Cosa ci dicono i dati degli ultimi mesi sulla partecipazione femminile alle manifestazioni in Russia contro la guerra in Ucraina e perché non riguardano solo la guerra.
A sette mesi dall’inizio dell’invasione su larga scala dell’Ucraina, la mobilitazione parziale ha segnato una nuova fase di malcontento e proteste in tutta la Russia. Avviatasi con un decreto ufficiale del presidente Putin il 21 settembre e terminata in maniera ufficiosa nella seconda metà di ottobre, con almeno 300.000 riservisti reclutati, la mobilitazione parziale ha spinto migliaia di persone a scendere nelle piazze russe, oltre 2000 delle quali arrestate nei giorni compresi tra il 21 e il 24 settembre. Altri 1051 arresti sono stati registrati tra il 24 settembre e il 24 ottobre, per un totale di 19.347 dall’inizio della guerra, stando all’osservatorio indipendente OVD-info. Sempre secondo i dati raccolti da OVD-info, il 51% dei manifestanti arrestati il 21 settembre e il 71% di quelli arrestati il 24 sono donne.
Se da un lato le altissime percentuali di settembre e ottobre sono verosimilmente da attribuirsi alla paura di molti uomini di essere arruolati con la forza, se arrestati durante le manifestazioni, dall’altro l’aumento costante della presenza femminile sembrerebbe dimostrare una maggiore presa di coscienza, se non impegno politico e attivismo, delle donne russe negli ultimi anni. Infatti, come riporta l’agenzia di stampa Reuters, alle manifestazioni del 2019 solo il 6% delle persone arrestate erano donne, percentuale che supera già l’11% nel 2021 e va oltre il 30% tra febbraio e marzo scorsi. Un aumento considerevole che risulta in linea con un altro dato su associazioni e collettivi femministi in Russia, passati da 30 nel 2019 a 45 nel 2021, secondo i dati diffusi da Ella Rossmann, ricercatrice dello University College di Londra.
Oltre a occuparsi di studi di genere e storia delle donne del periodo sovietico e post-sovietico all’interno del dipartimento di slavistica dello University College, Ella Rossmann è co-fondatrice nonché uno tra i volti più noti di quello che ad oggi è il principale collettivo femminista russo, Feminist Anti-War Resistance, attivo in quasi cento città del Paese. Nato immediatamente dopo l’invasione del 24 febbraio, il gruppo ha un proprio impianto politico e ideologico definito, nonché obiettivi precisi, esplicitati nel proprio manifesto fondativo, tradotto in 15 lingue. Tra questi, l’opposizione alla guerra e la promozione di un femminismo internazionale e intersezionale, che sappia cioè riconoscere l’importanza di combattere l’ingiustizia di genere su più fronti: non solo contro la guerra, appunto, ma anche contro patriarcato, autoritarismo e militarismo. Contro quella cultura che, secondo le attiviste del collettivo, ha portato all’invasione dell’Ucraina, e che, viceversa, viene fomentata al massimo grado dalla guerra in corso, come d’altronde dalle dinamiche tipiche di ogni guerra (che non sia di liberazione).
Feminist Anti-War Resistance non è attivo solo sul fronte delle manifestazioni pubbliche, di massa o in forma di singoli picchetti, ma porta avanti anche altri modi di protestare in maniera altamente simbolica e non violenta, come indossare indumenti dei colori della bandiera ucraina sul posto di lavoro o scrivere slogan pacifisti sulle banconote o sulle etichette dei prodotti al supermercato. Inoltre, si occupa di diffondere dati e informazioni sulla guerra in corso e sulle manifestazioni contro di essa che quotidianamente avvengono in Russia su base individuale. La loro attività di divulgazione avviene in diverse lingue, principalmente russo e in misura minore inglese, sia attraverso i social media che attraverso un proprio giornale, Ženskaja Pravda. Tra le attività del gruppo, promosse sul suo canale Telegram, c’è anche l’organizzazione di sportelli di assistenza legale e psicologica alle donne i cui familiari sono stati mobilitati e ai manifestanti arrestati o che vivono una situazione di disagio o di pericolo. Una rete, insomma, anche di solidarietà e supporto oltre che di protesta, che si è sviluppata a partire da realtà già presenti e attive sul territorio russo.
Negli ultimi anni, tuttavia, a crescere non è stato solo il numero delle donne che protestano e che si associano, ma anche le disuguaglianze di genere. Gli anni Dieci della presidenza Putin sono stati decisivi nel marcare con ancora più forza rispetto al passato una netta svolta autoritaria e conservatrice della Federazione che ha influito anche sulle questioni di genere. L’uso stesso della parola ‘genere’ è stato fortemente scoraggiato. Nel 2011 la Russia rifiutò perfino di siglare la Convenzione di Istanbul su violenza domestica e violenza contro le donne proprio per la presenza all’interno del documento di tale parola, ritenuta troppo vaga e inconsistente per le leggi russe. Del 2017 è in corso invece una legge che depenalizza la violenza domestica, fenomeno ben presente soprattutto in alcune repubbliche della Federazione, mentre più recente, di appena qualche mese fa, è la notizia che alla Duma si discuterà un emendamento per rendere più restrittiva la legge sulla “propaganda di relazioni sessuali non tradizionali tra i minori”, per cui scrivere o parlare di omosessualità verrebbe considerato di fatto un reato.
In un crescendo di provvedimenti che minano la libertà personale dei cittadini, il tema della lotta alle “devianze” e alla “propaganda gay”, in favore di valori “autenticamente russi” basati sulla famiglia tradizionale, e dunque sul ruolo tradizionalmente sottomesso della donna, è diventato centrale all’interno dell’ideologia putiniana, che se ne serve come bandiera identitaria in patria e all’estero, soprattutto in funzione antioccidentale. È anche per questo che i dati sulla partecipazione femminile alle proteste sono importanti, oltre che indicativi. I movimenti femministi, insieme all’attività di protesta delle donne e delle minoranze, etniche e di orientamento sessuale, hanno una rilevanza particolare nel contesto dell’attuale guerra e, più in generale, in quello dell’opposizione politica, oggi, in Russia.
Maria Vittoria Rossi