Dario Quintavalle è un esperto internazionale di cooperazione allo sviluppo. Ha vissuto in Ucraina lavorando alla riforma del sistema giudiziario. Insegna storia e politica russa all’Università Luiss di Roma. Scrive per Limes sullo spazio post-sovietico. Il nostro direttore, Pietro Figuera, lo ha intervistato a proposito della situazione ucraina e delle recenti elezioni presidenziali, che hanno visto il trionfo dell’ex-attore Volodymyr Zelenskij.
Quasi un plebiscito. Il 73% di voti con cui Zelenskij si è imposto al ballottaggio contro il suo rivale Porošenko è un risultato chiaro e inequivocabile, il più alto mai ottenuto da un candidato alla presidenza a Kiev. Si apre una nuova era di compattezza all’interno dell’opinione pubblica ucraina? O gli esiti del voto di domenica nascondono forse una scarsa chiarezza del programma elettorale dell’ex comico, giudicato da molti ambiguo?
Innanzitutto, sottolineiamo alcuni elementi inoppugnabilmente positivi: dopo i moti di piazza noti come EuroMajdan, queste sono le seconde elezioni presidenziali che si svolgono in modo ordinato, pacifico e democratico, come ampiamente riconosciuto dalla comunità internazionale. Il presidente uscente termina il suo mandato pacificamente, per effetto del voto popolare. Il presidente eletto è un ebreo, e questa, in un Paese che fu teatro di spaventosi pogrom all’epoca dell’impero zarista, è una novità non da poco. Quindi, chi insiste a definire l’Ucraina come un regime fascista o golpista dovrebbe prendere serenamente atto che si tratta invece di un Paese pienamente democratico, dove il processo elettorale è in grado di assicurare, periodicamente e regolarmente, competitività e ricambio dei vertici delle istituzioni.
Detto questo, il risultato di Zelenskij va calcolato sull’affluenza totale alle urne, che è del 62% in entrambi i turni. Considerato che dagli aventi diritto al voto occorre scalare il 12% della popolazione che è fuori dal controllo di Kiev (perché in Crimea o nelle zone separatiste del Donbass), non sembra un risultato disprezzabile. Quindi sì, Zelenskij ha messo d’accordo un po’ tutti, ma non direi che sia il sintomo di una nuova epoca di concordia nazionale (che poi gli Ucraini sono assai meno divisi di come li si descrive): invece è il sintomo di una profonda disperazione. Si è votato il nuovo sconosciuto, perché non si aveva fiducia nel vecchio già sperimentato.
Sui programmi, Zelenskij è rimasto nel vago, come fanno molti populisti anche in Occidente, per non scontentare nessuno, limitandosi a cavalcare l’onda antisistema che gli era favorevole, con un messaggio fortemente demagogico. E anche perché, molto semplicemente, nemmeno lui ha una risposta a tutte le domande.
La mappa del voto rispecchia in parte le previsioni. Il successo di Porošenko resta confinato alle regioni dell’estremo occidente ucraino. In tutto il resto del Paese, dal centro all’est russofono, è invece un trionfo di Zelenskij. Il vincitore ha capitalizzato chiaramente i consensi espressi precedentemente per il candidato “filorusso” Bojko, ma anche ottenuti dalla Tymošenko. Che impressioni hai avuto guardando la mappa dei consensi per Zelenskij?
Dal primo al secondo turno, Zelenskij ha più che raddoppiato il suo consenso, passando da 5,7 a 13,4 milioni di voti, mentre Porošenko appena da 3 a 4,4. Se guardiamo la cartina del primo turno, Zelenskij prevaleva in modo trasversale a Est come a Ovest, Porošenko e Tymošenko raccoglievano i loro maggiori successi in Galizia e Volynia, il primo anche a Kiev e nel collegio elettorale estero, mentre Bojko, il candidato filorusso, otteneva la vittoria nel Donbass non occupato e in Bessarabia, la parte meridionale della Moldavia assegnata all’Ucraina dopo la seconda guerra mondiale. Una zona, abitata dai Gagauzi, che è un altro potenziale focolaio di tensioni.
