Bandiere russe e gigantografie di Putin hanno accompagnato le proteste seguite ad uno degli ultimi colpi di stato africani. Segnali che hanno destato più di un sospetto sulle attività russe nel Burkina Faso della nuova giunta militare sotto il comando del capitano Traoré. Mentre ci si interroga sullo zampino russo nell’organizzazione del golpe, la Russia ha già messo le grinfie sul “Paese degli uomini integri”.
30 settembre 2022. Ad Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso, il sole non si è ancora levato. Si odono spari provenienti dal quartiere Ouaga 2000, sede del palazzo presidenziale e del quartier generale dell’esercito. La televisione nazionale viene improvvisamente oscurata, mentre in città l’esercito blocca l’arteria principale, Viale Charles de Gaulle. Solo a sera inoltrata il capitano Ibrahim Traoré annuncia la destituzione del presidente ad interim Paul-Henri Sandaogo Damiba.
Il Burkina Faso vive oggi uno stato di crisi interna permanente tra minaccia jihadista e la spinosa questione degli sfollati interni. È finito quel periodo di transizione democratica che aveva visto la luce a seguito della deposizione del longevo dittatore Blaise Compaoré. A fronte dell’incapacità di provvedere alla proliferazione di gruppi legati ad al-Qāʿida nel Maghreb islamico e alle insurrezioni jihadiste nel nord del Paese, anche la testa del suo successore Kaboré è caduta nel primo colpo di stato del 2022. Un golpe nel golpe, episodio non poi così eclatante per quelle latitudini.
Ad essere sorprendenti, invece, sono le tempistiche con le quali l’uomo forte della compagnia militare privata russa PMC Wagner, Evgenij Prigožin, si è congratulato con Traoré. “Un figlio della sua patria veramente degno e coraggioso”, con queste parole Prigožin ha omaggiato il leader golpista burkinabé. Lo stesso giorno l’analista filo-Cremlino Sergej Markov aveva scoperto le carte ed esplicitato lo zampino russo nel secondo colpo di stato dell’anno. A completare il quadro i manifestanti scesi in piazza ad Ouagadougou all’alba del nuovo golpe sbandieravano bandiere russe e attaccavano l’Ambasciata francese. Verso la fine di ottobre decine di dimostranti hanno inoltre sfilato per Ouagadougou mostrando gigantografie di Putin e chiedendo di troncare qualsiasi accordo con la Francia in favore del Cremlino.
Se non fosse per le tempistiche sospette, per gli striscioni e le bandiere bianco-rosso-blu, probabilmente la fedina penale russa sarebbe rimasta illesa. Sembrerebbe infatti trattarsi più di una faida tra generali che altro. Eppure, questi segnali hanno fatto pensare ci fosse qualcosa di più e che il popolo burkinabé non si fosse svegliato da un giorno all’altro invocando una Russia geograficamente e culturalmente lontana. In questa prospettiva l’interrogativo appare dunque più che lecito: Mosca c’entra qualcosa?
Alla lista delle prove incriminanti è necessario, infatti, aggiungere almeno altri due elementi. Il primo è il crescente ruolo russo nello scacchiere geopolitico africano e, in particolare, nel Sahel e nella regione sub-sahariana. Impegnata ormai da oltre dodici mesi nel calderone maliano, la Russia vuole dimostrarsi partner affidabile ed attento a non interferire troppo negli affari interni altrui. O almeno ci prova a parole. “Soluzioni africane per problemi africani” recita incessantemente la propaganda russa sui vari canali in lingua francese.
Il secondo riguarda il primato che la Russia non detiene, ma che vorrebbe accaparrarsi nella nuova lotta a quello che il Cremlino definisce “neocolonialismo occidentale”. Pioniera della lotta al colonialismo nell’immediato dopoguerra, la sua recente antenata sovietica riuscì di fatti a tessere relazioni di un certo rilievo con diversi movimenti di liberazione antiimperialisti. Degni di nota furono il Frente de Libertação de Moçambique (FRELIMO), il Movimento Popular de Libertação de Angola (MPLA) o l’appoggio al congolese Patrice Émery Lumumba.
Nell’era del nuovo scontro tra Oriente ed Occidente, la Russia cerca dunque anche in Burkina Faso di capitalizzare sul sentimento antifrancese, prodotto dell’era colonialista che ha ripreso vigore soprattutto a seguito del fallimento delle operazioni Serval e Barkhane che hanno visto la Francia impegnata tra Mali e Sahel per ben un decennio. Il Burkina Faso post-secondo golpe del 2022 non fa eccezione in questo senso. A pochi mesi dal golpe che la ha vista prendere il potere, la nuova giunta militare ha già confermato di aver richiesto il ritiro francese dal proprio territorio.
