Gli sconvolgimenti politici seguiti allo scoppio del conflitto in Ucraina non hanno risparmiato l’Artico, che subisce il prezzo del cambio di asse della politica interna ed estera russa, mutata da una cooperazione (seppur problematica) con l’Occidente a una incentrata più sul mantenimento del potere a livello domestico e un maggior riavvicinamento alla Cina e agli altri BRICS.
Il Circolo Polare Artico era, è e sarà sempre più una questione cardine della Federazione Russa, essendo questa lo Stato più esteso nella regione e controllandone la grande maggioranza delle sue riserve fossili (ben l’80%).
Già da prima della guerra in Ucraina, con il documento strategico “Sui fondamenti della politica nazionale della Federazione Russa nell’Artico fino al 2035” approvato il 5 marzo 2020, la Russia aveva messo nero su bianco l’intenzione di mantenere la zona pacifica e di cooperare sia a livello bilaterale che multilaterale con i paesi parte del Consiglio Artico. Tuttavia, Mosca ha proceduto ad incrementare le esercitazioni militari nella Siberia settentrionale, non nascondendo un certo fastidio per le crescenti attività della NATO, e in particolar modo degli Stati Uniti, nella regione limitrofa. Il dialogo infine è riuscito a sopravvivere per circa due anni, anche grazie al cambio di presidenza del Consiglio Artico, che nel 2021 è stata data alla Federazione Russa. Arrivati al 2022, i progetti in campo economico, energetico, ma anche di ricerca scientifica, sono arrivati un punto di stallo quando, in segno di protesta contro la guerra, lo scorso marzo sette stati membri del Consiglio su otto (Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Svezia e Stati Uniti) hanno dichiarato l’interruzione della cooperazione con Mosca. I paesi artici hanno comunque dichiarato l’intenzione di continuare a lavorare con progetti multilaterali e bilaterali nella regione, ma ovviamente non a livello di Consiglio.
Conseguenza pressoché naturale del conflitto in Ucraina è il timore di un’escalation militare anche nella zona artica, che preoccupa in egual modo il Cremlino e i paesi occidentali. Lo scorso ottobre, Casa Bianca ha reso pubblica la Nuova Strategia Artica. In essa, si legge di un aumento della presenza della Guardia Costiera statunitense nella regione, che vedrà un ampliamento della sua flotta rompighiaccio. Altresì, gli Stati Uniti ritengono che la cooperazione politica nell’Artico tra il governo di Washington e quello di Mosca risulta impossibile nel breve e medio termine, rimanendo sempre speranzosi di poter riallacciare i rapporti in un futuro prossimo, senza però menzionare un possibile punto di raccordo per far ciò che questo avvenga.
La Russia è stata particolarmente allarmata dal processo di adesione di Svezia e Finlandia alla NATO, su cui si è dibattuto ampiamente in Europa l’estate scorsa. Questo allargamento della NATO consentirà agli alleati di disporre di maggiori basi e accesso al Polo Nord. Di rimando, a giugno, la Russia ha dichiarato la volontà di costruire due nuovi aeroporti a Nagurskoye e Temp, oltre che la ricostruzione di sette aeroporti di epoca sovietica da realizzarsi entro il 2030. La notizia è stata resa nota dal comandante della Flotta del Nord, l’ammiraglio Aleksandr Moiseyev, tramite l’agenzia di stampa TASS. Più recentemente, il 1° dicembre, il comandante in capo della Marina russa, Nikolaj Yevmenov, in occasione dell’inizio del nuovo anno di addestramento, ha sottolineato che nel 2023 la Marina rivolgerà “particolare attenzione allo sviluppo e al rafforzamento delle difese del paese nell’Artico e nell’Estremo Oriente”. Inoltre, sarebbe in corso la bonifica delle isole artiche e della costa continentale nelle aree di cui la Flotta del Pacifico e la Flotta del Nord sono responsabili. Infine, l’accerchiamento della Russia nell’Artico sembra venire anche dalla Norvegia, a seguite delle esercitazioni militari di quest’ultima ai confini più settentrionali, in corso da novembre. La portavoce del Ministero degli Esteri Maria Zakharova ha definito questa scelta come “la ricerca deliberata di Oslo di un percorso distruttivo verso l’escalation delle tensioni nella regione euro-artica e la distruzione finale delle relazioni russo-norvegesi”.
La situazione è altrettanto mutevole per quanto riguarda i progetti energetici e il settore economico. L’arresto della cooperazione tra Occidente e Russia ha infatti portato all’abbandono e/o rallentamento di vari lavori congiunti, come la joint-venture con Novatek riguardo il gas russo liquefatto Arctic LNG 2, in cui si trova partner anche la Cina. In questo progetto, le imprese cinesi non solo hanno investito, ma erano (e restano) fortemente coinvolte nella fabbricazione di componenti chiave. Novatek ha dichiarato che i primi moduli per la seconda fase del progetto sarebbero arrivati a Murmansk a maggio, ma i satelliti dell’intelligence statunitense, in un rapporto pubblicato da Tearline, hanno rivelato come, ancora a settembre, queste componenti si trovassero ferme nei porti di Pechino. La partnership russo-cinese rimane però solida, e va avanti cercando di soddisfare gli interessi geoeconomici di entrambe le parti.