Un’altra osservazione si può fare relativamente alla consistenza delle forze filorusse. Al primo turno, i consensi dei due politici favorevoli ad un accordo con la Russia, Bojko (11,67%) e Vilkul (4,15%), sommati insieme avrebbero potuto scalzare Porošenko dal secondo posto al ballottaggio (c’è una differenza di appena 24000 voti). Inoltre, come detto prima, dal corpo elettorale manca il 12% della popolazione, perché residente sia nella Crimea annessa alla Russia, sia nella metà del Donbass sotto il controllo delle due repubbliche separatiste.
Se ne possono trarre almeno due conclusioni:
- la Russia – benché accreditata della capacità di influenzare addirittura le elezioni americane – non deve poi essere così influente, se non riesce a esprimere e appoggiare una candidatura unitaria;
- la strategia fin qui seguita da Mosca – con l’annessione della Crimea e fomentando il secessionismo del Donbass – ha avuto come paradossale effetto quello di rendere più omogeneo il corpo elettorale ucraino, sottraendo voti proprio al campo che storicamente esprimeva i candidati più vicini a Mosca.Fossi un nazionalista ucraino, quasi direi grazie a Putin.
Qual è stato, a tuo parere, l’elemento più determinante per la vittoria di Zelenskij? Il suo tentativo di superare le storiche fratture sociali, la volontà dichiarata di combattere la corruzione, o altro? Si può parlare di un’onda populista e anti-sistema che ha raggiunto anche l’Ucraina, o è sbagliato cercare di dare una risposta globale a questi eventi?
Io vedo che in Ucraina si cercano spesso degli indizi di fenomeni che si vogliono globali, quasi che l’Ucraina non avesse dignità di Paese a sé stante, ma fosse importante solo per i riflessi che quanto vi accade può avere per il mondo esterno. Come tempo fa era di moda “l’ondata fascista”, adesso è facile parlare di onda populista.
Ci sono delle indubbie somiglianze con quanto accade da noi, ma anche delle sostanziali differenze. Zelenskij è un comico come Grillo, certo, ma è anche un fenomeno totalmente mediatico e virtuale, privo di un partito e di una classe dirigente. Non c’è un Movimento 5 Stelle ucraino. E questo conta: l’Ucraina non è una repubblica presidenziale, e bisognerà dunque vedere se il nuovo presidente riuscirà a creare un suo partito in vista delle prossime elezioni politiche, cui trasferire il suo eccezionale consenso. Si sa, o almeno si sospetta, che dietro di lui ci sia l’oligarca Kolomoysky, e nella politica ucraina i soldi contano parecchio.
Ciò detto, io direi di non esagerare l’importanza di questo voto. Non credo che gli ucraini si aspettino molto dalle elezioni, né il potere vero in Ucraina è nello Stato. Secondo un recente sondaggio Gallup[1] la fiducia degli ucraini nel governo è la più bassa al mondo, mentre solo il 12% ha fiducia nel processo elettorale. Quindi l’elemento più determinante è stata soprattutto la stanchezza.
Il voto che conta davvero gli Ucraini lo hanno espresso con i piedi, andandosene. Il flusso migratorio verso l’Europa e la Russia è davvero imponente, e si aggiunge a una crisi demografica senza precedenti. Ciò fa gioco ai vicini, prima di tutto i polacchi, che hanno potuto sostituire con manodopera qualificata e a basso costo i propri lavoratori migrati in Occidente, e al tempo stesso possono evitare di farsi carico dei migranti africani o arabi che arrivano sulle nostre coste. Definendo tutti gli Ucraini come “rifugiati”, questa politica assume anche un aspetto ipocritamente umanitario. Questo è un messaggio anche per noi: ammesso che l’immigrazione sia un fatto storicamente ed economicamente ineluttabile, alcuni Paesi almeno governano la qualità dei loro immigrati, scegliendo di accogliere quelli più facilmente assimilabili per cultura o religione.
