello tra Unione europea ed Ucraina, entrato in vigore nel 2017), di certo non può sortire lo stesso effetto sulla Federazione, la quale, in coerenza con la propria posizione, non ha mai accettato di essere inserita nella Politica europea di vicinato. Troppe diversità, ma soprattutto una fortissima identità russa, ancorata ai propri valori, che mai potrà cedere all’allargamento europeo. Il 2018 può quindi essere considerato come la conferma dell’impossibilità di un legame sincero e duraturo tra l’Unione europea e la Federazione russa. Non che ci si possa stupire di questo.
6) La morte di Zacharčenko, il ponte di Kerč’ e la crisi del Mar d’Azov: le tensioni con l’Ucraina
Il 2018 è stato un anno segnato da nuove tensioni tra Russia e Ucraina. A maggio, con l’inaugurazione del ponte di Kerč’, che collega la Crimea all’oblast’ russo di Krasnodar, Il Cremlino ha sigillato il suo controllo sull’ex territorio ucraino, annettendo le acque territoriali che bagnano la penisola. Un’ infrastruttura faraonica, un’autostrada lunga 19 km, destinata a divenire anche una ferrovia, ha reso di fatto il Mar d’Azov un altro grande lago di dominio russo. Nei mesi successivi alla costruzione del ponte, abbiamo assistito ad un’escalation delle tensioni nelle regioni del Donbass e un aumento delle ostilità in generale, culminate nella dichiarata uscita dal CIS del presidente Porošenko. Da mesi l’Ucraina accusa la Russia di aver subito ingenti danni alle sue attività commerciali nel porto di Mariupol, sulle coste del Mar d’Azov, che da sempre ha rappresentato un fondamentale snodo per gli scambi commerciali dello Stato.
Il conflitto inizialmente silenzioso si è trasformato in uno scontro aperto quando il 25 novembre la guardia costiera ucraina e la flotta militare russa si sono scontrate nelle acque della Crimea. Secondo quanto dichiarato da Kiev, le imbarcazioni ucraine avrebbero preventivamente avvisato la marina russa prima dell’avvicinamento. Se per l’Ucraina dunque l’attacco viola il diritto internazionale del mare – secondo cui il passaggio nel Mar d’Azov sarebbe di accordo consentito anche alle imbarcazioni ucraine – per la Russia la stessa consiste in una provocazione del presidente Porošenko, di cui i sondaggi danno la popolarità in forte calo.
Il ponte di Kerč’ e lo scontro nel Mar d’Azov non hanno rappresentato i soli motivi della marcata ostilità. Il 31 agosto altre tensioni erano sorte, in seguito alla morte del leader dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Doneck, Aleksandr Zacharčenko, ucciso da una bomba esplosa nel ristorante Separ, nel centro della città, a pochi metri dalla sua abitazione. Nell’esplosione è rimasto ferito anche il Ministro delle Finanze della Repubblica. All’avvenimento hanno fatto seguito le rispettive accuse dei governi di Kiev e Mosca. “Il vile omicidio dimostra una volta ancora che chi ha scelto la strada del terrore, della violenza e dell’intimidazione non cerca una soluzione pacifica e politica al conflitto”. Queste le parole del presidente Putin, che ha concluso”La Russia sarà sempre con voi”.
Il governo russo ha ritenuto che sia stato un attentato orchestrato dai servizi segreti ucraini per servire il governo di Porošenko. I servizi segreti Ucraini hanno respinto le accuse russe e di rimando hanno sostenuto che si fosse trattato del risultato di alcuni conflitti interni alla Repubblica e slegati dal potere governativo, oppure che sia stato lo stesso governo russo nel tentativo di eliminare una figura scomoda alla stessa Federazione, in quanto Zacharčenko rappresentava un testimone dell’azione aggressiva russa nella regione.
Secondo quanto riportato sul sito russo Ria Novosti, alcuni sospettati detenuti per l’omicidio del leader hanno confermato l’ipotesi del coinvolgimento dei servizi ucraini nell’attentato terroristico.
Insomma, il 2018 è stato decisivo per la Russia anche nei rapporti con l’Ucraina e ancor di più, con le nuove elezioni di Kiev all’orizzonte, il 2019 rappresenterà un anno di svolta. Le redini del rapporto con Mosca saranno probabilmente prese da Julia Timošenko, data per il momento in testa nei sondaggi. La sua ambivalente figura rappresenta un’incognita in balia dei rapporti tra Occidente e Russia, e la seconda parte del 2019 sarà decisiva per capire da che lato penderà l’ago della bilancia.
7) Medio Oriente. La pax russa?
Nel 2018, pur con risultati altalenanti, Mosca ha confermato il suo ruolo centrale nelle dinamiche mediorientali. Mentre nei primi mesi dell’anno l’influenza russa sembrava perdere tono (tra le proposte di graduale ritiro delle truppe e i deboli risultati degli incontri di Astana e Soči), nell’ultimo semestre il Cremlino ha ribadito la sua presenza fondamentale, anche grazie alle decisioni di alcuni competitor.