Ormai da anni Mosca tenta un approccio paternalistico reminiscente di quello sovietico atto alla cooptazione delle elite africane e all’avvicinamento a quei leader isolati a livello internazionale. Intrisa nel suo bagaglio storico e culturale, la Federazione possiede infatti una missione salvifica in chiave antioccidentale che non manca di reiterare nel continente africano. Narrazione che è ben recepita in un continente che è stato e che per tanti versi resta ancora oggi teatro delle velleità geopolitiche di attori occidentali e non.
Nonostante la povertà dilagante, il Burkina ad oggi si presenta come un paese ricco di risorse quali oro, zinco, manganese e cobalto. Quest’ultimo, scarsamente presente in natura, è oggi fondamentale per la produzione di batterie ricaricabili. Nella corsa alle risorse naturali in Africa la Russia è in prima linea e intende recuperare il tempo perso dopo il crollo del gigante sovietico. Tant’è che proprio lo scorso dicembre il governo burkinabé avrebbe concesso all’azienda russa specializzata in estrazione dell’oro Norgold una licenza per una nuova miniera nel paese.
Al di là delle congetture formulate senza prove empiriche, in questo stato di crisi la Federazione russa tenta un’incursione su più fronti. Stavolta, però, le prove sono schiaccianti. Lo scorso 7 dicembre il nuovo primo ministro burkinabé Apollinaire Joachim Kyélem di Tambela si trovava a Mosca in una visita che sarebbe dovuta restare fuori da sguardi indiscreti. Ad infoltire il mistero il fatto che, insieme ad una delegazione composta da ben undici ufficiali, il nuovo primo ministro burkinabé sia partito alla volta della Russia su un velivolo delle forze armate del vicino Mali.
L’ambasciatore russo in Burkina Aleksej Saltykov ha poi dichiarato senza mezze misure di essere in stretto contatto con il ministro degli Esteri burkinabé Olivia Rouamba. Lo stesso Apollinaire Joachim Kyélem di Tambela non ha nascosto l’intenzione di una cooperazione in ambito securitario e nella lotta al terrorismo. “Sappiamo che la Russia è una grande potenza e, se vuole, può veramente aiutarci in questo settore”, queste le sue parole. Parole che in più di una stanza del Cremlino risuonano come un imperioso richiamo.
Sebbene le autorità burkinabé abbiano finora negato la presenza di unità del Gruppo Wagner, non è escluso che in futuro si possa ricorrere a soluzioni alla maniera russa. Al di là della pessima reputazione della quale gode la Wagner in merito a massacri civili e sfruttamento di risorse minerarie, dopo il fallimento della comunità internazionale con missioni quali Minusma o EUTM Mali, l’armata di Prigožin potrebbe rivelarsi l’ultima spiaggia anche per il Burkina Faso.
Mentre l’Africa è divisa sulla tragedia ucraina, l’avventura russa nel continente acquista un ulteriore valore simbolico dal momento che il Cremlino è alla ricerca di nuovi partenariati strategici. Inoltre, se fosse confermato il ruolo della Russia nel Burkina Faso, staremmo di fatto assistendo ad un cambio di paradigma rilevante nelle odierne relazioni tra Mosca e il continente africano. Finora il Cremlino avrebbe tentato di monetizzare l’instabilità già esistente in paesi quali la Repubblica centrafricana. Ma se l’ultimo golpe burkinabé fosse veramente un’operazione di destabilizzazione da ascrivere alla Russia, allora staremmo assistendo ad una politica estera russa molto più proattiva nel continente e, dunque, ad un nuovo capitolo per la storia russa in Africa.
Ad oggi, non ci è dato sapere se la Russia sia stata direttamente coinvolta nell’ennesimo colpo di stato africano. Probabilmente non lo sapremo mai. Ma una cosa è certa: il Burkina Faso sta attraversando un momento epocale della propria storia. E i protagonisti di questa svolta non saranno i soliti francesi. Dalle strade di Ouagadougou in seguito alla defenestrazione di Damiba si levavano diversi cori. E tra i motti più ricorrenti se ne distingueva uno in particolare: “o la Russia o nessuno”.