Anche in Italia c’è un vasto contingente di ucraini, credo mezzo milione: con tutta evidenza una comunità pacifica, lavoratrice, che causa ben pochi problemi e non si fa notare. Quindi per molti Paesi, incluso il nostro, l’emigrazione ucraina è una risorsa, alla quale però corrisponde nella madrepatria una tragedia. Lo dico per ricordarlo a quanti parlano dell’immigrazione in termini entusiastici, dimenticando che essa è spesso originata da autentiche catastrofi umanitarie.
Semmai, proprio la tranquilla assimilazione degli ucraini nelle comunità riceventi costituisce un problema per la madrepatria. Sì, gli emigrati magari sostengono l’economia ucraina con le loro rimesse (dalle quali dipende una quota gigantesca, circa il 14% del PIL), ma di certo si sono dimostrati incapaci di costituire un gruppo di pressione a favore del proprio Paese. Mi colpisce l’assenza di manifestazioni culturali, di mercati, di qualunque iniziativa che possa far conoscere l’Ucraina da noi.
Con il risultato che l’Ucraina è ancora un ‘robo‘ sconosciuto, un Paese di cui sappiamo poco, e di cui ci importa ancor meno. Ne consegue che le sanzioni economiche alla Russia, che hanno certamente avuto dei riflessi su alcune nostre categorie economiche, sono piuttosto impopolari.
[1] https://news.gallup.com/poll/247976/world-low-ukrainians-confident-government.aspx
Porošenko ha subito una sconfitta senza eguali. Colpa del suo governo o del modo con cui ha condotto la campagna elettorale?
Io credo che la storia rivaluterà un po’ la figura di Porošenko. Ha avuto un compito disperato e lo ha portato avanti con una certa dignità, anche se con stolida rigidità. Quando Janukovyč scappò, lo Stato ucraino era prossimo all’implosione. Interi settori delle forze dello Stato erano pronti a passare alla Russia. Janukovyč, lo ricordo, non è il Presidente deposto da un golpe, come spesso si narra anche qui, non è Salvador Allende: era un ladro, che dopo aver perso il controllo di una manifestazione popolare circoscritta a un paio di piazze della Capitale, scappò all’estero nottetempo portandosi dietro il tesoro dello Stato.
Sul piano interno, Porošenko ha portato a casa una serie di riforme molto importanti, magari con poca convinzione o scendendo a compromessi, e tuttavia imponenti per volume ed ambizione. Io trovo che se una critica gli può essere fatta è di aver vestito con troppa convinzione i panni del Presidente di guerra, anche indossando spesso la divisa. Il suo slogan “esercito, fede, lingua“, tradisce l’ambizione di creare una narrazione nazionale a partire dall’olocausto della guerra. Il problema è che questa narrazione era troppo esclusiva per un Paese complesso e variegato come l’Ucraina. Non credo che molti vi si riconoscessero.
Quanto all’esercito, non si può dire che abbia fatto molto per giungere al cessate il fuoco. Il Donbass è stato cinicamente distrutto, anche perché riconquistarlo con le armi era impossibile. La guerra è servita per dare un segnale, che un’altra transizione incruenta di territori da Ucraina a Russia, dopo la Crimea, sarebbe stata impossibile. Sul tema della fede si è adoperato, con successo, per il riconoscimento della Chiesa ortodossa ucraina separata dal patriarcato di Mosca, un risultato che avrà fatto felice qualche russofobo, ma certo ha lasciato indifferenti i più. Sull’ossessione per la lingua ucraina invece si sono misurati tutti i suoi limiti. La legge che proibisce l’istruzione superiore in lingue diverse dall’ucraino ha menomato i diritti linguistici delle minoranze – ungherese (150.000), polacca (80.000) e rumena (500.000), alimentando disaffezione all’interno e rancore nei vicini, a partire dall’Ungheria.