Anche durante il quarto Energy Business Forum russo-cinese, che si è svolto a fine novembre, è stata ribadita l’importanza di questi rapporti da parte dell’amministratore delegato di Rosneft Igor Sechin. Quest’ultimo, nel suo discorso, ha ricordato che la “cooperazione tra Russia e Cina nell’Artico si sta sviluppando dinamicamente” e altresì si accoglie “con favore l’inclusione di partner cinesi in progetti nell’Artico russo”, in cui è compreso anche lo sviluppo congiunto della Northern Sea Route, seppur nel 2022 le navi cinesi non hanno navigato su questa rotta. La Cina è stata poi invitata nel progetto petrolifero Vostok, per il quale Sechin ritiene che “ridurrà la volatilità dei prezzi e ne impedirà forti fluttuazioni”. Rosneft intende produrre 115 milioni di tonnellate di petrolio entro il 2033, ma già entro il 2024 la produzione è stimata essere di almeno 25 milioni di tonnellate.
Il ragionamento è molto simile anche per quanto riguarda la Northern Sea Route (NSR), l’impressionante rotta di 5600km che si estende dallo Stretto di Kara alla Baia di Providence. La Russia guarda con speranza non solo alla Cina, ma anche a grandi economie emergenti come l’India. Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, in un incontro con il suo omologo indiano Subrahmanyam Jaishankar tenutosi l’8 novembre, ha dichiarato che i due paesi lavorano congiuntamente nella rotta del Mare del Nord, oltre che nei giacimenti di idrocarburi offshore. Secondo Lavrov, l’utilizzo di questa rotta apre prospettive interessanti per la Shanghai Cooperation Organization (SCO), di cui fanno parte tra agli altri Russia, Cina, India e i diversi paesi centroasiatici. “I paesi membri della SCO sono interessati a utilizzare questi vantaggi per sviluppare i loro legami economici, espandere i flussi commerciali e creare ulteriori infrastrutture di trasporto che ridurranno al minimo i costi e, di conseguenza, aumenteranno i profitti”, così ha ricordato il ministro. La Federazione Russa sembra quindi riprendersi dall’isolamento a Ovest in quest’ultimo periodo, almeno a livello formale.
Lo stesso presidente del Comitato per gli alti funzionari del Consiglio Artico Nikolaj Kornuchov, nelle Giornate dell’Artico e dell’Antartide che si sono svolte il 10 e 11 novembre, ha dichiarato che la Russia continua ad attuare il proprio programma anche senza i partner occidentali, e come per quando riguarda l’ambito energetico, si sta “mantenendo un dialogo sia con l’Artico che con i principali paesi extraregionali che aderiscono a un approccio costruttivo all’interazione ad alte latitudini”. In questa occasione, il presidente russo Vladimir Putin ha anche ricordato della spedizione scientifica North Pole 41 partita a settembre, un grande “progetto high-tech che consente di condurre osservazioni tutto l’anno dell’ambiente della regione e fornisce tutte le condizioni per il complesso e coraggioso lavoro di tutti gli esploratori polari”.
La Russia è poi fiduciosa dei successi della NSR, per cui si stima che verranno trasportati ben 200 milioni di tonnellate di carico entro il 2035, e per quest’anno circa 34 milioni di tonnellate, ben 2 milioni in più di quanto era stato stabilito. La notizia è stata resa nota durante la cerimonia del 22 novembre, durante la quale è stata sollevata la bandiera russa sulla rompighiaccio Ural ed è stata inaugurata partenza della nave Yakutia, a cui ha partecipato anche il presidente Putin in videochiamata. L’effetto complessivo supererà i 33 trilioni di rubli (circa 543,49 miliardi di dollari), e il CEO di Rosatom Aleksej Likhachev ha annunciato che si aspettano “entrate fiscali corrispondenti a oltre 13 trilioni di rubli”. Likhacev ha poi affermato che nel futuro prossimo più di 70 navi ice-class (rompighiaccio e carico merci) verranno costruite per l’esportazione e per il transito interno.
È quindi in atto una riorganizzazione interna, oltre che delle relazioni estere. Il Ministero per lo sviluppo dell’Estremo Oriente e dell’Artico ha annunciato, sempre a novembre, che i progetti di investimenti privati offriranno più di 28 mila posti di lavoro nella zona, di cui almeno 6 mila sono per personale altamente specializzato. Entro il 2035 si stima altresì che le posizioni lavorative disponibili saranno più di 180 mila. “Artico al giorno d’oggi significa opportunità per i giovani”, così ha affermato il vice ministro Anatolj Bobrakov. Tra le altre, l’Università federale dell’Artico del Nord Lomonosov sta inserendo nuovi programmi di studio, e similmente anche l’Università statale di Petrozavodsk con il progetto Digital Arctic IT-park. Le università russe sono quindi incaricate di creare questi nuovi esperti, che al momento il paese ancora non ha, ma che le circostanze attuali richiedono.