Per offrirvi un’anteprima sui contenuti del nostro ebook (disponibile qui), abbiamo intervistato Domenico Valenza, Senior Academic Assistant presso il College of Europe (European general studies programme) e Visiting Researcher presso lo United Nations University Institute a Bruges. Ogni domanda corrisponde a un quesito di fondo che è stato sviluppato, parallelamente e molto più approfonditamente, in ciascuno dei saggi presenti nell’ebook.
Innanzitutto, ritiene che vi sia da parte russa una strategia unitaria nei confronti dell’Europa? In che modo potremmo discernere gli obiettivi (prima ancora che i rapporti) di Mosca verso l’UE, la NATO o i singoli Stati che fanno parte di queste organizzazioni?
Se per strategia intendiamo un approccio onnicomprensivo e a lungo termine sulle relazioni con ciascuno di questi attori internazionali, la risposta a mio avviso è negativa nel senso che non esiste né una strategia, né tantomeno una strategia unitaria.
Si potrebbe rispondere: esistono policies e documenti strategici che predispongono linee guida in materia di politica estera russa, ad esempio i concetti di politica estera e la strategia di sicurezza nazionale. Ma affermare ciò significa a mio avviso non comprendere il funzionamento delle istituzioni russe e il cuore stesso del potere formale (e soprattutto informale) di cui godono il Cremlino e i suoi uomini chiave.
I documenti di policy raramente anticipano future linee politiche, essi cristallizzano piuttosto linee politiche già esistenti e applicate. Per fare un esempio immediato basta guardare alle azioni di soft power condotte a partire da metà o fine degli anni 2000 (si pensi a Russia Today): non troverete alcuna traccia di linee guida su information o media diplomacy prima del 2013, quando la parola ‘soft power’ viene accolta per la prima volta nel concetto di politica estera.
Pensare a una strategia, a indicatori e linee guida significa fraintendere il senso stesso dell’azione della Russia, basata su due elementi chiave: il tatticismo su base quotidiana e l’effetto sorpresa, favoriti entrambi dal fatto che il sistema politico russo, caratterizzato da una verticale di potere e da una debolezza complessiva delle istituzioni, facilita scelte rapide e flessibili. Se una strategia c’è potrebbe insomma essere riassunta così, in inglese magari: Putin’s short term tactics make Russia’s long term strategy.
Sono fondate, a suo avviso, le preoccupazioni che vedono nella Russia il primo attore interessato ad un fallimento (o almeno ad un rallentamento) dell’integrazione europea?
Sul fallimento preferisco non pronunciarmi perché le conseguenze sarebbero imprevedibili, non solo per gli attori direttamente coinvolti (gli stati membri dell’UE) ma anche i Paesi vicini e tutto il contesto internazionale. Sul rallentamento, piuttosto, trovo molto fondate le preoccupazioni. Un’Europa disunita permetterebbe alla Russia di tornare a giocare il great-power game, negoziando di volta in volta con Germania, Francia e Italia (i tre grandi Paesi dell’UE storicamente più vicini a Mosca) e rinnovando la propria influenza nello spazio post-sovietico, dove un’Europa disunita faticherebbe a fare fronte comune come accaduto in Ucraina. Ciò senza contare che, in base allo scenario politico, di volta in volta la Russia potrebbe sempre trovare un partner affidabile nella vecchia Europa (oggi sarebbe l’Italia, domani la Francia e così via).
Non dimentichiamo inoltre i vantaggi interni che la Russia potrebbe avere da un rallentamento dell’integrazione europea. La propaganda interna, nel raccontare la miglior Russia possibile, utilizza spesso come termine di paragone l’Europa e i suoi problemi ‘irrisolti’: terrorismo, migrazioni incontrollate, decadimento morale. Ecco, un rallentamento consistente del progetto europeo contribuirebbe a rafforzare l’attuale sistema di potere russo.
Quali sono gli interlocutori europei della Russia, e soprattutto quanto possono essere profondi o duraturi i legami che intercorrono tra Mosca e i cosiddetti partiti filorussi? Si tratta di relazioni volute e cercate da entrambe le parti? Si possono trovare delle costanti ideologiche, di cultura politica o di postura internazionale (anti UE o anti americana), in tali partiti considerati come più fedeli al Cremlino?