L’Ungheria, tra parentesi, da noi fa notizia solo per le posizioni poco ‘politically correct‘ di Orbàn: ma il vero tema caldo a Budapest è in questo momento la tutela delle minoranze magiare oltreconfine. Perché alienarsi un partner che può mettere il proprio veto sull’ingresso nella Nato e nella UE? È uno dei tanti esempi della stupefacente capacità dell’Ucraina di procurarsi nemici.
Agli Ucraini interessavano altre cose, soprattutto l’economia e il futuro. Temi su cui il Presidente uscente non ha saputo dare una risposta.
Secondo molti analisti, per l’Ucraina si apre una fase di grande incertezza. In gran parte dovuta all’ambiguità già citata del programma elettorale del neo presidente, e dalla sua inesperienza politica. Pensi che quest’ultima sia un grave problema, oppure che in qualche modo possa costituire un’opportunità? E in generale, come vedi i prossimi anni di Kiev?
Ah, ma l’Ucraina è in una fase di incertezza da quando è diventata indipendente. È un Paese che ha perso tutti gli autobus della storia. Si è scoperta una vocazione europeista quando ormai le porte dell’Europa erano chiuse.
Se guardiamo tutti gli indicatori di governance, è un Paese che è messo male, non solo rispetto all’Occidente, ma anche in confronto ai Paesi dell’ex-Unione Sovietica. E questo pone degli interrogativi sulla sostenibilità della democrazia ucraina. Per dire, guardiamo l’Indice di corruzione percepita di Transparency International: solo dal 2016 l’Ucraina ha fatto meglio della Russia, e solo dal 2018 meglio del Kazakhstan, mentre si trova 12 punti sotto la Bielorussia, già nota come “l’ultima dittatura d’Europa”. L’indice dello stato di Diritto del World Justice Project assegna all’Ucraina un posto leggermente migliore della Russia (0,5 contro 0,47) ma ancora inferiore a quello del Kazakhstan o della Bielorussia. L’indice Ease of Doing Business della Banca Mondiale ci informa che nel 2019 è assai meno facile fare affari in Ucraina che in Russia, Bielorussia, o Kazakhstan, Paesi non proprio liberali e che non hanno nemmeno un Accordo di libero scambio con la UE. Il Fragile State Index classifica l’Ucraina al 91° posto tra gli Stati più fragili del pianeta, quando nel 2013, prima di Majdan era al 117°.
Nel 2017 il PIL PPA pro-capite dell’Ucraina era 8656$ contro i 18616$ della Bielorussia e i 27890$ della Russia. Quest’anno il Fondo Monetario Internazionale assegna all’Ucraina il posto di Paese più povero d’Europa[2]: persino la Moldavia sta meglio!
Ora, come si spiega che un Paese democratico abbia indicatori di governance peggiori di quelli di paesi dittatoriali come la Bielorussia o il Kazakhstan? Come si spiega che dopo anni di progetti di assistenza tecnica europea focalizzati sullo Stato di Diritto, la Giustizia, la lotta alla corruzione, l’Ucraina faccia peggio, o poco meglio, di Paesi che quegli aiuti non li hanno ricevuti, e che su quei temi si suppone non si siano impegnati per nulla?
Ecco che questa contraddizione illustra i difetti dell’approccio occidentale, ed europeo in particolare, alla costruzione della democrazia.
[2] https://www.intellinews.com/imf-ranks-ukraine-as-europe-s-poorest-country-150301/
Il mantra europeo è che, per favorire lo sviluppo economico, occorrano delle istituzioni stabili e democratiche garantite da un forte e indipendente potere giudiziario, senza il quale gli investimenti diretti esteri non arriverebbero, perché non si sentirebbero garantiti. Da qui un impegno forte per l’Institution Building, con un particolare accento, in questo ambito, per le istituzioni giudiziarie: magistrature, tribunali, etc. Qui si vede tutta la mentalità legalistica che vige a Bruxelles: l’idea è che lo State Building preceda il Nation Building, e dunque che una volta costruiti gli Stati, attraverso un forte apparato normativo, si consolideranno le nazioni, che esprimeranno una leadership democratica. In realtà, storicamente accade esattamente il contrario, e questo spiega in parte il fallimento ucraino.