L’ago della bilancia russo si manifesta palesemente nel multilateralismo e nel pragmatismo dei rapporti internazionali. Mosca è, nei fatti, l’unica potenza capace di attirare e persuadere attori storicamente distanti, se non rivali. La Russia ha riaperto il dialogo con l’Arabia Saudita (arrivando a compromettere seriamente il ruolo dell’OPEC), pur rimanendo uno dei principali partner dell’Iran. In agosto, l’accordo con gli Stati rivieraschi del Mar Caspio (e quindi con la Repubblica islamica) sulla gestione dello spazio marittimo ha estromesso la presenza USA dal bacino e aperto nuove potenzialità per lo sfruttamento di nuovi corridoi energetici. Allo stesso tempo, ferma la considerazione di Israele come protagonista irrinunciabile e potenziale sostegno nello scenario mediorientale (al netto dell’incidente nei cieli siriani del settembre 2018), il Cremlino è stato capace di contrattare con Teheran l’allontanamento (mal digerito) delle truppe iraniane dal Golan. Non da ultimo, l’odi et amo con la Turchia sembra far parte del passato. Putin ed Erdogan, sempre più vicini su diversi fronti (da quello geopolitico a quello energetico) hanno trovato l’accordo-chiave per la momentanea tregua/spartizione della regione di Idlib e dei territori al confine turco-siriano, che contemporaneamente ha scontentato la protetta Damasco. Insomma, un jolly per ogni situazione.
A rafforzare il ruolo russo vi è il recente disimpegno statunitense dichiarato da Donald Trump. Per Mosca, la decisione simboleggia il superamento di Washington e il riconoscimento del Cremlino come protagonista in Medio Oriente. Certo, il vuoto americano lascia molte incognite e apre enormi problemi (la situazione curda in primis). Restano anche gli oneri. Come verrà gestita la ricostruzione siriana e, in generale, i nuovi assetti istituzionali in questa regione? Mosca da sola non può (e non ha interesse) nel gestire l’intero affare. Le regioni chiave sono limitate alla costa mediterranea e qualche scricchiolio dell’economia nazionale (la contestata riforma delle pensioni e le stime sulla crescita ferme al 1,5%) esclude qualsiasi ampio investimento.
Qui il ruolo di mediatore assume tutta la sua centralità. La Turchia ha, infatti, approfittato della tregua per occupare ed organizzare una zona cuscinetto al confine col Kurdistan siriano. L’Iran non può perdere voce in capitolo, dopo tutti gli sforzi nella lotta all’ISIS e in sostegno di Hezbollah tra Siria e Libano. Israele, come ovvio, teme la presenza iraniana e sembra sempre più pronta alla reazione e restia al dialogo. L’Arabia Saudita,per mantenere il suo ruolo dominante nella Penisola arabica (e in funzione anti Teheran) gioca di sponda sulla Siria, laddove Emirati Arabi Uniti e Qatar, riaprendo le relazioni con Damasco, sembrano aver visto potenziali investimenti.
Il supporto sicuro (o la potenziale minaccia), tuttavia, proviene da Pechino. La Cina dal 2016 è il maggior investitore in Medio Oriente e, dopo aver guadagnato un ruolo primario nell’Asia centrale ex-URSS, mette in pericolo lo stesso protagonismo di Mosca nello scenario mediorientale. Putin e Xi Jinping confermano la cooperazione strategica tra i due Paesi. Entrambi restano i principali interlocutori per la sicurezza nella regione, giocando talvolta ruoli complementari, talvolta in competizione. Mosca dovrà stare attenta a non porgere troppo il fianco ai progetti cinesi. La chiave di lettura fondamentale prevede l’abbandono di ogni struttura ideologica e l’attenzione sugli interessi e sulle potenzialità. Alleanze e rivalità storiche sembrano lasciare il posto a nuove prospettive, che riscrivono totalmente gli equilibri mediorientali.
Per approfondire
Se siete interessati ad approfondire i temi di cui abbiamo parlato, ecco una serie di link selezionati da noi:
Sulla Putinomics: https://bit.ly/2Vh6GLX; https://bit.ly/2Sv5C5q; https://bit.ly/2EY37W6
Sullo sport e il soft power russo: https://bit.ly/2R03Ix2; https://bit.ly/2rYYIJU; https://politi.co/2Qb3aiz
Sulla crisi dell’Ortodossia: https://bit.ly/2IT7np4; https://bit.ly/2Ro1Cq2; https://bit.ly/2QVDY4N
Sulla Russia e l’Occidente: https://bit.ly/2R047zy; https://bit.ly/2CGVDEE; https://bit.ly/2Ao81bf
Sulle tensioni con l’Ucraina: https://bit.ly/2EXsCGo; https://bit.ly/2R1W45r; https://bit.ly/2QbI2c2
Sulla pax russa: https://bit.ly/2EUcJ3r; https://bit.ly/2EYeKw9; https://bit.ly/2F04R06
Autori
Pietro Figuera, Andrea Rosso, Marco Limburgo, Francesca Corsetti, Claudia Ditel, Mattia Baldoni