In ordine sparso potremmo menzionare la Lega Nord e in misura minore il Movimento 5 Stelle in Italia, il Front National in Francia (e in misura minore la France insoumise guidata da JL Melenchon), l’FPO in Austria e AFD in Germania. Trovo invece discutibile l’inserimento di Podemos in questa ipotetica lista di cavalli di troia del Cremlino, mentre su Syriza credo che nell’equazione pesino le comuni radici ortodosse e le difficoltà economiche di Atene. I fatti su molti di questi partiti sono noti: tra il 2016 e il 2017 Železnjak, parlamentare di Russia Unita, ha fatto da tramite per la firma di un accordo di cooperazione tra Russia Unita e l’FPO (Dicembre 2016) e la Lega (marzo 2017). Qualche settimana più tardi, Marine Le Pen ha effettuato una visita non ufficiale al Cremlino.
Trattandosi di accordi recenti, è presto per dire se saranno duraturi. Quel che invece possiamo dire è che il ‘corteggiamento’ non è biunivoco: ovvero, sono spesso i partiti filo-russi ad avvicinarsi a Russia Unita o ad altri uomini chiave del Cremlino. Prendiamo un caso di scuola: l’avvicinamento della Lega Nord ebbe inizio nei primi anni del 2010 e culminò con la visita di una delegazione (guidata da Salvini) in Crimea prima e in Russia poi, a Mosca, nell’ottobre 2014. In quell’occasione come anche nel 2015 Salvini incontrò Puškov, presidente della Commissione degli Affari Esteri della Duma ma la delegazione russa decise di non firmare l’accordo di cooperazione, cosa che avvenne invece solo a marzo 2017. È in un certo senso comprensibile che siano i partiti filo-russi, in cerca di maggiore legittimazione domestica e anche internazionale, a cercare Putin e Russia Unita e non il contrario. Putin, dopo tutto, rappresenta l’essenza stessa di quello a cui tale classe politica aspira: il richiamo ai valori ‘tradizionali’ e il rifiuto del liberalismo economico e dei diritti individuali, nonché una postura internazionale contraria al regionalismo e in favore del ritorno degli stati nazione.
In che modo l’energia viene utilizzata, dai russi, come uno strumento di potere e di influenza determinante nelle loro relazioni con l’Europa? O sono forse gli acquirenti europei a detenere un maggior potere contrattuale?
A proposito della relazione tra UE e Russia in materia di energia, in ambito accademico e di policy si è spesso parlato di interdipendenza. Il concetto di per sé è corretto anche se non permette di far luce su come tale interdipendenza si articola. Sull’energia in quanto strumento di influenza in Europa e in particolare nel vicinato siamo, credo, in una fase critica: da anni i Paesi dell’UE compiono un lento passo verso la diversificazione delle fonti. Ciò non implica la scomparsa della Russia in quanto attore chiave in maniera energetica; piuttosto, è il peso specifico dell’energia russa a variare, con il rafforzamento di altri attori internazionali o l’ascesa di nuove forme di energia. Sul lungo termine, vedo un’Europa – crisi delle istituzioni e populisti permettendo – sempre più forte in materia energetica, anche perché è forse il solo attore internazionale a prendere un po’ più sul serio (ma ahinoi non abbastanza)la questione del cambiamento climatico.
Entrando ancora più nello specifico delle sue dirette competenze, secondo lei esiste una politica
culturale unitaria che dia alla Russia una reale possibilità di competere con altri Paesi dal soft power
più sviluppato? Se sì, funziona? E quali frutti potrebbe dare nel prossimo futuro?
Più che di politica culturale, nel cui concetto rientrano sia azioni domestiche che esterne, parlerei di diplomazia culturale, ovvero dell’utilizzo della cultura in ambito internazionale per raggiungere obiettivi di politica estera. Una diplomazia culturale russa esiste eccome: essa si articola attorno a Rossotrudničestvo, l’Agenzia federale per il CSI, i connazionali all’estero e la cooperazione umanitaria e soprattutto attorno ai Centri russi di Scienza e Cultura (uno, molto attivo, è a Roma). Tra le attività i centri organizzano corsi di lingua e attività culturali e gestiscono altresì l’amministrazione relativa ai bandi per le borse di studio nelle università russe. Oltre ai centri, si pensi anche al ruolo di altre organizzazioni quale la fondazione Russkij Mir e il fondo per la diplomazia pubblica Aleksandr Gorčakov, senza contare il supporto dei mezzi di informazione (RT, Sputnik, Itar Tass), elemento sempre più importante e tuttavia ancora largamente trascurato nelle analisi accademiche e di policy.