Poi c’è l’illusione che il caso ucraino potesse diventare il detonatore di un processo democratico capace di contagiare l’area ex-sovietica.
Leggi cosa scrive il corrispondente del Guardian, Shaun Walker[3]: “Il modo in cui Zelenskij è riuscito a scavalcare i politici tradizionali, con le loro infrastrutture di partito e le raffinate strategie di campagna, testimonia il fatto che la vera democrazia è fiorente in Ucraina, a differenza della maggior parte del resto dello spazio ex sovietico. Molti russi e bielorussi hanno assistito con invidia al dibattito di venerdì, immaginando come sarebbe stato vedere i propri leader dibattere in uno stadio“.
Ecco, io invece non credo affatto che lo spettacolo offerto da Kiev abbia suscitato alcuna invidia nei Paesi vicini. I popoli ex sovietici hanno una scarsa abitudine alla democrazia, e – piuttosto che alla libertà – danno la priorità alla stabilità, garantita da leaders magari autoritari, ma autorevoli. Non dico che la libertà non sia importante, ma ripeto, la stabilità viene prima.
Vista in quest’ottica, la vicenda del comico che conquista un Paese – senza avere un reale programma e senza esprimere una classe dirigente capace – se ha un carattere di esemplarità, è nell’illustrare – agli occhi dei cittadini ex-sovietici – piuttosto i vizi e i limiti della democrazia all’occidentale che i suoi pregi, e può essere assai più motivo di compatimento, che di invidia.
Putin viene sbrigativamente descritto da noi come un autocrate, uno ‘zar’ solitario, secondo uno dei tanti luoghi comuni che affliggono la nostra stampa: però è un fatto che, sotto il suo governo, i russi hanno goduto di un grado di prosperità, benessere e libertà, come mai prima nella loro storia, anche se certo insufficiente per i nostri standard. Lo stesso Lukashenko – capo di un regime obiettivamente illiberale, e assai meno preoccupato del consenso di quanto lo sia Putin – è riuscito a condurre il suo Paese a un certo grado di stabilità. Al confronto, la politica ucraina – così imprevedibile, ed ostaggio com’è di fazioni che hanno idee troppo divergenti ed irrealistiche sulla collocazione geopolitica del Paese – appare essere agitata da pulsioni francamente suicide.
Igor Pellicciari[4] ha evidenziato quante energie sono state dedicate in Russia alla costruzione dell’amministrazione statale. Ciò fa sì che i potentati economici debbano piegarsi di fronte a uno Stato forte, in regione del superiore interesse nazionale. Gli oligarchi esistono tanto a Mosca che a Kiev: ma in Russia è lo Stato che li controlla, in Ucraina lo Stato è controllato da loro.
Dopodiché, è vero, le elezioni si tengono regolarmente: però esse hanno prodotto una classe politica, ma mai un Padre della Patria.
[3] https://www.theguardian.com/world/2019/apr/20/ukraine-election-set-to-deliver-damning-verdict-on-traditional-politics
[4] Pellicciari, I., Spies, Jurists, Diplomats. Re-reading Russian Political History in the Putin Era (2000-2016) (2017).
Una delle accuse più ricorrenti per Zelenskij è data dalla sua (presunta) vicinanza al presidente russo Putin. La sua volontà dichiarata di raggiungere un compromesso con Mosca è stata chiaramente una strategia elettorale, per raggiungere sia i voti di quelle parti di popolazione idealmente più vicine alla Russia, sia quelli delle persone stanche della guerra e delle sue conseguenze per la stabilità e l’economia. Ma adesso, alla prova dei fatti, che accadrà tra Kiev e il Cremlino? E che conseguenze potrebbero esserci, nel medio termine, per il conflitto del Donbass?