Tale attività di diplomazia culturale, ancorché state-sponsored, non è svolta esclusivamente da attori pubblici ma ricorre anche al supporto di organizzazioni private. Basti pensare a tutte le associazioni culturali nelle quali hanno sede le prove del TORFL, l’esame del russo come lingua straniera. Valutare l’impatto della diplomazia culturale rimane oggi molto complesso, poiché tali politiche si inseriscono in dinamiche di lungo raggio. Occorre un monitoraggio costante di una certa audience per valutare l’impatto di tali azioni e al momento c’è poca letteratura in materia. Allo stesso tempo, trascurare la diplomazia culturale e più in generale le misure soft sono errori da non commettere: si ricordi a tal proposito come, al netto delle difficoltà attuali dell’Unione Europea, il cittadino comune continua ad associare alla parola Erasmus una narrazione positiva dell’UE. E cos’altro è l’Erasmus, se non un strumento d’azione culturale?
Infine, un paio di domande relative al nostro Paese. Ritiene che vi siano stati dei tentativi di ingerenza nel nostro sistema, nelle settimane precedenti al voto politico del 4 marzo scorso? Se sì, crede che possano aver influito in qualche modo nei risultati elettorali?
In linea con quanto detto poc’anzi, dubito che la Russia abbia una strategia di lungo termine volta a interferire negli affari domestici degli altri Paesi. Credo invece che, in un contesto di lotta per le risorse messe a disposizione dal Cremlino, i vari attori della diplomazia pubblica facciano a gara per compiacere la leadership e per avanzare l’immagine della Russia nell’Occidente e anche in Italia.
Volendo portare un caso concreto: in una ricerca attualmente in corso e ancora non pubblicata sto analizzando il discorso di alcuni media russi di lingua italiana (Sputnik e RT) in relazione alla crisi dei migranti e dei rifugiati di cui l’Italia è stata (ed è tuttora) protagonista. Mi interessa capire di quale Paese tali media abbiano raccontato nel 2015 e nel 2016. Benché si tratti di risultati preliminari, la conclusione è presto chiara: l’Italia è rappresentata come un Paese dalle capabilities deboli e dalle azioni inefficaci, in balia di problemi di sicurezza e terrorismo e di un multiculturalismo senza freni. Se per un tentativo di ingerenza intendiamo dunque la creazione di nuove narrazioni che solletichino il palato (e la pancia) della destra estrema, richiamando al bisogno di sicurezza e al decadimento dei costumi, non vi è dubbio alcuno che tale ingerenza esiste. Tali tentativi hanno chiaramente avuto luogo prima del voto politico e, pur non esprimendomi sul tema da ricercatore del fenomeno, credo possano giocare un ruolo nel risultato elettorale finale.
Le relazioni bilaterali tra Italia e Russia, nei prossimi anni, vedranno un salto di qualità o sarebbe più corretto inquadrarle in un’ottica di sostanziale continuità?
Molto dipenderà dalla posizione che l’attuale governo adotterà sul tema – sempre presente – delle sanzioni alla Russia. Che negli ambienti diplomatici italiani la Russia continui ad essere considerata come un partner di rilievo, non vi sono molti dubbi. In un mio commento a un’intervista rilasciata alcuni mesi orsono da Cesare Maria Ragaglini, già Ambasciatore Italiano a Mosca dal 2013 al 2017, all’Agi, ho espresso le mie perplessità sulle criticità esistenti nell’approccio suo (e non solo) alla Russia (qui). Governo e corpo diplomatico potrebbero avviare un tentativo di reset nelle relazioni con la Russia, ma per farlo dovrebbero anche scontrarsi con le resistenze di altri paesi dell’Unione europea. L’Italia fa già i conti con lo scetticismo di Bruxelles in relazione alla strada economica intrapresa: personalmente dubito nella forza del governo di imporre una nuova agenda anche in materia di azione esterna dell’UE.
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