I due candidati differiscono nei loro atteggiamenti nei confronti della Russia. Zelenskij è un madrelingua russo. La sua sit-com di successo “Servitore del popolo”, nella quale recitava la parte di un presidente, era in lingua russa. I suoi genitori sono ebrei, anche se non ha parlato delle sue convinzioni. Ed è cresciuto nel Sud-Est dell’Ucraina, un’area etnicamente russa vicina alla zona di conflitto.
Una delle (poche) posizioni chiare di Zelenskij è contro la già citata legge del 2017 sull’istruzione nelle lingue non ucraine – propugnata da Porošenko . Quasi la metà della popolazione ucraina usa il russo a casa e quattro delle cinque maggiori città del paese sono a maggioranza russofona. Tuttavia, nelle scuole dopo la quinta elementare è d’obbligo l’ucraino. Questo ha scatenato, come si è detto, le reazioni dei Paesi vicini, ma anche le inquietudini degli Ucraini dell’Est. Va ricordato che le proteste antigovernative che hanno preceduto la guerra nel Donbass nel 2014 erano state alimentate dalla notizia che il parlamento dell’Ucraina stava considerando l’abrogazione dello status del russo come lingua regionale.
Porošenko, con caratteristica insensibilità, non aveva saputo tener conto di tutte queste obiezioni. Così facendo in qualche modo dava ragione a Putin, e alla sua idea che i due popoli fossero uno solo in ragione della comune identità culturale e linguistica. Un’autentica sciocchezza, alla luce della storia: parlare inglese non ha impedito né agli americani né agli irlandesi di combattere per la propria indipendenza dalla Gran Bretagna, in fondo. Se molti russofoni hanno abbracciato “l’ucrainizzazione” del loro Paese come un passo necessario verso la costruzione della nazione ucraina – e si sono offerti volontari per combattere per l’Ucraina – l’ascesa di Zelenskij è un segnale che questa politica di negazione ha stancato.
Un aspetto affascinante della popolarità di Zelenskij, dunque, è che annuncia il pluralismo identitario. Il presidente eletto ha un evidente amore per la lingua russa, ma parla ucraino in modo fluente – ha annunciato la sua candidatura in tale lingua – ed appare come una figura unificante: promette una nuova Ucraina che può imparare ad accettare, e persino celebrare, la sua duplice natura bilingue senza essere, per questo, meno ‘ucraina’.
Di certo, il conflitto tra Russia ed Ucraina non è di natura culturale: la lingua è appena un pretesto. La posta in gioco è la collocazione geopolitica dell’Ucraina. La Russia non vuole saperne di avere un altro Paese NATO o UE ai propri confini, e finché non sarà rassicurata in questo senso, il conflitto continuerà. Zelenskij ha promesso un referendum sull’adesione all’Unione Europea e alla NATO – anche se osservando la freddezza con cui gli attuali membri guardano alla prospettiva di un’adesione ha commentato, scherzando: “Non sono abituato a imbucarmi a un party a cui non sono stato invitato“.
L’idea di un referendum sembra molto saggia, visto che sui progetti di adesione ed associazione nessuno, finora, né a Kiev né a Bruxelles, ha pensato di chiedere l’opinione dei diretti interessati, i cittadini – con buona pace dei valori democratici tanto propugnati dall’Occidente. La sua dichiarata disponibilità a parlare con Putin su come risolvere il conflitto nel Donbass dovrebbe essere raccolta a Mosca. Che potrebbe iniziare a manifestare buona volontà rilasciando i marinai ucraini sequestrati nello stretto di Kerc’ lo scorso novembre.
Se guardiamo ai risultati, la politica russa verso l’Ucraina degli ultimi anni è stata oggettivamente fallimentare, conducendo all’alienazione del Paese a sé più vicino per lingua, storia e cultura. Il grande interrogativo è se Mosca saprà far tesoro degli errori passati, e approfittare del cambio di governo a Kiev per voltare pagina e iniziare una fase nuova e più positiva nei rapporti tra i due popoli.
Anche per la Russia, dunque, questo è un treno da non perdere.